Riuscirà la premier britannica Liz Truss a sopravvivere? L’umiliante dietrofront sul taglio delle tasse per i più ricchi le ha fatto guadagnare tempo con il partito e sui mercati. Ma poche ore dopo la sua leadership stava già perdendo altri pezzi. All’inizio di ottobre, durante il congresso del Partito conservatore, negli affollati bar dell’hotel Hyatt di Birmingham, nel Regno Unito, gruppi di stagionati dirigenti tory discutevano del loro futuro usando espressioni come “spirale mortale” e “circolo vizioso”, per non citare altri termini decisamente più coloriti. In quell’occasione i parlamentari conservatori, ministri compresi, hanno fatto capire che non avrebbero votato una serie di misure proposte dal governo, dai tagli ai sussidi pubblici alla rimozione delle tutele ambientali nelle zone in cui sono previsti investimenti, dal fracking (fratturazione idraulica, una tecnologia per estrarre il petrolio e il gas dal sottosuolo) al “liberi tutti” in materia di pianificazione urbanistica. Nel partito sta crescendo anche l’opposizione a qualsiasi ipotesi di riduzione dei diritti dei lavoratori da parte del ministro dell’industria Jacob Rees-Mogg.

Le conclusioni da trarre sono due. Primo: la disastrosa manovra economica correttiva proposta dal governo conservatore alla fine di settembre non esiste più. Due giorni dopo la chiusura del congresso tory, del tanto decantato pacchetto per la crescita di Truss non restava praticamente niente. Secondo (visto che la questione gira tutta intorno ai numeri in parlamento): il metodo del Partito conservatore d’imporre attraverso il voto degli iscritti un leader sgradito ai deputati si è dimostrato sbagliato e va rivisto.

Lavoratori in sciopero al porto di Felixstowe, Regno Unito, 24 agosto 2022 (Max Miechowski, The ​New York Times/Contrasto)

Quello che è successo a Birmingham riguarda quell’indefinibile, inconfondibile ed essenziale qualità che si richiede ai leader: l’autorevolezza. Né Truss né il ministro delle finanze Kwasi Kwarteng saranno più credibili come lo erano prima della disfatta sulla legge di bilancio, e c’è da dire che già non lo erano granché.

Il chiacchiericcio subdolo al congresso di Birmingham ha fatto capire che era in atto un colpo di mano ai danni della nuova premier. La sfida è stata lanciata il 2 ottobre in tv dall’ex ministro Michael Gove – che ha fatto sapere di essere pronto a votare contro la legge di bilancio mentre era seduto a pochi metri dalla premier – e ha fatto scattare una serie di incontri riservati tra i parlamentari ostili a Truss. Uno dopo l’altro, i dirigenti del partito le hanno detto che doveva fare un bagno d’umiltà. Truss li ha guardati in faccia impassibile e ha ascoltato il consiglio.

Potrà sembrare folle, ma alcuni hanno parlato seriamente di sollevare la nuova premier dall’incarico senza passare per una nuova elezione. Per ora, tuttavia, nessun accordo è stato raggiunto. Nel frattempo gli istituti di sondaggi non riescono a mettersi d’accordo sul vantaggio che il Partito laburista ha sui conservatori. Per alcuni lo scarto è di 19 punti percentuali, per altri addirittura di 33. Il tabloid Daily Mail, che il 24 settembre aveva accolto la manovra di Truss titolando “Finalmente! Una vera legge di bilancio Tory”, dieci giorni dopo ha invitato altrettanto energicamente il partito a “darsi una calmata”.

Ecco perché in questo momento c’è bisogno soprattutto di mettere le cose nella giusta prospettiva. I problemi esplosi a Birmingham sono cominciati circa sei anni fa, quando i conservatori, dopo aver fatto uscire il Regno Unito dall’Unione europea, non sono riusciti ad accordarsi sul significato di quello che era successo. Il voto per la Brexit è stato una riaffermazione del tradizionalismo britannico o una rottura rivoluzionaria? Oppure è stato solo l’espressione di un malcontento di massa?

Quasi tutto quello che è andato storto per i tory dopo il referendum del 2016 nasce da questa confusione di fondo. Un esempio: nel Regno Unito abbiamo tradizionalmente un sistema fiscale progressivo, per questo Gove ha definito contrario ai valori conservatori il taglio dell’aliquota massima sul reddito. Per i liberisti rivoluzionari del suo stesso partito, la misura è invece la più conservatrice che ci sia. Nel 2016, durante la campagna referendaria, sono andato in giro per il paese a intervistare gli elettori e sono rimasto colpito dalla distanza tra quello che le persone comuni si aspettavano e quello che desiderava invece lo stato maggiore dei sostenitori della Brexit.

In ogni conversazione con i simpatizzanti conservatori emergeva un profondo senso di nostalgia. Nulla di ostile o di ridicolo. Era una specie di malinconica insofferenza verso il mondo moderno, la convinzione che le buone maniere, il senso del dovere e l’efficienza tipicamente britannici fossero perduti, soprattutto a causa delle imposizione di un’autorità esterna. Alcuni brexiter particolarmente in vista vedevano le cose nello stesso modo. Nigel Farage, per esempio, condivideva sicuramente un simile atteggiamento, intriso di una mentalità da vecchio golf club, di nostalgia imperiale e di rimpianti per la vecchia city di Londra: era lì che lavorava suo padre, il suo vero idolo. “Uscire dall’Europa” significava tornare alle certezze di un’infanzia idealizzata.

Questa spinta nostalgica si poteva quasi toccare e annusare in alcune cittadine dell’Hampshire o del Kent, dove gli uomini ostentavano cappelli da marinaio e pantaloni di velluto a coste color lampone, e i negozi vendevano modellini di aerei Spitfire e libri fotografici delle città inglesi in epoca edoardiana. Per queste persone la Gran Bretagna della Brexit era ancora l’Inghilterra delle siepi di ligustro, delle parole crociate sui quotidiani e dei burberi sagrestani di campagna: una versione contemporanea di un mondo che George Orwell avrebbe riconosciuto facilmente.

In tutto questo c’era del razzismo? Sì, spesso nelle battute di spirito, ma raramente esibito platealmente. Era un atteggiamento spensieratamente disinteressato alle altre culture, escluse, ovviamente, quelle della Dordogna francese o dell’Algarve portoghese, tradizionali luoghi di villeggiatura degli inglesi. Per i brexiter nostalgici “l’estero” erano le isole più familiari dei Caraibi e le regioni europee raggiungibili con i traghetti della compagnia britannica P&O.

Quella che ho tracciato è evidentemente la caricatura di un certo conservatorismo. Oltre a questa Brexit c’era anche quella dei cittadini arrabbiati del nord dell’Inghilterra e delle Midlands. Il risentimento di questa parte del paese era in gran parte alimentato dalla distanza dal potere, dal costante calo dei salari, dal senso di abbandono e dalle disuguaglianze. Tuttavia, nel Partito conservatore i brexiter moderati insistevano soprattutto sul tema della sovranità parlamentare che, come avevano imparato dalla tradizione liberale, è ancora il vero motivo della grandezza del Regno Unito.

Sciopero dei dipendenti della Royal Mail a Londra, il 26 agosto 2022 (Max Miechowski, The ​New York Times/Contrasto)

Ideologia contro nostalgia

Tra i delegati conservatori al congresso di Birmingham d’inizio d’ottobre idee simili erano molto diffuse. Volendo fare un po’ di filosofia, potremmo tirare in ballo il conservatorismo del pensatore politico Michael Oakeshott, con la sua tendenza a preferire “ciò che è familiare rispetto a ciò che è ignoto, ciò che si è provato a ciò che non si è mai provato, il fatto al mistero, il reale al possibile, il limite all’illimitato, ciò che è vicino a ciò che è distante”.

Accanto a questa idea di Brexit, ce n’era però un’altra ancora, più ideologica e basata sulla convinzione che, liberando il Regno Unito dai vincoli dell’Unione europea, il consenso socialdemocratico costruito durante il novecento sarebbe crollato. Questi “rivoluzionari” della Brexit non volevano riportare i britannici all’inizio degli anni cinquanta, prima delle riforme laburiste del welfare, ma traghettarli direttamente in un mondo estraneo e plasmato sul modello degli Stati Uniti, fatto di cambiamenti continui e mercati senza regole. Tuttavia, stavano attenti a non dirlo esplicitamente, per quanto la loro posizione avesse una certa logica: a cosa serviva lasciare l’Unione europea, con tutti gli sconvolgimenti che la cosa avrebbe comportato, senza una svolta radicale?

Gran parte dei ragionamenti alla base di quest’idea della Brexit arrivavano dal mondo dei centri studi liberisti. La posizione dei rivoluzionari era incarnata dal radicalismo apartitico e contro l’establishment di Dominic Cummings, direttore dell’organizzazione Vote leave e consigliere del premier Boris Johnson. A differenza di quella dei nostalgici, questa Brexit era metropolitana, atlantista e profondamente critica del ruolo ricoperto dal parlamento britannico nella vita pubblica.

“Brexit rivoluzionaria” è un’espressione piuttosto vaga, e molti dei suoi sostenitori ne hanno preso le distanze, o sono stati costretti a farlo, nel corso delle feroci faide politiche dopo la Brexit: del resto tutti i movimenti rivoluzionari hanno le loro scissioni e i loro traditori. Eppure descrive una realtà concreta che oggi è, sia pur precariamente, al governo. David Cameron, premier tra il 2010 e il 2016, la disprezzava profondamente, mentre Theresa May, a Downing street dal 2016 al 2019, ha cercato invano di trovare un compromesso. Al suo successore Boris Johnson, invece, andava a genio, ma solo in certi giorni.

Se il suo obiettivo era davvero quello mutuato dal motto della Silicon valley “Move fast and break things” (Muoviti veloce e sfascia tutto), allora la Brexit rivoluzionaria è sicuramente riuscita a raggiungerlo: ha sfasciato tutto finché non è rimasto più nulla da rompere. A parte, sembra, lo stesso Partito conservatore.

In un momento cruciale, a rimescolare le cose ci ha pensato Boris Johnson con la sua singolare influenza. La sua principale arma politica consisteva nell’essere l’unica figura in grado di mettere insieme le due idee opposte di Brexit, alternando le misure stataliste alla retorica del “liberarsi dalle catene”, e usando il linguaggio appropriato per ogni tipo di pubblico. Ma Johnson si è anche rivelato capace d’imporre la sospensione dell’attività del parlamento. L’ex premier ha provato a risolvere il dilemma filosofico della Brexit con la sua personalità, finché questa, con i suoi difetti, lo ha fatto cadere.

Da sapere
Una manovra azzardata

Liz Truss guida il governo conservatore del Regno Unito dal 6 settembre 2022. Già ministra della giustizia e degli esteri e sostenitrice dell’ideologia liberista di Margaret Thatcher, Truss ha preso il posto del dimissionario Boris Johnson dopo aver sconfitto, nella corsa per la leadership tory, l’ex ministro delle finanze Rishi Sunak con il 57 per cento dei voti degli iscritti al partito. Il 23 settembre ha annunciato, insieme al ministro delle finanze Kwasi Kwarteng, una manovra di bilancio correttiva per introdurre benefici fiscali e tagli alle tasse per i più ricchi, riducendo l’aliquota più alta dal 45 al 40 per cento. La misura è stata criticata dagli stessi deputati conservatori e ha creato il caos sui mercati, facendo crollare il valore della sterlina e aumentare i tassi d’interesse sui titoli pubblici britannici, ai massimi dal 2009. Il 3 ottobre Truss e Kwarteng hanno annunciato di aver abbandonato il progetto. Bbc


Per essere onesti nei confronti dell’ex premier, la pandemia ha confuso i confini della battaglia, dando allo stato un ruolo molto maggiore di quello che i brexiter rivoluzionari sarebbero stati disposti a tollerare in tempi normali. Infine, la caduta di Johnson e l’ascesa di Truss hanno segnato la vittoria finale dei sostenitori dello stato minimo sui conservatori nostalgici.

Eppure – che sorpresa! – i vincitori si sono rivelati tutt’altro che popolari. Il paese non ha mai votato per la loro rivoluzione e oggi non la vuole, come non la vogliono e non l’hanno mai voluta i deputati tory. I rivoluzionari sono una banda sovversiva, non dei veri conservatori. E a Birmingham il partito se n’è accorto.

Quindi cosa succede ora? Come sempre, le rivoluzioni finiscono per divorare i loro figli. Truss può anche sopravvivere, ma probabilmente dovrà cambiare rotta, anche a costo di passare per una leader incapace di comunicare e priva di un messaggio. Per lei il parlamento sarà un luogo più insidioso del congresso del suo partito. Truss deve prendere tempo e rimandare uno scontro che non può permettersi.

In questo momento nel Regno Unito la politica è talmente fragile che non si può escludere un crollo improvviso del governo ed elezioni anticipate, magari scatenate da un problema che ancora non è venuto a galla. Per i tory sarebbe un suicidio. Uno dei paradossi di questa situazione è che più i sondaggi peggiorano per il partito, più Truss è al sicuro da un colpo di mano. Non appena miglioreranno, il governo festeggerà spiegando che i suoi provvedimenti stanno funzionando.

E comunque, dopo la vittoria dei rivoluzionari della Brexit, è difficile pensare che qualcuno possa rimettere insieme i tory. L’ex ministro delle finanze Rishi Sunak – sconfitto da Truss nella corsa per la leadership dei conservatori, ma le cui idee si sono dimostrate esatte – è odiato da metà del partito. E le ferite lasciate da Boris Johnson, che ha vinto le elezioni appena tre anni fa, sono troppo fresche per potere pensare a un suo ritorno.

Il vero problema non sono le persone. Una politica che rifiuta il principio della redistribuzione ed esalta l’egoismo più sfacciato è destinata a essere impopolare e insostenibile nel Regno Unito di oggi. Non porta né alla crescita a lungo termine né alla coesione sociale.

La Brexit rivoluzionaria non è quindi solo una fonte d’instabilità, ma anche un vicolo cieco per il paese. Ha diviso i britannici come mai in passato. Ha fatto in modo che voltassero le spalle agli alleati naturali: gli olandesi, i tedeschi e gli irlandesi, oltre che i francesi. E ha spinto i mercati internazionali a guardare a Londra in modo molto più aggressivo.

La soluzione è una sola. Al congresso di Liverpool abbiamo capito che il Partito laburista si sta preparando ad andare al governo con un programma molto interessante: semplicemente fare meno confusione. A quanto pare, la rivoluzione conservatrice è finita. E sta divorando avidamente i suoi figli. ◆ fs

Andrew Marr è un giornalista e presentatore radiofonico e televisivo britannico. Dirige le pagine politiche del New Statesman.

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Questo articolo è uscito sul numero 1482 di Internazionale, a pagina 60. Compra questo numero | Abbonati