Conoscere il cervello è uno dei principali obiettivi della scienza moderna e a volte le ricerche portano a scoperte davvero sorprendenti, come nel caso di uno studio pubblicato di recente su Nature: i ricercatori dell’università di Stanford, negli Stati Uniti, hanno trapiantato neuroni umani nei ratti e li hanno visti svilupparsi, diventando pienamente funzionali. I neuroni hanno infatti creato collegamenti con le cellule cerebrali dei ratti, contribuendo almeno potenzialmente a determinare il comportamento degli animali. Il metodo permetterà di conoscere meglio il cervello umano e le malattie che lo affliggono.

Sergiu Pașca, dell’università di Stanford, lavora da più di dieci anni sugli organoidi cerebrali, piccoli gruppi di neuroni di solito creati a partire da staminali ricavate da cellule della pelle umana. Gli organoidi permettono ai ricercatori di studiare le cellule cerebrali umane in modo eticamente accettabile.

Ci sono però dei limiti a quanto gli organoidi possono insegnarci, perché non riproducono tutto quello che avviene nel cervello. Per esempio, non creano la stessa rete di connessioni complesse, non generano segnali elettrici nello stesso modo e non riproducono tutte le strutture presenti. Infine, non è sempre facile capire come i cambiamenti strutturali osservati in un organoide si traducano in comportamenti nella realtà.

Per superare questi problemi il team ha trapiantato gli organoidi nel cervello di ratti appena nati. Grazie alla giovane età degli animali, il cervello aveva tutto il tempo di svilupparsi e riorganizzarsi, integrando i neuroni umani. Il trapianto degli organoidi è avvenuto con un’incisione nel cranio, all’altezza della corteccia somatosensoriale.

Dalle scansioni cerebrali è emerso che nel giro di quattro mesi il volume degli organoidi era aumentato di nove volte, occupando circa un terzo di un emisfero del cervello. Le cellule umane avevano formato connessioni con quelle dei ratti, integrandosi pienamente nelle loro reti neurali, e assunto dimensioni simili a quelle dei neuroni umani. A sei mesi dal trapianto, le cellule erano sei volte più grandi di quelle coltivate in laboratorio. Pașca afferma che hanno raggiunto un livello di maturazione mai osservato in una piastra di Petri e che sembravano anche “accendersi”, generando segnali elettrici come quelle del cervello umano.

Essendo pienamente integrate nelle reti cerebrali dei ratti, probabilmente le cellule umane partecipano al controllo del comportamento. Per averne conferma il team ha attivato i neuroni umani con l’optogenetica, una tecnica che prevede la manipolazione genetica delle cellule affinché reagiscano alla luce, scoprendo che la loro attività può influenzare il funzionamento del cervello.

Lo studio dimostra che i neuroni umani possono sopravvivere e integrarsi nel cervello di animali viventi, offrendo ai ricercatori la possibilità di studiare gli effetti sul comportamento.

Inoltre, la scoperta potrebbe essere importante per lo studio delle malattie neurologiche. Il team ha trapiantato nei ratti degli organoidi ricavati da pazienti affetti dalla sindrome di Timothy, una rara malattia genetica che colpisce il cervello e il cuore. I neuroni avevano una struttura diversa rispetto a quelli sani e sembravano anche funzionare in modo diverso. L’obiettivo del trapianto è trovare nuove cure contro la malattia. ◆ sdf

L’originale di questo articolo è uscito su Zme Science.

Da sapere
Problemi etici

◆ Lo studio dell’università di Stanford solleva un importante interrogativo etico: i ratti con neuroni umani sono ancora ratti? Secondo gli autori sì, perché non hanno mostrato segni di rafforzamento cognitivo né emozioni né alcun tratto simile ai nostri. La probabilità che i ratti manifestino caratteristiche umane è estremamente ridotta, mentre i rischi potrebbero aumentare in caso di sperimentazione sulle scimmie. Ma secondo Taimie Bryant, docente di diritti degli animali all’università della California a Los Angeles, negli Stati Uniti, “usare gli animali come risorse da sfruttare a nostro vantaggio è sempre eticamente inammissibile”. Zme Science, The Economist, New Scientist


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Questo articolo è uscito sul numero 1483 di Internazionale, a pagina 104. Compra questo numero | Abbonati