Nel suo nuovo libro di memorie, Coltello (Mondadori 2024), Salman Rushdie evoca un dialogo immaginario con Hadi Matar, l’uomo che l’ha aggredito la sera del 12 agosto 2022, mentre stava per tenere una conferenza nella cittadina di Chautauqua, nello stato di New York. Rushdie cerca di dimostrare a Matar che l’uomo che credeva di conoscere non c’entra nulla con lo scrittore, e ricorre a una metafora tratta da L’ombra, una fiaba di Hans Christian Andersen. Nella fiaba un uomo si separa dalla sua ombra, che prende vita e comincia a viaggiare. Di tanto in tanto torna a trovarlo, ogni volta più assertiva e più sofisticata, e finisce per diventare più vera del suo proprietario. Come tutti gli scrittori, un tempo anche Rushdie aveva un sé ombra e doveva confrontarsi con le persone che confondevano l’uomo con le sue creazioni. Ma la fatwa ha separato l’uomo dall’ombra, che ha viaggiato per il mondo, ha terrorizzato la gente ed è diventata qualcosa di più concreto della sua stessa fonte umana.

Pochi hanno sentito il peso di questa ombra come gli iraniani nati intorno al 1979. Quindici anni fa, dopo aver partecipato a una tavola rotonda all’università di Teheran, me ne stavo davanti all’edificio del dipartimento di scienze umane, appoggiato al piedistallo della statua del poeta Ferdowsi a fumare e a chiacchierare con gli studenti. Avevo appena pubblicato il mio secondo libro e mi stavo beando di tutte le attenzioni a cui non ero abituato. Rispondevo alle domande, facevo battute e dispensavo consigli non richiesti. “Qual è lo scrittore che l’ha influenzata di più?”, mi chiese una studente. “Salman Rushdie”, risposi di getto.

Quello di Salman Rushdie non era il tipo di letteratura in cui volevo cimentarmi né desideravo imitarne lo stile. Non avevo mai pensato che avesse un’influenza su di me

Sgranò gli occhi per la sorpresa. La fatwa era vecchia di vent’anni e ne erano passati dieci da quando il governo aveva promesso all’occidente che l’Iran non l’avrebbe più applicata, eppure il nome di Rushdie era ancora tabù. Non sono molto coraggioso quando c’è da prendere posizione contro il governo (è uno dei motivi per cui vivo negli Stati Uniti e scrivo in inglese), perciò la mia risposta non era un atto di sfida. Ma non aveva senso neppure dal punto di vista letterario. Avevo letto alcuni libri di Rushdie: consideravo un capolavoro I figli della mezzanotte e mi era piaciuto La vergogna, ma non ero riuscito a finire né FuriaLa terra sotto i suoi piedi. Il mio rispetto per Rushdie come intellettuale era venuto meno dopo che aveva appoggiato incondizionatamente l’invasione dell’Iraq. Il suo non era il tipo di letteratura in cui volevo cimentarmi né desideravo imitarne lo stile. Non avevo mai pensato che avesse un’influenza su di me. Non capivo da dove fosse uscita la mia risposta.

Quando ero bambino la fatwa era un argomento quotidiano, quasi inevitabile. Ogni volta che qualcuno accendeva la radio si sentiva nominare Rushdie. In edicola c’era la sua faccia su tutte le copertine dei giornali. A rendere le cose più complicate c’era il fatto che Rushdie sembrava uno di noi, somigliava a uno dei nostri papà, a uno che lavora tutto il giorno per arrivare a fine mese, la barba non fatta, i capelli radi, gli occhi annebbiati. Perfino il nome suonava persiano. Il mio ricordo più vivido è quello di un filmato che credo di aver visto centinaia di volte. Rushdie entra in una stanza, intorno a lui lampeggiano i flash delle macchine fotografiche. Porta un abito leggermente troppo grande, un sorriso sornione. Si avvicina a un tavolo con sopra una pila dei suoi libri, ne prende una copia e la mostra ai fotografi. L’immagine si blocca di colpo. I grafici della tv di stato iraniana, armati della rozza tecnologia degli anni ottanta, gli dipingono delle gocce di sangue sulla barba, gli fanno gli occhi rossi e gli mettono due corna sulla testa. Una voce austera dice che quest’uomo ha insultato il nostro libro sacro e il nostro sacro profeta e merita di morire.

All’epoca avevo nove anni e seguivo la vicenda da Ahvaz, la mia martoriata città natale nel sudovest dell’Iran. Da piccolo ero musulmano praticante e l’idea che qualcuno insultasse in modo così sfacciato ciò che consideravo sacro mi faceva inorridire. Ero convinto che l’imam Khomeini avesse detto solo la verità di Dio, e che se voleva far uccidere un uomo doveva avere le sue buone ragioni. Ma poiché avevo preso a frequentare la biblioteca locale, i libri stavano cominciando a esercitare il loro incantesimo. Passavo le torride e umide vacanze estive a leggere romanzi e avevo maturato un enorme rispetto per le persone che riuscivano a creare mondi e personaggi dall’inchiostro e dalla carta. Il mio disprezzo per Rush­die era misto ad ammirazione. Nella loro campagna di demonizzazione e disumanizzazione, i mezzi d’informazione di stato gli avevano inconsapevolmente dato dei poteri straordinari.

Nel settembre 1988, una settimana prima della pubblicazione dei Versi satanici, Khushwant Singh, consulente editoriale della Penguin India, disse in un’intervista che il libro conteneva riferimenti “dispregiativi” dell’islam e che rischiava di provocare “violenze settarie”. Al momento nessuno ci fece molto caso. “Mi aspettavo che qualche mullah si sarebbe offeso e mi avrebbe insultato e che poi mi sarei difeso pubblicamente”, disse più tardi Rushdie. Gli uffici della Penguin nel mondo, però, furono inondati di lettere e telefonate indignate. Le prime grandi manifestazioni di protesta in occidente furono a Bolton e a Bradford, nel Regno Unito, dove migliaia di musulmani scesero in piazza e bruciarono il romanzo in pubblico. Seguirono altre proteste nel paese, poi in Pakistan.

Sarebbe facile tracciare una linea diretta tra le proteste e la fatwa. Spesso, però, quello che succede in Pakistan non ha alcuna influenza sull’Iran, la Siria o il resto del mondo musulmano. Durante quei mesi, in Iran non ci furono manifestazioni pubbliche contro I versi satanici. Nessun esponente del governo prese posizione contro il romanzo. Sui giornali non si trovava quasi traccia delle proteste. L’unico riferimento che ho trovato su Ettela’at, il principale quotidiano del paese, è un trafiletto del 4 dicembre 1988 intitolato “I musulmani britannici protestano contro la vendita di un libro antimusulmano”. L’autore del libro non è neppure nominato. L’unica recensione dei Versi satanici fu pubblicata su Kayhan Farhangi, una rivista della testata giornalistica più conservatrice dell’Iran. Il recensore accusava Rushdie di “degrado morale” e ne deprecava la “falsa interpretazione dell’islam”, ma non incitava ad alcun atto di violenza nei suoi confronti. Alla fine della recensione, l’autore riconosceva che il libro di Rushdie era solo “un’opera d’immaginazione che cerca di indagare sulla nascita di una grande religione dal punto di vista di un laico”, dunque non doveva essere visto come un resoconto storico. Ben più severi furono molti progressisti occidentali, che accusarono Rushdie d’irresponsabilità e di voler deliberatamente dare scandalo.

I figli della mezzanotte e La vergogna erano già stati pubblicati in persiano e apprezzati da tutti, anche se entrambi contenevano passaggi che un musulmano praticante avrebbe potuto trovare offensivi. Per esempio: “Quando Maometto profetizzava, la gente scriveva le sue parole su delle foglie di palma, che erano poi custodite in un modo o nell’altro all’interno di una scatola. Dopo la sua morte, Abubakr e gli altri provarono a ricordare la sequenza corretta, ma i loro ricordi non erano precisi”. Queste parole minavano apertamente la santità del Corano e mettevano in discussione l’assunto che il libro sacro fosse stato rivelato in forma completa da Dio al profeta. Erano poche righe, ma erano provocatorie come qualsiasi altro cosa che Rushdie avrebbe poi scritto nei Versi satanici. Eppure, in un paese dove i libri erano attentamente sorvegliati e censurati, questo e altri passaggi circolarono intatti nella traduzione in persiano. Nel 1985 I figli della mezzanotte vinse il premio Libro iraniano dell’anno per la miglior traduzione; a consegnarlo al traduttore fu Ali Khamenei, all’epoca presidente e oggi guida suprema dell’Iran.

Per la gente comune in Iran la fatwa arrivò completamente inaspettata. Il paese era appena uscito dalla guerra con l’Iraq e da una serie di crisi economiche. L’ayatollah Khomeini aveva 86 anni ed era prossimo alla morte, e l’attenzione del potere era concentrata su chi sarebbe stato il suo successore. Nessuno aveva il tempo o l’energia di preoccuparsi di un romanzo. Poi, il 13 febbraio 1989, due attivisti musulmani britannici, Kalim Siddiqui e Ghayasuddin Siddiqui, incontrarono per caso Mohammad Khatami, allora ministro della cultura e dell’orientamento islamico, all’aeroporto Mehrabad di Teheran. Khatami sostiene di aver preso da parte Kalim e di avergli chiesto dei Versi satanici. “Gli dissi ciò che sapevo”, ricorda Kalim, “e cioè che serviva qualcosa di drastico”. Khatami, racconta Kalim, rispose che stava andando a incontrare l’ayatollah Khomeini e che gliene avrebbe parlato. La fatwa fu pronunciata il giorno dopo. Kalim è rimasto sempre molto fiero di aver provocato una reazione così forte da parte di uomini “che non avevano neppure letto il libro”.

Khatami non ha mai commentato queste affermazioni, ma dopo l’attentato di Chautauqua il suo ex capo di gabinetto Mohammad Ali Abtahi ha pubblicato un video su Instagram smentendo che quell’incontro sia mai avvenuto: sarebbe stata un’altra persona a parlare con Khomeini. Che Khatami c’entrasse o no, è chiaro che l’ayatollah si era interessato poco o nulla ai Versi satanici fino al giorno prima di pronunciare la fatwa. Ne fu informato quella sera e colse l’opportunità.

Quando V.S. Naipaul visitò Teheran nell’agosto del 1979, sei mesi dopo la rivoluzione islamica, si ritrovò sul set di un film distopico. I cartelloni pubblicitari reclamizzavano merci inesistenti, i ristoranti di lusso erano completamente vuoti, le gru languivano accanto a palazzi lasciati a metà. Ovunque si volgesse lo sguardo appariva il volto dell’ayatollah Khomeini, “duro, sensuale, inaffidabile e canagliesco come avrebbe potuto raffigurarlo un suo nemico”.

Khomeini era molto attento alle pubbliche relazioni. “La lama della propaganda”, disse durante un discorso, “è ben più affilata di qualsiasi altra i nemici possano usare sul campo di battaglia”. Creò degli istituti per la diffusione della propaganda e mise il guinzaglio ai mezzi d’informazione. Tutto questo armamentario serviva a promuovere uno stereotipo a cui l’occidente avrebbe finito per credere, quello che lo presentava come un despota, un tiranno medievale con il turbante piombato nel ventesimo secolo. L’orientalismo dell’occidente gli giovava politicamente, e fece di tutto per alimentarlo.

Come osserva Ervand Abrahamian in Khome­inism (1993), l’ayatollah non era un fondamentalista, nonostante i suoi atteggiamenti in pubblico. “Populismo è un termine più adatto per descrivere lui, le sue idee e il suo movimento”, scrive Abrahamian. Fin dalla sua ascesa negli anni sessanta, Khomeini aveva un solo obiettivo in mente: conquistare il potere. La teologia politica sciita non gli era molto d’aiuto, quindi s’inventò un guazzabuglio di sciismo dissidente e marxismo-leninismo. Era soprattutto un politico astuto, che vedeva nelle crisi sociopolitiche l’opportunità di consolidare il potere.

Il precedente più vicino alla questione della fatwa era stato la crisi degli ostaggi del 1980, quando l’ambasciata statunitense a Teheran fu presa d’assalto e occupata da un gruppo di studenti ubriachi di retorica antimperialista. Avevano portato con sé dei cartelli e un paio di megafoni ma non i materassini, perché pensavano di restare solo un paio di giorni. Per la maggior parte degli osservatori, era solo avventurismo giovanile. Tutto il governo di transizione di Mehdi Bazargan prese le distanze o invitò gli studenti ad andare a casa. Tra gli uomini di potere, l’unico sostenitore dell’occupazione fu Khomeini. Attraverso il figlio, mandò a dire agli studenti: “Siete nel posto giusto. Rimanete lì”. Qualche giorno dopo pronunciò un discorso appassionato per incoraggiarli. Gli studenti si trovarono così al centro di un dramma internazionale che Khomeini riuscì a far durare per 444 giorni.

Gabriella Giandelli

Il suo obiettivo principale non erano gli Stati Uniti ma Bazargan, un politico moderato che voleva salvaguardare i rapporti dell’Iran con l’occidente. La battaglia per la nuova costituzione, che avrebbe di fatto collocato Khomeini al di sopra della legge e criminalizzato qualsiasi relazione con Washington, era in pieno corso. L’ayatollah si rese conto che una crisi di portata internazionale avrebbe creato le condizioni necessarie per fargli prendere il sopravvento e soffiò sul fuoco fino a ottenere ciò che voleva. Il governo di transizione diede le dimissioni.

La vicenda Rushdie si svolse in circostanze molto simili. Khomeini aveva fatto tutto ciò che era in suo potere per prolungare la guerra Iran-Iraq, che gli garantiva il monopolio sul sistema politico. La guerra era per lui un “dono quotidiano”, e quando fu costretto ad accettare la pace ne fu profondamente addolorato, tanto da paragonarla a “un calice avvelenato”. Sapeva che la fine della guerra avrebbe dato inizio a un nuovo ordine politico. “Dopo aver accettato il cessate il fuoco non riuscì più a camminare”, ricorda suo figlio Ahmad. “Continuava a ripetere ‘Signore, mi rimetto alla tua volontà’. Non parlò più in pubblico”.

Dopo la guerra, la cosiddetta sinistra islamica, che Khomeini aveva implicitamente appoggiato negli anni ottanta, cominciò a perdere colpi. Il suo programma fondato sull’autosufficienza e su un’aggressiva retorica antioccidentale non faceva più presa sull’opinione pubblica. La destra moderata, guidata da Akbar Hashemi Rafsanjani, salì alla ribalta, proponendo un riavvicinamento all’occidente e un’apertura agli investitori stranieri. Tutto questo era anatema per Khomeini. A quel punto, com’era avvenuto con la crisi degli ostaggi, gli si presentò un’opportunità. Pochi giorni dopo aver emanato il suo decreto, che aveva fatto il giro delle testate di tutto il mondo, scrisse un messaggio al clero:

Dio ha deciso che la pubblicazione dei Versi satanici avvenisse in questo preciso momento così che gli arroganti e i colonizzatori e i barbari mostrassero il loro vero volto nella loro ostilità verso l’islam. Il disegno di Dio vuole che smettiamo di semplificare le cose e attribuire tutti i nostri problemi alla cattiva amministrazione. Non tutte le cose sono colpa nostra. Le potenze imperiali sono determinate a distruggere l’islam e i musulmani.

La confusione creata dalla fatwa nel governo traspare chiaramente dal diario di Rafsanjani. In pubblico definì le parole di Rushdie “peggio di una dichiarazione di guerra” e fece due discorsi consecutivi in cui invitava i musulmani a non cedere al lassismo e a non dimenticare ciò che Khomeini aveva prescritto. Dal suo diario, pubblicato postumo, emerge però una posizione diversa. Il 18 febbraio 1989, dopo che Khomeini aveva respinto le scuse di Rushdie, Rafsanjani non nasconde il suo disappunto: “Tutto ciò metterà a repentaglio i nostri tentativi di arrivare a una risoluzione e danneggerà in modo significativo i nostri rapporti con l’occidente”. In un altro passaggio, dice di aver letto la giurisprudenza islamica riguardo agli insulti al profeta e fa capire tra le righe di considerare fuori luogo la fatwa. Rafsanjani scriveva il suo diario con l’intenzione di farlo pubblicare, perciò è probabile che le sue parole riflettessero solo una piccola parte della sua irritazione.

In risposta alla fatwa, i paesi occidentali richiamarono i loro ambasciatori. Tutto questo accadeva una decina d’anni prima che l’Iran muovesse i primi passi verso la normalizzazione sotto il presidente Mohammad Khatami, lo stesso uomo che, presumibilmente, aveva portato il libro incriminato all’attenzione di Khomeini. Rushdie aveva capito benissimo il gioco di Khomeini. Più di vent’anni dopo, nel suo memoir Joseph Anton (lo pseudonimo che usava quando era costretto a vivere in clandestinità), spiega così il motivo della fatwa. Dopo la guerra Iran-Iraq, “i morti urlavano contro l’imam e la sua rivoluzione era diventata impopolare. Gli serviva un modo per chiamare a raccolta i fedeli e lo trovò sotto forma di un libro e del suo autore. Il libro era opera del diavolo e l’autore era il diavolo e questo gli procurò il nemico che gli serviva”.

Il libro sulla fatwa più conosciuto in Iran è Critique of the Satanic verses conspiracy (Una critica della cospirazione dei Versi satanici) di Ata’ollah Mohajerani. Dopo l’annuncio della fatwa, Mohajerani, politico ambizioso e aspirante scrittore, passò due mesi a scrivere trecento pagine in cui spiegava perché Khomeini aveva ragione. La rivoluzione islamica del 1979 viene descritta come il “richiamo” che aveva risvegliato dal torpore i musulmani in tutto il mondo. Poiché l’occidente non era in grado di sconfiggere l’Iran militarmente o diplomaticamente, tentava di minare il fondamento spirituale dell’islam. Un uomo bianco con un nome occidentale non sarebbe riuscito nell’impresa: meglio servirsi di un musulmano indiano per mettere i musulmani uno contro l’altro. Secondo Mohajerani, Rushdie aveva intascato un lauto anticipo e in cambio aveva avuto l’incarico di dimostrare che il profeta Maometto era vulnerabile a Satana, che il suo libro sacro era inattendibile e che una parte era stata dettata dal diavolo. Perché gli uomini dei servizi segreti britannici avevano scelto Rushdie? Perché avevano letto i suoi primi due romanzi, scrive Mohajerani.

Prendiamo per esempio Saleem Sinai in I figli della mezzanotte: figlio illegittimo di William Meth­wold, con gli occhi azzurri e la pelle chiara, è condannato a diventare un burattino dei britannici. Oppure Omar Khayyam, il protagonista di Vergogna, figlio di un ignoto funzionario britannico e di una donna indiana: un uomo sradicato, patetico, compromesso dal suo insaziabile appetito sessuale. Secondo Mohajerani, Rushdie, come Sinai, è “un uomo senza un’identità, senza una cultura, un corpo senza articolazioni e tendini”, un immigrato con una valigia vuota che i britannici possono riempire a loro piacimento. Erano tutte sciocchezze, ovviamente, ma mi sono tornate in mente quando ho letto dell’attentatore di Rushdie.

Hadi Matar è nato in California, negli Stati Uniti, da genitori immigrati libanesi, quasi dieci anni dopo l’emanazione della fatwa. Quando i suoi genitori hanno divorziato, Matar si è trasferito con la madre e le sue due sorelle nel New Jersey; il padre è tornato a Yaroun, nel Libano meridionale. Andava male a scuola e faceva un lavoro umile ai grandi magazzini Marshalls. A detta di tutti, era un giovane solitario, silenzioso e riservato. “Una volta abbiamo litigato”, ricorda la madre, “e lui mi ha chiesto perché lo incoraggiavo a farsi un’istruzione anziché a concentrarsi sulla religione”. Questo nuovo atteggiamento, secondo la madre, era dovuto a un recente viaggio in Libano durante il quale era andato a trovare suo padre, che viveva in una zona controllata da Hezbollah. Al suo ritorno, Matar si era rintanato nel seminter­rato e per mesi non aveva più voluto parlare con la famiglia.

La sera dell’11 agosto 2022 è arrivato a Chautauqua, una tranquilla cittadina a nord di New York, portandosi dietro una sacca con dentro diversi coltelli e un documento d’identità falso. Ha passato la sera a girovagare senza meta e ha dormito sul prato davanti alla sala dove il giorno dopo Rushdie avrebbe dovuto tenere la sua conferenza. Non appena lo scrittore è salito sul palco, Matar gli si è scagliato addosso e lo ha accoltellato ripetutamente. Successivamente ha detto al New York Post di aver “letto un paio di pagine” dei Versi satanici e di aver deciso di colpire Rushdie perché “non credo che sia una brava persona. Non mi piace”. In Coltello, Rushdie ricorda di essere caduto a terra e di aver pensato: “Perché adesso, dopo tutti questi anni?”. Sembrava un gesto anacronistico: “Il mondo era andato avanti, e la questione era chiusa. E invece, ecco che si precipitava verso di me una sorta di viaggiatore del tempo, un fantasma assassino giunto dal passato”.

Nel 1989 la fatwa era diventata virale. Non serviva aver letto il libro di Rushdie o sapere qualcosa dell’islam per farsi un’opinione. Persone come Mustafa Mahmoud Mazeh (che nel 1989 morì mentre preparava una bomba in un albergo di Londra) e come Matar sono disposte a togliere la vita a Rushdie a costo di sacrificare la propria per punirlo di un crimine che non saprebbero definire bene. Questo virus, nato da Khomeini, aveva contagiato anche persone come me, un giovane nel mezzo del nulla, e mi aveva spinto a interrogarmi sui miei sentimenti per l’uomo che aveva pronunciato la fatwa. Ecco perché, quando mi hanno chiesto quale fosse la mia più grande influenza letteraria, ho fatto d’istinto il nome di Rushdie.

Quando sono andato a vivere a Teheran ho scoperto che altri scrittori della mia generazione avevano avuto la mia stessa esperienza. Molti, soprattutto cresciuti in famiglie religiose, avevano provato per Rushdie la stessa commistione di repulsione e ammirazione. Più la letteratura diventava importante nella loro vita, più il loro sentimento religioso si affievoliva e si ritrovavano dalla parte di Rushdie, arrivando in certi casi perfino a idolatrarlo per la sua capacità di far infuriare il clero. Il virus ci ha resi immuni da Khomeini. ◆ fas

Amir Ahmadi Arian è uno scrittore, giornalista e traduttore iraniano. Insegna scrittura creativa alla Binghamton university, vicino a New York. Questo articolo è uscito sulla rivista letteraria britannica London Review of Books con il titolo Rushdie, Khomeini and me.

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Questo articolo è uscito sul numero 1566 di Internazionale, a pagina 100. Compra questo numero | Abbonati