Vi siete mai chiesti cosa pensano veramente gli altri di voi? Per esempio, io mi considero una buona compagnia, anche se dopo aver bevuto qualche birra divento troppo loquace. Mi piace credere di avere una mentalità aperta e di essere attento agli altri, anche se a volte riconosco di avere un tono sprezzante. Ultimamente m’incuriosisce sapere come mi vedono gli altri. Lo ammetto: a volte mi chiedo se la gente mi trova più insopportabile di quanto io creda. È probabile che non lo saprò mai. Questo m’intriga: quanto è accurato il mio giudizio su me stesso? E chi è il vero me stesso: la persona che penso di essere o quella che vedono gli altri? Non sono ossessionato da me stesso. Vorrei solo sapere se il modo in cui gli altri valutano la mia personalità coincide con il mio. In poche parole vorrei capire se essere più consapevole di alcuni aspetti oscuri della conoscenza di sé possa rendere la vita migliore, la mia e quella di chi frequento. Ho già detto che non sono ossessionato da me stesso?

Per trovare delle risposte, ho fatto quello che di solito le persone ragionevoli evitano: ho chiesto ad alcuni amici, familiari e colleghi di darmi un’opinione sincera. Li ho pregati di compilare un questionario in sessanta punti progettato dagli psicologi per valutare la personalità e di dirmi due aspetti che associano alla mia persona: uno positivo e uno negativo. Poi ho aspettato con ansia i risultati.

Test della personalità

L’invito a “conoscere se stessi” ha origini lontane. Socrate diceva che una vita senza ricerca non vale la pena di essere vissuta. Ma per gli antichi filosofi greci, la ricerca della conoscenza di sé consisteva in un dialogo con gli altri per capire meglio la natura umana e come governare. L’interesse per l’introspezione è venuto alla ribalta nel seicento, con Cartesio. “L’idea che ci sediamo e riflettiamo su noi stessi, che facciamo introspezione, è moderna e occidentale”, dice il filosofo Mitchell ­Green, dell’università del Connecticut, negli Stati Uniti.

In un certo senso è impossibile non conoscere se stessi: pensiamo in continuazione a come ci sentiamo, a cosa mangeremo stasera e così via. Inoltre, ognuno di noi ha una conoscenza privilegiata della sua storia personale, dei suoi pensieri e sentimenti e di quello che fa da solo. Quindi possiamo immaginare che non ci sfugga niente sul nostro vero io, qui inteso non come essenza interiore immutabile, ma come modo in cui in genere pensiamo, sentiamo e ci comportiamo. In altre parole, la nostra personalità. Ma non è chiaro se si può avere un quadro preciso di tutto questo.

Per gli psicologi la questione è empirica. Il fatto è che l’autopercezione è un caso particolarmente spinoso del “problema dei criteri”: cin quale maniera possiamo valutare l’accuratezza di come ci percepiamo senza un criterio di confronto oggettivo? Negli ultimi anni i ricercatori hanno provato a superare il problema confrontando la percezione che abbiamo di noi stessi con quella degli altri. “Non c’è una strada diretta per arrivare al proprio vero sé”, dice Simine Vazire, una psicologa dell’università di Melbourne, in Australia. “Il modo in cui ci vede un gruppo di persone, che ci conoscono bene in contesti differenti e ognuna con pregiudizi diversi, potrebbe essere un criterio abbastanza preciso per valutare come siamo davvero”.

I ricercatori hanno confrontato la percezione di sé con le osservazioni di altri sul proprio comportamento. In un caso hanno confrontato le autovalutazioni delle persone sui tratti fondamentali della propria personalità con gli indicatori comportamentali di ciascuno di questi tratti in laboratorio. E hanno scoperto che c’era una correlazione abbastanza buona tra l’autopercezione e il comportamento effettivo. Risultati simili sono stati ottenuti con esperimenti fatti nel mondo reale, in cui i ricercatori hanno misurato il comportamento usando registrazioni audio della vita quotidiana dei partecipanti.

“In genere l’autopercezione consente di prevedere abbastanza bene i nostri comportamenti”, afferma Lauren Human, una psicologa della McGill university di Montréal, in Canada. Corrisponde abbastanza bene anche a come ci vede chi ci sta vicino.

Questo conferma la mia esperienza. Ho usato una versione online di un test chiamato “Big five inventory-2”, che si basa su uno dei modelli a cui ricorrono gli psicologi per valutare la personalità. È diviso in cinque tratti indipendenti l’uno dall’altro – estroversione, gradevolezza, coscienziosità, apertura mentale e nevrosi – e attribuisce un punteggio da a uno a cento a ciascuno. Quando ho fatto il test ho ottenuto un punteggio alto sull’estroversione (71) e sull’apertura mentale (96), medio sulla gradevolezza (65) e basso sulla nevrosi (48) e sulla coscienziosità (46). Sono rimasto colpito da quanto la percezione degli altri su di me fosse simile alla mia. C’erano però alcune differenze. Nel test, per esempio, alcune persone mi hanno dato un punteggio sull’estroversione e la coscienziosità più alto di quello che mi ero attribuito io.

Un piccolo gruppo si è scaldato al secondo compito, citando alcuni tratti negativi che associano alla mia persona e non rientrano nei cinque tratti previsti dal test. Tra i commenti più salienti c’erano “insistente”, “aggressivo” e “intrattabile”. Una persona ha fatto la classica domanda: “In tedesco esiste una parola per chi non ti lascia parlare in una discussione?”. Non ignoravo quegli aspetti del mio carattere, anche se ora mi rendo conto che forse sottovalutavo la loro portata. In generale comunque le discrepanze tra la percezione che io ho di me e quella che hanno gli altri erano minime, quindi ho concluso di conoscermi abbastanza bene. Tuttavia gli psicologi hanno dimostrato più volte che il modo in cui ci vediamo è influenzato da alcuni pregiudizi cognitivi che servono a illuderci su chi siamo. “La nostra autopercezione è tutt’altro che perfetta”, afferma Vazire.

Superiorità illusoria

Di solito ci inganniamo di più sugli aspetti della personalità che consideriamo altamente desiderabili o del tutto indesiderabili. “Ci sopravvalutiamo sugli aspetti che sono importanti per noi e anche su quelli ambigui”, afferma David Dunning della Cornell university di New York. Questo può manifestarsi sotto forma di una “superiorità illusoria”, quando sovrastimiamo le nostre qualità e ci giudichiamo in modo più favorevole degli altri. Per esempio Vazire ha scoperto che gli studenti che hanno partecipato alla sua ricerca si consideravano più intelligenti di quello che risultava dai test sul quoziente intellettivo e di come li percepivano le altre persone.

Quando c’illudiamo sulla nostra intelligenza, sul nostro aspetto fisico o sul nostro carisma, lo facciamo per migliorare il nostro valore e il nostro status sociale. Temo di essere caduto in questa trappola quando mi sono dato 96 sull’“apertura mentale”, mentre in tanti mi hanno assegnato poco più di 70. Il rovescio della medaglia è che molti di noi sembrano sottovalutare le loro qualità e dubitare delle capacità che hanno, un fenomeno noto come sindrome dell’impostore. “Se siamo sbilanciati in un verso o nell’altro dipende in gran parte dall’autostima”, dice Vazire. I partecipanti allo studio con una bassa autostima hanno sottovalutato la loro intelligenza, mentre quelli sicuri di sé si credevano migliori di come sono in realtà.

In molti casi, quindi, gli altri ci vedono con più chiarezza. O almeno possiamo dire che la prospettiva concomitante di osservatori terzi offra una visione più obiettiva su di noi, anche se ognuno ha i propri pregiudizi e punti deboli. Human afferma che “la percezione degli altri spesso predice il comportamento di una persona meglio di quello che potrebbe fare lei”.

Ma qui ci sono delle sfumature. Quando Vazire ha confrontato le valutazioni della personalità con i comportamenti filmati durante le attività di laboratorio, ha scoperto che i giudizi degli amici erano più accurati delle autovalutazioni su aspetti come l’intelligenza e la creatività. Invece per la nevrosi succedeva il contrario. Forse è più corretto dire che chi ci conosce bene vede cose di noi che noi ignoriamo, in particolare quando si tratta di aspetti della nostra personalità a cui teniamo e quindi troviamo più difficile giudicare con precisione. In generale, se c’è qualcosa che si avvicina alla verità oggettiva su chi siamo, è in un insieme di percezioni altrui. Quindi, non siamo le persone che pensiamo di essere. “In larga misura siamo ciò che la maggior parte degli altri pensa di noi”, afferma Daniel Leising del politecnico di Dresda, in Germania.

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La sincerità è difficile

Il problema per me è che la mia sensazione di come mi vedono gli altri, o metapercezione, si allinea perfettamente a come loro mi hanno valutato sui cinque aspetti della personalità, anche se sottovaluto fino a che punto posso essere fastidioso. Mi viene in mente che forse tutto questo sarebbe stato più divertente se avessi scoperto che la gente pensa davvero che io sia insopportabile.

Ma quando rifletto sullo schiacciante accordo tra i miei amici sul fatto che sono aggressivo e troppo loquace, posso capire cosa intende Leising quando afferma che la nostra metapercezione è spesso sbagliata.

La conclusione è che se vogliamo un quadro completo della nostra personalità dovremmo cercare un riscontro. Questa tesi, dice Mitchell Green, autore del libro Know thyself. The value and limits of self-knowledge (Conosci te stesso. Valori e limiti della conoscenza di sé), è rafforzata dall’idea di “inconscio adattivo”. Si tratta di un insieme di processi mentali che influenzano i giudizi e i processi decisionali, ma non sono colti dalla mente cosciente. “Se l’inconscio adattivo esiste, e molte prove lo confermano, è improbabile riuscire a vedere i nostri difetti e pregiudizi impliciti solo con l’introspezione”, afferma Green.

Non significa che l’introspezione non sia importante. Piuttosto, “abbiamo bisogno anche della prospettiva relativamente obiettiva degli altri”, dice. “Ma dobbiamo essere cauti, perché ascoltare un quadro sincero e completo della nostra personalità può essere spiacevole. Per questo è raro ricevere un’opinione diretta e sincera”.

Nel mio caso i punteggi che ho ricevuto sui cinque aspetti della personalità non mi hanno sconvolto. Ma forse non tutti sono in grado di sopportare le parole scelte dagli altri per indicare gli aspetti più negativi della loro personalità.

Il che ci porta all’altra grande domanda: cercare di conoscere noi stessi vale davvero la pena? Cosa ci guadagniamo a scoprire i nostri difetti mentre ci sforziamo di capire meglio chi siamo?

Da sapere
Tre test verso la conoscenza di sé

◆I nostri pregiudizi cognitivi e punti deboli fanno sì che gli altri vedano la nostra personalità più precisamente di noi, soprattutto i tratti che consideriamo importanti. Può quindi essere utile chiedere un’opinione sincera su di noi, sempre che pensiamo di poterla sopportare. Per farlo si possono usare i cosiddetti test di personalità a confronto che si trovano online. Ma tenete conto che ognuno ha i suoi pregiudizi e le persone più vicine a voi sono probabilmente le più prevenute nei vostri confronti. Per questo i parenti stretti potrebbero non essere i migliori giudici, dice Simine Vazire dell’università di Melbourne, in Australia. “Un giudice ideale è qualcuno che vi conosce bene ma la cui identità non è fusa con la vostra, per esempio un collega di lunga data con cui avete trascorso tempo anche fuori del lavoro”.

◆Un ostacolo alla conoscenza di sé è il cosiddetto ragionamento motivato: se per noi è importante essere carismatici o intelligenti, per esempio, sopravvalutiamo queste qualità in noi stessi per allontanare i pensieri negativi e sentirci bene. In questi casi, sostiene Erika Carlson dell’università di Toronto, in Canada, praticare l’autoconsapevolezza o mindfulness – cioè prestare attenzione ai propri pensieri e sentimenti senza giudicarli – è un buon metodo per superare l’ostacolo verso la conoscenza di sé. Così possiamo ridurre la reattività emotiva e mitigare la tendenza a illuderci. Secondo Carlson, una maggiore consapevolezza corporea potrebbe renderci più attenti ai comportamenti non verbali come aggrottare le sopracciglia o fare le smorfie.

◆Se una misura della nostra personalità è il modo in cui inconsciamente pensiamo e ci comportiamo con gli altri, non come pensiamo di comportarci, possiamo provare ad avvicinarci al nostro vero sé con un test di associazioni implicite, un metodo rapido per scoprire i nostri pregiudizi nascosti. “Non possiamo arrivarci con l’introspezione”, sostiene il filosofo Mit­chell Green, dell’università del Connecticut. New Scientist


Di solito avere una visione più precisa di sé è considerato positivo, dice Human. “Conoscere la nostra personalità dovrebbe aiutarci a prendere decisioni migliori nella vita”, per esempio su quale lavoro scegliere, con chi stabilire rapporti e così via. “Ci permette anche di avere interazioni più facili con gli altri e ci dà un senso soggettivo di coerenza e valore”. Secondo uno studio pubblicato da Human e dai suoi colleghi nel 2020, le persone che concordano di più con gli altri sulla loro personalità sostengono di essere felici.

Ha un senso. Il problema è che la maggior parte delle prove a sostegno di queste conclusioni si basa su correlazioni: “È difficile sapere se la conoscenza di sé promuove il benessere o se il benessere favorisce la conoscenza di sé”, afferma Human.

Vazire è più scettica.“L’obiettivo della mia ricerca non era solo vedere quanto le persone si conoscono, ma anche capire perché è importante: se chi ha una maggiore conoscenza di sé ottiene risultati migliori dalla vita”, dice. “La verità è che non sappiamo neanche se la conoscenza di sé sia positiva. Le prove sono inconcludenti, è una questione aperta”.

Possiamo immaginare uno studio che mette a confronto le persone con una buona conoscenza di sé e un gruppo di controllo, e seguirli per decenni per verificare se a lungo termine ottengono risultati migliori in materia di salute e rapporti umani. Ma uno studio simile non esiste, e forse per un motivo. “L’idea che potremmo intervenire sulla conoscenza di noi stessi per migliorare la nostra vita dipende dalla convinzione che la conoscenza di sé sia misurabile, che faccia bene e che possiamo modificarla. Ma sappiamo a malapena qualcosa sul primo punto”, dice Vazire.

“Non è stato ancora dimostrato empiricamente che le persone possano fare questi cambiamenti e che a loro volta i cambiamenti aumentino il loro benessere e i risultati sociali positivi”, afferma Human.

Come sottolinea Vazire, è possibile che in materia di benessere e felicità le convinzioni distorte diano risultati migliori. Qualcuno ha suggerito che ci sia un’“illusione ottimale”, cioè un punto di equilibrio tra vedersi positivamente e distorcere così tanto la realtà da avere problemi nei rapporti e nel lavoro. Detto questo, forse una giusta percezione di noi stessi potrebbe rendere più felici le persone che ci stanno intorno.

L’istinto di Green lo porta a proporre una via di mezzo. “Penso che la conoscenza di sé, nel senso più ampio del termine, che include la percezione degli altri, sia preziosa, anche se non pretendo di citare studi rigorosi a sostegno di questa tesi”. È un’intuizione in gran parte basata sull’idea che l’autopercezione influisce notevolmente sulle nostre relazioni e sulle decisioni importanti della vita. “Se non conosciamo noi stessi, rischiamo di sprecare i nostri sforzi per cercare di ottenere cose che non vogliamo veramente o non ci interessano”, afferma Green. Forse è più utile capire cosa è veramente importante per noi.

Per quanto mi riguarda, scoprire cosa pensano gli altri di me non è stata un’epifania. Ma è stato comunque un esercizio utile, perché ora ho un’idea molto più chiara di dove sbaglio, e mi sforzerò di smettere di parlare sopra gli altri.

“La nostra reputazione è un segno dell’impatto che abbiamo sul mondo”, afferma Vazire. “E dell’influenza che abbiamo sugli altri”. ◆ bt

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Questo articolo è uscito sul numero 1511 di Internazionale, a pagina 62. Compra questo numero | Abbonati