Mo’min Swaitat sorseggia una Coca-Cola davanti al teatro Barbican di Londra, nel Regno Unito. È agosto e in città c’è un caldo insopportabile, ma Swaitat è l’unico a non soffrirlo. Le persone sembrano sciogliersi, mentre lui, con i jeans blu scuro e le scarpe da ginnastica, ha un’aria fresca, come se fosse accarezzato da una brezza mattutina.

Poche ore più tardi va in onda il suo programma sulla radio indipendente Nts. Si chiama Palestine sound archive: Majazz project X, e ogni mese fa ascoltare una selezione delle migliaia di brani jazz, funk e beduini palestinesi che Swaitat ha collezionato nel tempo. Spesso quando va in onda si fa affiancare da un artista palestinese. Oggi i suoi ospiti sono due rapper, il palestinese Saint Levant e l’egiziano Bayou, e i discografici dell’etichetta libanese-palestinese Abu Recordings. “Il progetto è così unico che per le persone è come un movimento culturale”, dice a proposito della Majazz project, la sua casa discografica, con un perfetto accento londinese.

Quando all’inizio del 2020 Swaitat ha scoperto per la prima volta la raccolta di musica che in seguito lo ha spinto a fondare la Majazz project, aveva semplicemente intenzione di ripubblicare la musica beduina dimenticata che era stata la colonna sonora della sua infanzia. Ma il progetto ha superato le ambizioni iniziali. Oggi la Majazz project è una casa discografica, un programma radiofonico, una comunità e presto diventerà anche un progetto di arte performativa. È un pianeta musicale attorno al quale possono orbitare gli artisti palestinesi e i loro sostenitori.

Da quando ha lasciato il suo villaggio beduino poco fuori da Jenin, in Cisgiordania, e nel 2011 si è trasferito a Londra, Swaitat ci torna regolarmente. Quando ci è stato nel febbraio 2020, prima dell’arrivo del covid-19, non sapeva che sarebbe rimasto ben più delle solite due settimane. L’universo aveva altri piani per lui. Un giorno, mentre stava vagando per le strade tranquille di Jenin durante il lockdown, ha notato le finestre chiuse di Tariq cassettes, un negozio di musica che frequentava da adolescente. “Era proprio accanto alla mia scuola e il proprietario vive di fianco a mia nonna nel campo profughi di Jenin”, racconta Swaitat. “Mi sono ricordato che lui registrava sempre la musica dei miei zii musicisti ai matrimoni. Così l’ho chiamato per chiedergli se potevo ascoltare le cassette, soprattutto per sentire la musica della mia famiglia”.

Qualche giorno dopo Swaitat si è ritrovato seduto in una stanza piena di vecchie cassette e vinili. Ha passato i sei mesi successivi ad ascoltare la storia sonora del suo popolo, andando ben oltre gli archivi della sua famiglia. “Il negozio era rimasto chiuso per quasi vent’anni, era tutto molto polveroso e disorganizzato”, racconta. “Così ho creato una posizione d’ascolto e mi sono seduto lì per ore a sentire musica rivoluzionaria palestinese, soul, jazz, punk e registrazioni beduine realizzate sul campo”. A un certo punto l’attenzione di Swaitat è stata attirata da un nastro con la parola “Intifada” scritta a mano. Ha scoperto che era stato registrato da un uomo di nome Riad Awwad nel 1987 e che era pieno di canzoni basate sulle sue esperienze all’inizio della prima Intifada. Awwad era morto in un incidente stradale nel 2005, ma sua sorella ha incoraggiato Swaitat a riportare alla luce la sua musica. Allora ha chiesto a Tariq, il proprietario del negozio, di vendergli tutta la collezione: in un paio di giorni è diventato proprietario di circa settemila cassette. Dopo averle inscatolate e riportate a Londra, ha chiesto un finanziamento al Jerwood arts, un ente britannico che finanzia gli artisti, per creare uno studio casalingo e lì ha cominciato a masterizzare e a ripubblicare le canzoni dimenticate del suo popolo.

Swaitat è nato nel maggio 1989, al culmine della prima Intifada. L’esercito israeliano faceva spesso incursioni nel suo villaggio. Quando è cominciato il travaglio di sua madre, la donna ha capito che non avrebbe mai potuto raggiungere l’ospedale. Ha partorito Swaitat in camera da letto, mentre nella stanza accanto medicavano l’altro figlio per delle ferite da arma da fuoco.

Sa che la sua scoperta si è trasformata in qualcosa di più grande di lui

Tra i primi ricordi di Swaitat ci sono l’arresto del suo vicino di casa e un’incursione delle forze speciali israeliane vestite da donne musulmane in una moschea per arrestare un attivista. Malgrado fosse il più piccolo di sette figli, nessuno nella sua famiglia ha mai voluto spiegargli la storia dell’occupazione israeliana di alcune parti della Palestina, così è cresciuto pensando che fosse tutto normale. Si è reso conto dell’assurdità della situazione solo quando un cugino è passato a prenderlo per portarlo nella sua casa di Haifa, all’interno dei confini riconosciuti di Israele. Ha superato senza problemi il posto di blocco di Salem, fuori da Jenin, grazie al fatto che viaggiava su un’auto con una targa israeliana e così ha incontrato i suoi parenti. Si è reso conto che i loro modi di fare e il loro dialetto erano identici ai suoi, e ha cominciato a capire che era successo qualcosa di grave alla sua gente. Ha realizzato che tra le due parti della sua famiglia, cioè tra i palestinesi e i cosiddetti arabo-israeliani, c’era una divisione artificiosa.

Ma nel mezzo del caos c’era sempre la musica. Durante i matrimoni la popolazione del villaggio di Swaitat aumentava a dismisura ed era allora che la band di famiglia usciva a suonare. Il gruppo, anche se non aveva neanche un nome, è ancora leggendario nella comunità musicale beduina palestinese e continua a gua­dagnarsi da vivere esibendosi alle cerimonie. All’epoca, a metà degli anni novanta, Swaitat ricorda di essersi sentito sommerso dai suoni psichedelici di strumenti della tradizione popolare come l’oud, il rebab e la darbuka, affascinato dall’improvvisazione senza fine che avveniva sempre con lo stesso ritmo, e che ritornava come in un campionamento. “Le famiglie si riunivano dopo dieci giorni di preparazione per una grande celebrazione. Per tutto il periodo dei matrimoni si sentiva rimbombare la musica da diverse case”, ricorda.

Le luci addosso

Da bambino Swaitat giocava nelle foreste vicino a casa. Immaginava di essere un supereroe in lotta contro gli uomini in uniforme verde che facevano irruzione nel suo villaggio. A tredici anni questa fantasia ha preso improvvisamente vita. Mentre correva nella foresta è finito dentro a una piccola grotta. Non sa chi sia rimasto più scioccato, se lui o gli otto soldati delle forze speciali israeliane in borghese che ha trovato accovacciati lì. “Mi hanno puntato le luci addosso e mi hanno detto di mettermi a terra”, ricorda Swaitat. “Uno di loro era arrabbiato e continuava a mirare la mia faccia con la sua arma, dicendo che mi avrebbe sparato, mentre un altro gli diceva di fermarsi”. I soldati l’hanno tenuto lì qualche ora per assicurarsi che fosse da solo, poi l’hanno lasciato andare. Era il 2002 e la seconda Intifada era in pieno svolgimento, ma l’esercito israeliano non aveva ancora rioccupato Jenin. Se fosse successo qualche mese dopo, Swaitat forse non sarebbe stato così fortunato.

In effetti, qualche mese dopo, ha aperto la porta di casa e si è trovato davanti un enorme carro armato, così grande da oscurare il sole. Indica il ponte di cemento sul laghetto verde del Barbican: “Era alto più o meno come quello, circa tre metri”, dice, tirando una boccata dalla sigaretta che si è rollato. “Non so come ho fatto a sopravvivere da adolescente a Jenin durante la seconda Intifada”, dice. Ben presto ha imparato a distinguere i suoni dell’artiglieria israeliana in avvicinamento. Sapeva che tipo di elicottero stava volando sopra di lui e che carro armato stava passando. Il suo villaggio si trova alla periferia di Jenin e l’esercito israeliano lo usava per prepararsi a invaderla. Non è passato molto tempo prima che Swaitat cominciasse a usare i carri armati come autobus, salendo sul retro per farsi dare un passaggio in città.

Il venerdì sera gli adolescenti di Jenin cercavano di vivere un po’ di normalità. Indossavano i loro abiti migliori, si spruzzavano il dopobarba, si pettinavano e mettevano musica elettronica mentre guidavano per le stradine di Jenin. Poi sceglievano un punto ben protetto e si preparavano a combattere l’esercito israeliano.

Nel frattempo l’attore e regista Juliano Mer-Khamis aveva aperto il teatro della Libertà nel campo profughi di Jenin. “Non stiamo cercando di guarire la violenza. Cerchiamo di sfidarla in modi più produttivi”, diceva. A diciotto anni Swaitat ha dovuto superare una selezione di tre giorni per essere ammesso. “Abbiamo parlato e discusso, ho recitato monologhi e scene, e alla fine sono entrato”, ricorda.

Swaitat ha passato i quattro anni successivi a recitare ed è diventato uno degli studenti preferiti di Mer-Khamis, mettendo in scena adattamenti di La fattoria degli animali e Aspettando Godot, anche all’estero. L’arte di Swaitat si completava perfettamente con l’immaginazione di Mer-Khamis. Almeno fino a quel tragico pomeriggio del 4 aprile 2011. “Ricordo che è entrato in ufficio e ha detto che stava andando a prendere suo figlio, chiedendomi di dargli le chiavi della macchina”, racconta Swaitat. “Così si è diretto verso la sua auto. Pochi secondi dopo abbiamo sentito gli spari”. La madre di Juliano Mer-Khamis era ebrea, mentre il padre era un palestinese cristiano di Nazareth. Lui si considerava palestinese al cento per cento ed ebreo al cento per cento, ma entrambe le comunità lo trattavano come un estraneo. La versione dei fatti comunemente accettata è che sia stato ucciso da un palestinese di Jenin, anche se non è mai stata avviata un’indagine. Mer-Khamis si era espresso apertamente contro la disuguaglianza di genere, contro il dogmatismo religioso e per la libertà di parola, cosa che lo aveva reso un bersaglio dei più tradizionalisti e conservatori. Tuttavia molti nel campo profughi pensano che sia stato assassinato da Israele.

Poco prima della sua morte, Mer-Khamis aveva aiutato Swaitat a fare domanda per una borsa di studio alla Lispa, la London international school of performing arts. Quando l’ha vinta, il ragazzo era contento di lasciare Jenin insieme al resto del cast. “Dopo la morte di Juliano siamo partiti tutti”, racconta. “Sarebbe stato difficile cercare di tenere vivo il teatro. Non era per niente sicuro”.

Così nel 2011 Swaitat si è trasferito a Londra per studiare da mimo alla Lispa e perfezionare le sue abilità di clown. Era frastornato dal dolore, ma stava facendo quello che Mer-Khamis si sarebbe aspettato da lui. Da allora Swaitat ha diretto e interpretato decine di spettacoli, tra cui il suo lavoro da solista Alien land. Ha creato anche un corso di teatro per rifugiati allo Shakespeare’s globe, dando vita a Fragments, una performance che attinge alla musica delle culture d’origine dei partecipanti. Nel 2019 ha diretto e interpretato I have met the enemy (and the enemy is us) – Ho conosciuto il nemico, e il nemico siamo noi –, uno spettacolo su un soldato britannico che ha servito in Afghanistan. Il copione si basa sulle esperienze che i partecipanti del corso hanno avuto delle occupazioni militari, oltre che sul comune amore per la musica techno. Pochi mesi dopo Swaitat è tornato a Jenin e ha scoperto i nastri abbandonati.

Storie di resistenza

La prima pubblicazione della Majazz project è stata The Intifada 1987 di Riad Awwad, seguita da Palestinian bedouin tape archive di suo zio Atef Swaitat. Ad aprile Swaitat ha collaborato con la Abu Recordings per pubblicare The remaining voice. Tribute for Juliano Mer-Khamis, un ep di quattro brani rap che raccoglie i discorsi politici di Mer-Khamis in occasione degli undici anni dal suo omicidio. Tra le ultime pubblicazioni c’è l’album omonimo del gruppo Al Fajer, una band palestinese del Kuwait la cui musica è incentrata su oud acustico, chitarra e percussioni. Il gruppo suona canzoni patriottiche palestinesi. I brani di Al fajer (The dawn) sono stati scritti nel 1988, all’inizio della prima Intifada, ma il gruppo è stato costretto a sciogliersi a causa dell’invasione irachena del Kuwait nel 1990 e non ha potuto pubblicarli, almeno fino a oggi.

Dietro a ogni nuova uscita c’è una storia di resistenza. Swaitat sa che la sua scoperta casuale si è trasformata in qualcosa di più grande di lui. “Penso che la musica sia uno dei modi migliori per tenere viva la nostra cultura, affinché le generazioni più giovani possano capire cos’è successo”, dice. E aggiunge: “La Majazz project dà nuova vita all’arte palestinese, la porta in altri spazi, e condivide le storie degli artisti prima che siano dimenticati”. ◆ dl

Biografia

1989 Nasce a Jenin, in Cisgiordania, e cresce in un villaggio che si chiama Swaitat, come la sua famiglia.

2002 Partecipa a un progetto teatrale insieme all’attore Juliano Mer-Khamis nel campo profughi di Jenin.

2011 Dopo la morte di Mer-Khamis si trasferisce a Londra, nel Regno Unito.

2020 Compra migliaia di cassette di vecchia musica palestinese dal proprietario di un negozio chiuso a Jenin.

2021 La sua etichetta discografica, la Majazz project, pubblica il primo disco, intitolato The Intifada 1987.


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Questo articolo è uscito sul numero 1482 di Internazionale, a pagina 76. Compra questo numero | Abbonati