Più di trent’anni dopo che gli astronomi avevano immaginato di lanciarlo in orbita, il telescopio spaziale James Webb, frutto della collaborazione tra le agenzie spaziali statunitense, europea e canadese, ha inviato le sue prime immagini. E che immagini: nebulose, ammassi di galassie, lenti gravitazionali come non le avevamo mai viste prima. E chi se ne importa, potrebbe dire qualcuno. Il pianeta brucia e noi guardiamo altrove, senza contare che il telescopio Webb è costato venti volte più del previsto: 9,5 miliardi di euro, una somma che l’ha fatto entrare nella lista dei progetti “troppo grandi per farli fallire”, continuamente salvati dall’alto per evitare il collasso di un intero settore. Non dovremmo piuttosto reindirizzare gli sforzi per risolvere le crisi che affliggono la Terra?

Alcune critiche alla gestione di questi mega-progetti, le domande sull’impatto ambientale e sulle conseguenze negative delle attività scientifiche e le richieste di obiettivi più concreti sono sicuramente giustificate. Ma la ricerca di base, compresi i progetti più ambiziosi, non è affatto superflua. È l’orgoglio dell’umanità, che in queste sfide può trovare lo spunto per superare le sue rivalità e le sue divisioni. Con il telescopio Webb e altri osservatori astronomici, con la Stazione spaziale internazionale, con i rivelatori di onde gravitazionali Ligo e Virgo, con il Cern e il suo grande acceleratore di particelle. Oppure con l’Iter, che punta a controllare la fusione nucleare entro una data ancora indeterminata. La guerra in Ucraina ha complicato alcuni programmi su larga scala: la cooperazione scientifica internazionale è regolarmente ostacolata dai conflitti, e alcune grandi potenze pensano che fare da sé sia un altro modo per marcare il territorio. Ma queste collaborazioni offrono altri orizzonti. Spesso richiedono decenni di sforzi congiunti, che rafforzano i legami tra generazioni e nazioni. Non dà forse le vertigini pensare che la prossima missione su Urano raggiungerà il pianeta ghiacciato solo nel 2044, e che alcuni dei suoi artefici, come i costruttori di cattedrali di un tempo, sono consapevoli che non potranno vedere il risultato dei loro sforzi?

La ricerca della conoscenza è un obiettivo in sé, che non deve essere asservito alla moderna religione del soluzionismo. L’attività scientifica fa parte della ricchezza dei paesi e contribuisce al loro status, e non bisogna dimenticarlo quando si stilano i bilanci pubblici. Ma è anche molto di più: i suoi risultati sono un’opportunità per ogni essere umano d’interrogarsi sul proprio posto nell’universo, di tendere l’orecchio verso l’eterno silenzio degli spazi infiniti. E forse, con questa conoscenza e la consapevolezza dell’immensità di ciò che resta da scoprire, possono spingerci a custodire meglio il nostro fragile rifugio alla deriva nel cosmo. ◆ ff

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Questo articolo è uscito sul numero 1469 di Internazionale, a pagina 15. Compra questo numero | Abbonati