I bambini e le bambine, in camicie bianche, pantaloni lunghi o corti e gonne blu, portano al collo il fazzoletto rosso dei giovani comunisti. A volte sono in posa, altre no, ma sempre all’aria aperta, in dialogo con la natura: in una risaia o sotto le foglie di un banano, tra palme da cocco, manghi e bambù, oppure sull’erba, in un’ampia varietà di verdi molto intensi. L’atmosfera è rilassata, calma, i bambini formano un cerchio che si staglia sullo smeraldo della risaia, uno tiene in mano un gallo bianco, due visti di schiena camminano per mano verso le case sullo sfondo, un piccolo gruppo è seduto sulla riva del fiume Mekong. Un’altra bambina è ritratta sdraiata accanto a un’arma giocattolo in un’immagine che non trasmette alcuna violenza.

Questo lavoro seducente, che prende posizione in modo chiaro rispetto alle immagini di propaganda, s’intitola My eden ed è l’opera di Pipo Nguyen-duy, un fotografo nato nel 1962 a Hue, una piccola città di frontiera del Vietnam del sud. Nguyen-duy rimase lì fino al 1968, quando l’offensiva del Têt, un attacco a sorpresa lanciato dall’esercito nordvietnamita e dai vietcong durante la guerra del Vietnam lo costrinse a scappare a Saigon (oggi Ho Chi Minh), dove si fermò fino al 1975. Poi fuggì via mare come migliaia di altri vietnamiti, conosciuti come boat ­people, e arrivò negli Stati Uniti. Studiò economia e belle arti in una piccola scuola del Minnesota, mentre a New York gestì alcuni bar e locali notturni. In seguito si trasferì due anni in India, dove approfondì il buddismo con dei profughi tibetani. Infine tornò negli Stati Uniti per dedicarsi alla fotografia e ad altre arti frequentando l’università del New Mexico e cominciò a insegnare in Oregon. Accanto alla sua attività di fotografo, da quindici anni insegna all’Oberlin college, in Ohio. “Il progetto è cominciato nel 2003 con la serie East of eden ed è durato dieci anni. È formato da tre capitoli: il primo racconta la mia esperienza durante la guerra del Vietnam e il mio stato d’animo dopo l’11 settembre 2001, che mi ha fatto ripensare a quello che era successo quando ero bambino. L’attacco alle torri gemelle ha fatto riemergere in me un’ansia che provavo sempre quando vivevo in Vietnam. Il secondo capitolo corrisponde al momento in cui ho deciso che per raccontare la mia storia non volevo fotografare negli Stati Uniti, ma tornare nel mio paese, per riflettere su quello che è successo dopo la guerra. L’idea, nata dalla mia esperienza personale, perché mio fratello ha subìto un’amputazione a causa del conflitto, si è concretizzata facendo ritratti posati a persone ferite e mutilate. Mi sono chiesto come potessero muoversi in un prato o in un giardino, in un paradiso che dopo essere stato distrutto è di nuovo tornato com’era. Nel terzo capitolo parlo invece della mia mancata esperienza di crescita in Vietnam, proprio perché ho avuto una vita diversa da queste persone. In alcune immagini metto in scena una sorta di gioco infantile, usando ancora una volta un paesaggio segnato dal conflitto ma ricostruito, come lo stagno con le anatre che un tempo era il cratere lasciato da una bomba. È un modo per ricordare l’eredità della guerra. Questi paesaggi così lussureggianti danno l’impressione di veder uscire i bambini da una sorta di paradiso”.

Le scene bucoliche create da Pipo Nguyen-duy combinano la riflessione sulla sua identità di profugo con la storia e la cultura del Vietnam. Nguyen-duy potrebbe essere oggi uno dei bambini che gioca in un luogo in cui sono state cancellate le tracce della guerra. Questo lavoro è anche un modo per riappropriarsi di un territorio: “Quando vivevo a Saigon quasi tutti i fine settimana andavo con la moto sul delta del Mekong. Alcune persone mi fecero conoscere il villaggio remoto di Ben Tre, che mi diede subito una sensazione di autenticità e serenità. Ma era anche un luogo in cui l’agente arancio (un defoliante tossico) fece danni enormi durante la guerra. La ragione per cui ho scelto la zona rurale di Ben Tre è che nel suo bosco selvaggio ho avuto l’impressione di essere in paradiso, anche se tutta quella bellezza è nata da qualcosa che in passato è stato devastato. Si tratta di un paradiso rinato. I bambini sono stati contenti di far parte del progetto. L’esperienza era molto divertente. A volte venivano in otto o in undici, anche se avevo bisogno solo di due di loro. Hanno fatto parte della squadra, sono stati pagati per la collaborazione e il denaro è servito per la loro istruzione. Era diventato un rito, ci riunivamo per parlare delle foto e giocare. Siccome scattavo d’estate, se non potevano venire sul set si arrabbiavano con i loro genitori e piangevano. Altre volte scherzavamo tutto il giorno e poi andavamo a prendere un gelato tutti insieme. È stato incredibile lavorare con questi bambini per diversi anni e vederli diventare ragazzi e ragazze. Ogni volta che tornavo ero testimone di grandi cambiamenti. Sono stati uno strumento meraviglioso per collegarmi a un luogo che non conoscevo, e al tempo stesso potevo veramente rispecchiarmi in loro, nell’innocenza e nella possibilità di crescere in un ambiente magnifico e senza alcuna tensione, come ho fatto anch’io. Era una possibilità per me di ripagare in qualche modo la mia terra, di contribuire e di reinvestire nella cultura”.

Presente e passato

Questo ampio autoritratto, che prende la forma di una fiction delicata e gioca con degli stereotipi anche ideologici, caratterizza il percorso di artisti che hanno conosciuto l’esilio in seguito alle violenze della guerra. La necessità di farsi carico o capire gli elementi costitutivi di un’identità complessa, la volontà di dire quello che si è stati e di tentare di sapere quello che si è diventati accomuna chi ha subìto la guerra del Vietnam, è fuggito ed è tornato, provvisoriamente o meno, nel suo paese d’origine.

“Volevo recuperare la mia infanzia, l’innocenza perduta e il fantasma di un’infanzia reinventata. Il progetto mescola i miei studi e la mia formazione occidentali e la mia sensibilità vietnamita. La questione è capire qual è la mia casa e dove mi vedo, essendo nato in Vietnam e cresciuto negli Stati Uniti. Come fotografo la cosa più importante per la creazione delle mie immagini è la storia, la lotta, il metodo di lavoro. Quello che conta è la possibilità di impegnarmi con le persone che fotografo e con cui lavoro”. ◆ adr

Da sapere
La mostra

◆ Il lavoro di Pipo Nguyen-duy è esposto fino all’11 giugno alla Biennale di Sharjah, negli Emirati Arabi Uniti. La mostra è stata pensata dal curatore nigeriano Okwui Enwezor prima della sua morte e poi allestita da Hoor Al Qasimi, direttore della Sharjah art foundation. Il tema di questa edizione è Thinking historically in the present.


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Questo articolo è uscito sul numero 1511 di Internazionale, a pagina 68. Compra questo numero | Abbonati