La chiamano “dueña de Lurigancho”, padrona di Lurigancho, e la sua leggenda aleggia su una delle carceri più terribili dell’America Latina. Il suo soprannome suscita l’invidia dei criminali più incalliti, che pagherebbero per avere un biglietto da visita simile nel giro della malavita. Eppure in vita sua Juana Lazo Díaz non ha mai rubato un telefono o un portafogli, né ha mai puntato una pistola alla testa di nessuno. Non si è coperta il volto con un passamontagna e non ha minacciato di sgozzare qualcuno con un coltello. Non ha nemmeno commesso il peccato veniale di prendere qualche chicco d’uva o un panino al supermercato senza pagare. Quello che appartiene agli altri non le interessa.

La dueña de Lurigancho è una donna di 74 anni che cammina con il bastone e si aiuta tenendo l’altra mano sul fianco. Non ha tatuaggi e la sua pelle non è stata sfiorata da nessun proiettile o dalla lama di un machete. Il suo sguardo non è intimidatorio. Anzi, fa tenerezza e ti fa venire voglia di abbracciarla come se fosse tua nonna. Il suo soprannome è uno scherzo del destino, dovuto a una storia che lei racconta con ironia, anche se è la grande tragedia della sua vita.

Dal 1966 Juana Lazo Díaz vive in un’enorme casa di 250 metri quadrati su una collina nel distretto di San Juan de Lurigancho, nella zona est di Lima, la capitale del Perù. Suo padre si trasferì lì con la famiglia quando le autorità decisero di costruire un carcere in quella zona semidesertica per alleggerire le altre strutture della capitale. Prima aveva lavorato nel famoso istituto Cepa (Colonia penal agrícola), nella foresta amazzonica di Ucayali, e il ruolo che gli avevano offerto come responsabile della manutenzione del nuovo carcere era un’opportunità da prendere al volo. A maggior ragione perché avrebbe avuto a disposizione una grande casa accanto al carcere, che era stata costruita dagli ex proprietari del terreno per sorvegliare meglio la zona.

Mai più feste

Juana Lazo Díaz ha passato tutta la vita in questa casa. Oggi le finestre sono coperte da teli di plastica e in lontananza si vede un ombrellone caduto che rotola in balìa del vento.

Juana Lazo Díaz è cresciuta qui con i genitori e i suoi otto fratelli, ha imparato a convivere con l’epilessia, è riuscita a finire la scuola, ha frequentato l’università, ha avuto due figli, si è ingobbita, le sono venute le vene varicose e qualche anno fa è diventata bisnonna.

Oltre alla solitudine, il suo problema principale è dover camminare ogni giorno su e giù per la collina dove si trova casa sua

Un tempo nella casa si organizzavano feste interminabili a base di pachamanca, un piatto tipico andino fatto con carne d’agnello, maiale, pollo o porcellino d’India cotte sottoterra.

Le feste però finirono nel 1996. Il carcere di Lurigancho aveva raggiunto un livello di sovraffollamento ingestibile e c’era bisogno di più spazio. Non poteva andare altrimenti: era stato progettato per 2.500 detenuti e aveva superato i diecimila. L’Instituto nacional penitenciario (Inpe), che amministra il sistema penitenziario peruviano, ordinò di allargare il perimetro della struttura. Con suo grande stupore, la casa della famiglia di Lazo Díaz fu inglobata nel progetto. Lei racconta spesso che si trattò di una vendetta della guardia repubblicana, la polizia responsabile della sorveglianza delle carceri, perché la sua famiglia era stata testimone dell’omicidio di una suora e di otto detenuti durante una rivolta nel 1983.

Dal 1996 la vita di Lazo Díaz è diventata un dramma eccentrico: vive all’interno di un carcere senza essere una detenuta. È in prigione anche se non ha commesso alcun reato. Ma il suo caso, in un certo senso, è l’iperbole dell’ingiustizia.

“Sono stata lasciata sola. Se ne sono andati tutti. I miei fratelli, i miei figli. Non hanno voluto battersi. Ma io gli ho sempre detto: ‘Mio padre si è guadagnato questa casa onestamente, perché dovrei abbandonarla?’”, racconta l’anziana, seduta a uno dei banchetti che vendono da mangiare davanti al carcere. È giovedì pomeriggio e oggi è giorno di visite. C’è movimento, di solito arrivano molte donne: madri, figlie, sorelle, mogli, compagne o amanti dei detenuti entrano con pacchetti di biscotti, cioccolatini, bibite, shampoo, sapone e carta igienica. I controlli all’ingresso sono scrupolosi, ma non per Lazo Díaz, che ha un permesso speciale concesso dal direttore del carcere per entrare e uscire quando vuole. Il problema nasce quando vuole ricevere delle visite. Ci sono molti ostacoli. Chi vuole andare a trovarla deve fare domanda per iscritto e l’accesso è autorizzato raramente. Per questo nessuno va mai a casa sua. Nemmeno il giorno del suo compleanno.

“Sono nata a San Valentino. So cos’è l’amore, anche se non voglio nessun compagno”, dice con un sorriso malizioso che le raggrinza ancora di più il viso. Juana Lazo Díaz è nata davvero il 14 febbraio, ma non le ha portato fortuna: è rimasta vedova proprio nel 1996, anche se si era già separata qualche anno prima.

Colazione alla bancarella

Oltre alla solitudine, il suo problema principale è dover camminare ogni giorno su e giù per la collina dove si trova casa sua. Se l’ingresso secondario del carcere è chiuso, deve passare da quello principale, che è più lontano, e per farlo ci mette in media 25 minuti. È caduta più di una volta. Per questo non fa più la spesa. Non ha neanche più un frigorifero. Fa colazione e pranza sempre alla bancarella della sua amica Telma, una donna sulla quarantina che la serve come se fosse sua madre. Lazo Díaz paga l’amica alla fine del mese, con i soldi provenienti dai suoi due unici mezzi di sostentamento: la pensione dell’ex marito e i soldi dei panini con il tonno che vende tre volte alla settimana.

In tutto questo tempo, l’Inpe ha chiesto due volte che fosse sfrattata, ma le procedure non sono state eseguite. Negli ultimi mesi l’avvocato Rolando Barrios l’ha assistita gratuitamente. Il problema è che Lazo Díaz non ha un certificato di proprietà. Ha ereditato la casa attraverso un meccanismo chiamato trasferimento del possesso. E l’Inpe sostiene di essere il vero proprietario dell’immobile. “La signora chiede solo un posto in cui poter trascorrere comodamente i suoi ultimi anni. Se lo stato non può darle una casa, è giusto che le dia un risarcimento civile per i maltrattamenti subiti per il solo fatto di vivere all’interno della struttura del carcere di Lurigancho. Chiede trecentomila soles (circa 73mila euro)”, spiega Barrios.

La dueña de Lurigancho – che porta nelle sue borse documenti, ritagli di giornale che raccontano la sua storia e foto della sua vita – è soprattutto una signora sorridente che recita barzellette a memoria. “Con (Fernando) Belaunde, il Perù affondava tra le onde; con (Juan) Velasco, il Perù era un fiasco; con ‘Chino’ (Fujimori) era bruttino; e con (Alejandro) Toledo, l’onestà è in congedo”, dice riferendosi agli ex presidenti del paese. E filosofeggia: “Dio ha fatto il mondo e si è riposato. Poi ha fatto la donna e da allora né dio né l’uomo né il mondo si sono riposati”. Ride e accende una vecchia radio da cui esce della musica creola che alleggerisce l’atmosfera. Mancano ancora molte ore prima di rientrare in carcere. Lo farà al tramonto, come ogni giorno. Nel frattempo, la dueña del Lurigancho ha una richiesta urgente: una bibita, grazie. ◆ fr

Biografia

1950 Nasce in Perù.
1966 La sua famiglia si trasferisce nel distretto di San Juan de Lurigancho, nella zona orientale di Lima, perché il padre va a lavorare nel carcere locale.
1996 Le autorità peruviane decidono di ampliare il carcere e la casa della famiglia di Lazo Díaz è inglobata nell’area dell’istituto penitenziario.
2022 Chiede allo stato peruviano un risarcimento che corrisponde a circa 73mila euro.


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Questo articolo è uscito sul numero 1511 di Internazionale, a pagina 74. Compra questo numero | Abbonati