È il 1986. Syvert Løyning, diciannove anni, torna a casa dopo il servizio in marina e trova la madre vedova che fuma compulsivamente. Se non sta morendo di cancro ai polmoni, ci sta provando. Cosa dobbiamo pensare del lento declino di Syvert tra le terre marginali della Norvegia meridionale (boschi, brughiere e laghi, campi da calcio e stazioni di servizio)? E che dire della sua altrettanto lenta ripresa, quando trova una fidanzata (Lisa), un lavoro (in un’impresa di pompe funebri) e uno scopo: rintracciare la seconda famiglia segreta del padre morto in Unione Sovietica? A metà strada, il romanzo s’interrompe e si sposta nella Russia di oggi per seguire Alevtina, la sorellastra di Syvert, mentre va alla festa per gli ottant’anni del patrigno. Alevtina si descrive in modo autoironico (ma accurato) come “una specie di biologa hippy che parla con gli alberi”. Entrambe le metà del romanzo hanno i loro punti di forza, ma quella di Alevtina è di gran lunga la più brillante, capace di cogliere il potere celato nell’ordinarietà delle cose. Come quando Syvert mette a posto le vecchie scatole di suo padre, “non per avvicinarmi a lui, ma piuttosto per allontanarlo da me, per rimetterlo nelle sue scatole, con le sue cose”. I lupi nel bosco dell’eterno non parla di nulla, ma ha molto da dire.
Simon Ings, The Daily Telegraph

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Questo articolo è uscito sul numero 1534 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati