C’è una parte enorme di fotografia prodotta nel ventesimo secolo che è stata poco valorizzata o è stata completamente distrutta. È quella realizzata negli studi, spesso a conduzione familiare, che un po’ in tutto il mondo lavoravano su commissione. Facevano foto per documenti d’identità o ai matrimoni, e ritratti a neonati, giovani militari e preti. E poi tutte quelle immagini in posa che arricchivano gli album di famiglia o troneggiavano sulle pareti di casa. Queste attività sono state man mano costrette a chiudere a causa della diffusione della fotografia amatoriale e per via delle grandi aziende, che producevano le loro pellicole e realizzavano direttamente le stampe. Molti degli archivi di questi studi sono stati distrutti nonostante costituissero un materiale interessante, sia dal punto di vista sociologico sia per la creazione di un’estetica codificata.

L’archivio dello studio Rex di Marsiglia (che ha chiuso nel 2018) ne è un esempio. Grazie al lavoro del collezionista francese Jean-Marie Donat, oggi migliaia di immagini realizzate tra il 1966 e il 1985 costituiscono una straordinaria memoria dell’immigrazione. Lo studio fu fondato da Assadour Keussayan.

Nato nel 1907 in Turchia, sfuggito a otto anni al genocidio armeno, Keussayan arrivò in Francia agli inizi degli anni venti. Nel 1933 aprì l’attività a Marsiglia e nel 1954 si trasferì definitivamente a place d’Aix, dove svelò i segreti del suo lavoro alla figlia Germaine, che poi si specializzò nel fotoritocco.

Nel 1966 arrivò anche il figlio Grégoire, che si occupò degli scatti, delle stampe e dei ritocchi a pastello. Come succedeva spesso in molti studi, dopo dieci anni, una parte degli archivi fu distrutta per mancanza di spazio.

A Belsunce, il quartiere di Marsiglia situato tra la stazione e il vecchio porto, in cui c’era la sede dello studio, soggiornavano per brevi periodi gli immigrati appena arrivati in Francia, che poi andavano a lavorare in altre regioni del paese, per lo più nelle miniere e nell’industria pesante del nord e dell’est. Spesso non avevano neanche il tempo di andare a ritirare le fotografie che si erano fatti fare, ecco perché sono entrate in questo archivio. Nella maggior parte dei casi sono foto che servivano per i documenti, soprattutto per i permessi di soggiorno.

C’è una maggioranza di uomini, di tutte le età, ma sono presenti anche donne e bambini. Sul retro non c’è nessuna indicazione: né il nome né la data né il paese d’origine delle persone fotografate. Così ci ritroviamo di fronte a centinaia di sguardi che fissano l’obiettivo, e possiamo immaginare i momenti precedenti allo scatto e inventare dei possibili futuri. Sono immagini che avevano solo una funzione amministrativa, ma si sono trasformate in strumenti per illuminare altre storie.

Un ponte tra due rive

Alcune fotografie sono piegate, rovinate, altre portano le tracce delle graffette, probabilmente erano state usate e poi recuperate. Ci sono quelle con i bordi dentellati e quelle tagliate in modo netto, tutte hanno un bordo bianco o nero. Ci sono ragazzi, anziani, uomini con i baffi e senza; c’è chi indossa la giacca, chi ha il colletto della camicia aperto, chi ha la cravatta e chi è arrivato direttamente dal suo villaggio con la kefiah bianca. Hanno quasi tutti un’espressione seria, solo qualche bambino sorride. Un’intera popolazione proveniente dal Nordafrica (per lo più dall’Algeria), dall’Africa subsahariana o dalle Comore, ritratta all’inizio di una nuova tappa della propria vita.

Nell’archivio dello studio Rex, che comprende più di diecimila negativi di formato 13x18 destinati ai documenti ­­­di identità, ci sono circa settecento foto cosiddette da portafogli, ovvero immagini scattate nel paese d’origine, che aspettavano di essere ritocccate e a volte colorate dallo studio di Marsiglia. Ci sono anche più di un centinaio di foto in cui le persone posano con vari accessori, tra cui una parete in ferro battuto con un vaso di fiori artificiali, che ricordano le immagini molto conosciute di studi africani, come quello di Bamako, in Mali, di Malick Sidibé. Uomini e donne posano in piedi, spesso da soli, ma c’è anche qualche ritratto di coppia: a volte due donne, forse sorelle; altre, una donna con i due figli; coppie di uomini, fratelli o amici, e in casi più rari un’intera famiglia. La macchina fotografica mette in evidenza una diaspora incredibilmente diversificata.

Alcuni portano occhiali da sole o un elegante fazzoletto da tasca per abbellire la giacca, altri hanno adottato la moda del nuovo paese in cui sono arrivati, indossando jeans a zampa d’elefante e t-shirt. La diversità è una costante dell’archivio: si passa dall’uomo con il completo a quadri al dandy in giacca corta attillata, dal ragazzo con la tunica tradizionale a quello con la ventiquattrore.

Abiti eleganti, pose studiate, il ritratto di studio è un momento solenne. La maggior parte delle persone si faceva scattare queste foto per mandarle alle proprie famiglie rimaste a casa. Era un modo per dimostrare che tutto andava bene. Ma al tempo stesso erano anche un’affermazione d’identità e forza. Alcune sono delicatamente dipinte, sembrano quasi finte, e trasformano questi immigrati in personaggi romantici.

Le immagini del loro passato e quelle fatte in Francia s’incrociano, creando una storia in continua evoluzione, diventando al tempo stesso una memoria riscoperta e una forma di finzione.

Dieci anni fa il collezionista Jean-Marie Donat ha salvato decine di migliaia di foto dell’archivio dello studio Rex e ora le ha rese pubbliche grazie a una mostra intitolata Ne m’oublie pas (Non dimenticarmi) esposta a Les rencontres de la photogra­phie di Arles, in Francia, e al libro Belsunce. Ne m’oublie pas (Delpire & co 2023): “Di questa folla cosmopolita non rimane né il nome né la data né il loro percorso. È un modo per ridare corpo a queste persone che la storia ha reso invisibili. Grazie a queste fotografie della prova, della traccia e del ricordo, si riallaccia il dialogo tra le due rive del Mediterraneo. Queste immagini sono un ponte tra la Francia e l’Africa, tra il passato e il presente, un viaggio – quello del migrante e della foto – che riabilita la nostra memoria”. ◆ _ adr_

Da sapere
Il festival e il libro

◆ Il libro Belsunce. Ne m’oublie pas (Delpire & co 2023) è curato dal collezionista Jean-Marie Donat e contiene testi della giornalista di origine algerina Souâd Belhaddad. La mostra Ne m’oublie pas, collection Jean-Marie Donat è esposta al festival **Les rencontres de la photographie **di Arles, in Francia, negli spazi della Crosière, fino al 24 settembre 2023.


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Questo articolo è uscito sul numero 1526 di Internazionale, a pagina 60. Compra questo numero | Abbonati