Le opere di Manuele Fior quasi narrano una storia del mondo, o controstoria, inconsapevolmente unita da una telepatica simultaneità degli eventi, una sorta di rilettura spirituale del concetto di entanglement della meccanica quantistica. In questo racconto, premiato al Comicon di Napoli per la miglior sceneggiatura, si scivola di continuo dagli scavi archeologici che nei primi anni venti portarono alla scoperta della tomba di Tutankhamon a una storia d’amore tra due ventenni italiani nella Berlino di fine anni novanta, nel pieno dell’esplosione culturale della città. Epoca di speranza che rompa la circolarità del tempo verso un nuovo orizzonte, che si chiude con le ombre degli attentati dell’11 settembre. Quale futuro? Fior non racconta mai il futuro e il passato come li intendiamo noi, proprio come gli egizi. E sperimenta nel rileggere il manierismo della pittura e dell’illustrazione, una scelta ardita, quasi un po’ folle e visionaria. Se una certa tendenza a fare un Hopper morbido ma estetizzato risulta a tratti un po’ stucchevole, se per i personaggi, molto belli, si vorrebbe qui un po’ più di introspezione psicologica perché questa volta sono meno maschere rispetto agli altri suoi racconti, tuttavia moltissime sono le sequenze magiche, da capolavoro, mai viste e al tempo stesso da sempre esistenti, come quasi solo lui sa fare. Del resto, non è facile sperimentare. Perché non è mai un moto circolare.
Francesco Boille

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Questo articolo è uscito sul numero 1511 di Internazionale, a pagina 92. Compra questo numero | Abbonati