Lawin Mohammad va a caccia di sentieri sulle montagne del Kurdistan. Incontra decine di pastori durante le loro peregrinazioni giornaliere. Si consulta con gli apicoltori sui passi in altura. Segue i vecchi peshmerga lungo i percorsi che un tempo pattugliavano e intercetta pellegrini cristiani e yazidi. Quando viene fermato a un posto di blocco militare, scrutando gli occhiali da aviatore di un soldato di vent’anni armato fino ai denti, gli chiede se ogni tanto cammina fino al villaggio vicino. Oppure se suo nonno l’ha mai fatto. Interroga i siriani come lui che una decina d’anni fa, all’inizio della guerra civile, hanno affrontato la pericolosa traversata dal Rojava fino alle pendici dei monti Zagros, nel nord dell’Iraq. Discute con bambini e imam. L’ho visto lavorarsi almeno un cacciatore di tesori in incognito. Ha una legione di informatori.

Mohammad non sa quanti sentieri ha scovato in questo modo, probabilmente centinaia. Non sempre hanno un inizio e una fine. Le piste s’intrecciano e si mischiano con l’uso quotidiano. A volte i fenomeni naturali – inondazioni, siccità, incendi – chiudono un tratto di sentiero o ne aprono un altro; oppure lo fanno le guerre, le recinzioni, le mine, le fabbriche di tahini. In condizioni estreme i sentieri a volte sono rafforzati con terrapieni, ponti e gallerie ricavate mettendo l’esplosivo nelle profondità della montagna, ma interventi del genere sono ancora rari nel Kurdistan rurale. Quasi tutti gli escursionisti che Mohammad incontra sui monti Zagros seguono le strade sterrate che offrono le montagne, confidando nel genio collettivo di mille viandanti che non hanno mai calpestato le stesse pietre, ma che con i loro milioni di passi hanno segnato e levigato il terreno. È grazie a questo cammino collettivo che si è formato il sentiero migliore.

Sadiq Zebari sulle rovine dell’antica cittadella di Akre, il 4 novembre 2021 (Andrea Frazzetta)

Mohammad è tra i fondatori di un progetto per creare un percorso escursionistico di 240 chilometri attraverso la regione autonoma del Kurdistan, o Kurdistan iracheno, dalla piana di Ninive alle montagne innevate che confinano con l’Iran. Il sentiero costeggia zone recentemente sottratte al gruppo Stato islamico (Is) e terre di confine dove la Turchia combatte una guerra asimmetrica contro i guerriglieri del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk). Nonostante queste complicazioni, se tutto andrà bene il Sentiero dei monti Zagros, come è stato provvisoriamente chiamato, collegherà in un unico itinerario di due settimane frammenti di piste che costeggiano vecchi canali e pascoli stagionali, passando accanto a templi bizantini e a santuari ebraici, e aggirando allo stesso tempo circa sette milioni di mine inesplose risalenti alla guerra tra Iran e Iraq e alle guerre del Golfo.

Fino a poco tempo fa sarebbe stato impensabile per un gruppo di escursionisti attraversare a piedi il Kurdistan iracheno, una regione che nell’ultimo secolo ha vissuto una serie praticamente ininterrotta di violente crisi politiche. Tra queste ci sono una ribellione curda nel 1943, repressa dagli aerei da guerra britannici; una rivoluzione nel 1961; una serie di rivolte e successive rappresaglie del governo negli anni sessanta; attacchi aerei che nel 1974 costrinsero centinaia di migliaia di curdi a lasciare le loro case; ripetute campagne militari genocide e stragi di massa irachene dal 1980 al 1991. La regione raggiunse un’autonomia di fatto attraverso una sanguinosa rivoluzione, ma rimase frammentata e isolata fino agli anni duemila. Negli ultimi vent’anni le sue sorti sono cambiate. Il Kurdistan iracheno è sfuggito a gran parte della devastazione che colpì il resto dell’Iraq dopo l’invasione statunitense, e fu riconosciuto come regione federale dalla costituzione del 2005, attirando investimenti stranieri e compagnie per l’esplorazione petrolifera.

Una volta ultimato, il sentiero dei monti Zagros diventerà il primo percorso escursionistico su lunga distanza non solo in Iraq ma probabilmente in tutto il Kurdistan, un paese immaginario e incompiuto fatto di montagne, boschi di pini, deserti e migliaia di villaggi rurali, e diviso dai dominatori coloniali in porzioni che oggi fanno parte di Turchia, Siria, Iraq e Iran. Per questo tipo di imprese ci sono modelli – come il sentiero degli Appalachi, il cammino di Santiago, la Pennine way – che attirano ogni anno centinaia di migliaia di escursionisti e hanno trasformato l’economia delle regioni rurali che attraversano. Nessun sentiero è stato mai aperto nella zona più tormentata del Medio Oriente.

Il trucco della cacca

Un pomeriggio di novembre del 2021, Mohammad e il suo socio in questa impresa donchisciottesca, un esploratore irlandese di nome Leon McCarron, guidano un piccolo gruppo su un passo montano sopra Akre, una cittadina curda abitata senza interruzioni fin dall’età del ferro. Ogni anno, in occasione del Nowruz (una festività che celebra l’anno nuovo), il passo è punteggiato da centinaia di fiaccole, ma ora è vuoto. Sulla cima c’è un tempio fortificato, scavato nella pietra calcarea della montagna. Gli abitanti di Akre lo chiamano la cittadella. Tutte le sue strutture sono in pietra. Il grande atrio infossato è scavato nella pietra; il carcere, con i suoi angoscianti fori per la ventilazione, è in pietra; i pozzi conici e rivestiti di gesso sono di pietra. Nel primo millennio aC gli anonimi costruttori della cittadella aprirono delle finestre nelle pareti di roccia spesse sessanta centimetri in modo che la luce del sole si riflettesse sulla superficie prismatica e illuminasse le stanze con la luce soffusa del pomeriggio. Il dettaglio, che io trascuro completamente, ha colpito l’immaginazione di Mohammad la prima volta che l’ha visto. “È la mia parte preferita del sentiero”, dice. “Chi erano le persone che stavano qui? Erano gli antenati dei curdi? Erano i miei antenati?”.

Sulla cima c’è un tempio fortificato scavato nella pietra calcarea

Sul lato opposto rispetto alla cittadella, una misteriosa trincea taglia in due un letto di roccia. Si pensa che un tempo questo canale artificiale servisse a convogliare l’acqua tramite dei tubi di terracotta. Oggi permette ai visitatori di attraversare una distesa di pietra calcarea a forma di catino da sotto terra, inabissandosi nelle profondità della montagna. Il canale è quasi perfettamente dritto e in alcuni punti è talmente stretto che per passare bisogna girarsi di fianco. Durante il tragitto Mohammad mi racconta la sua filosofia di cercatore di sentieri.

“Ho percorso questo passo montano tre volte”, dice. “Faccio questa strada e poi un’altra, e se mi fanno male i muscoli vuol dire che non è quella giusta. Certe volte mi viene il mal di denti”. Chi progetta i sentieri a volte parla del flusso o della storia di un itinerario. Un buon sentiero inspira ed espira, su e giù. Alla fine di un’arrampicata in altura c’è sempre una vista ristoratrice. Percorsi meditativi sfociano in spazi aperti e conviviali. “Questo porta a chiedersi perché il sentiero è qui”, dice Mohammad. “Perché proprio qui? Perché è fatto in questo modo? I muscoli lo capiscono perché esiste un sentiero. Magari è una strada che usavano i peshmerga per nascondersi dai militari, e quindi è difficile di proposito. O magari è il percorso più breve tra due villaggi”.

O forse, aggiunge, “ci è passato un asino”. Non solo uomini e donne, ma anche mucche, capre, pecore e muli contribuiscono al grande capolavoro anonimo di un itinerario escursionistico. In Kurdistan spesso si può capire la difficoltà di un percorso dai tipi di escrementi che si trovano lungo la strada. Un sentiero pieno di cacca di mucca sarà probabilmente meno impervio di uno segnato solo dai pallini scuri delle capre, che si arrampicano dappertutto.

Sopra di noi si erge un pendio spoglio e giallo nel sole splendente. Alle nostre spalle c’è McCarron – alto, spigoloso, la barba corta – che è altrettanto loquace in fatto di sentieri. Il trucco della cacca viene da lui. “Un sentiero esiste solo perché la gente lo usa”, dice mentre la cittadella scompare dalla vista. “Non stiamo ‘aprendo’ nessun sentiero che non ci sia già. Non appartiene a nessuno e nessuno lo crea”.

“Non si ha mai la sensazione di aprire un sentiero qui”, aggiunge Mohammad, “solo di scoprirlo”.

Il posto più lontano

Alcune persone sono attirate dai paesaggi della loro terra d’origine; altri non vedono l’ora di fuggire. McCarron è nato in una fattoria in Irlanda del Nord, nei pressi di Castlerock, una cittadina sul mare impregnata dell’odore dell’oceano Atlantico fino alle fondamenta. Lo scrittore C.S. Lewis da bambino ci andava in vacanza, e si dice che il rudere del castello in cima a una scarpata sia stato d’ispirazione per il palazzo Cair Paravel delle Cronache di Narnia, “con le sue rocce e le sue piccole pozze d’acqua salata, e l’odore del mare e lunghi chilometri di onde verdi-bluastre che si infrangono incessantemente sulla spiaggia”. Quando doveva decidere in che università iscriversi, McCarron ha scelto il posto più lontano che al tempo la sua mente potesse immaginare: Canterbury, in Inghilterra. “Non mi è neanche venuto in mente di uscire dal Regno Unito”, racconta. Da allora calcola di aver viaggiato per circa 50mila chilometri: a piedi, in bicicletta o su kelek fatti con bidoni dell’olio. Ha attraversato la Patagonia a cavallo e ha camminato dalla Mongolia a Hong Kong. Oltre che con Lawin Mohammad, ha collaborato con la North Face, la Red Bull e la Royal geographical society, di cui è un esponente in vista.

McCarron fa risalire il suo interesse per i nuovi sentieri al 2015, quando si trovava tra i samaritani israeliti in Cisgiordania. Un’associazione non profit statunitense, l’Abraham path initiative (Api), stava finanziando l’apertura di un sentiero che seguiva le vecchie vie commerciali e le mete di pellegrinaggio legate ai leggendari spostamenti del patriarca. McCarron lo ha completato, insieme ad altri sentieri in Israele, in Egitto e in Giordania. “Alla fine ci ho scritto un libro”, dice, riferendosi al diario di viaggio intitolato The land beyond – “e i sentieri sono diventati una parte molto più importante nella mia vita”. Ha passato un mese a fare pratica da un amico che stava lavorando al tratto armeno del Transcaucasian trail, poi ha aiutato un progettista di nome David Landis a creare un percorso escursionistico su lunga distanza nello Hunan, in Cina.

McCarron è arrivato per la prima volta in Iraq nel 2016 con ambizioni giornalistiche. Mentre atterrava a Erbil ha visto gli aerei militari che si muovevano sulla pista: era il primo giorno della battaglia di Mosul. Quando è arrivato al fronte, il suo fixer l’ha avvertito di fare attenzione agli ordigni esplosivi improvvisati nascosti negli orsetti di peluche. “Non fa proprio per me”, ha deciso McCarron. Un amico comune gli ha suggerito di parlare con Mohammad prima di ripartire. Si sono incontrati in un bar chiamato Everest.

Mohammad includeva i monti Zagros nella patria comune a tutti i curdi, ma non ci aveva mai fatto escursioni e non conosceva la zona. Era arrivato a Erbil nel 2012 e aveva trovato lavoro come portiere d’albergo. Quando ha conosciuto McCarron è rimasto affascinato, ricorda: “Sai quando si dice ‘spiriti affini?’”. Per McCarron è stato lo stesso. Poche settimane dopo è tornato in Iraq ed è andato in montagna con Mohammad. “Sono rimasto senza fiato”, dice McCarron. “Era il posto più bello del mondo”. L’anno successivo i due hanno collaborato a un documentario su queste cime, Among mountains. McCarron non sapeva nulla di politica tribale, mine e nascondigli del Pkk. “Gliel’ho dovuto insegnare io!”, racconta Mohammad, ridacchiando con aria impertinente.

Ovunque andassero, facevano a tutti la stessa domanda: “Dove porta questo sentiero?”. E così, probabilmente per la prima volta nella storia scritta della regione, hanno cominciato a mappare l’immenso e frastagliato firmamento delle strade battute da umani e animali sui monti Zagros. È una rete senza distinzioni tribali o nazionali, molto più antica del trattato di Sèvres o dell’accordo Sykes-Picot. Pian piano, i due hanno sviluppato l’idea di un percorso su queste montagne.

Mohammad e McCarron sono strani compagni di viaggio. A differenza di McCarron, che posso facilmente immaginare con le mani sui fianchi in cima a un ghiacciaio, Mohammad non ha l’aria di un montanaro. Sul suo volto da cherubino ha perennemente stampato un largo sorriso, e la sua voce, immediatamente distinguibile da un canyon all’altro o in un ristorante affollato, è forte e allegra come un jéroboam a una cena. A Damasco, prima della guerra, studiava lettere, preferendo Marlowe a Shakespeare e Dostoevskij a chiunque altro. Durante la sua prima escursione con McCarron, su una mulattiera, in pieno inverno, indossava un paio di jeans e guanti da motociclista. Mentre scendiamo lungo la trincea vicino alla cittadella mi dice scherzando che la traversata fa parte della sua dieta: il suo obiettivo è perdere abbastanza peso da riuscire a passare senza tirare in dentro la pancia.

I punti di forza

Per Mohammad, percorrere un sentiero è una scusa per incontrare nuove persone. Per McCarron è vero anche il contrario. I due hanno trovato un modo di dividersi il lavoro che gli permette di sfruttare i rispettivi punti di forza. McCarron raccoglie enormi quantità di dati – geografici, politici, meteorologici – mentre Mohammad esercita la diplomazia rurale. “Leon scrive tutto, si occupa di tutto quello che riguarda il gps”, dice. “Ma la rete di persone che abbiamo costruito, quella ce l’ho in testa io”.

Ricalcando altri fondatori di sentieri che ho conosciuto, Mohammad e McCarron improvvisano. Non esiste un’associazione internazionale dei sentieri escursionistici, non ci sono standard globali a cui attenersi. E come potrebbero? “Sarebbe come chiedere quanto dev’essere lungo un pezzo di spago”, commenta Galeo Saintz, presidente del World trails network. “Dipende a cosa serve”. Alcune organizzazioni, tra cui quella di Saintz, cercano di codificare i princìpi generali della gestione dei percorsi e sviluppare un programma di accreditamento a cui le associazioni di escursionisti possono aderire, ma si tratta di sforzi provvisori, che rispondono all’enorme crescita dei progetti ecoturistici nel mondo. “Ci siamo resi conto che era fondamentale che i vari sentieri imparassero l’uno dall’altro, che fossero collegati”, dice Saintz. “Ognuno invece era una realtà a sé”.

Alcune reti escursionistiche nazionali sono create da agenzie del governo e uffici turistici pubblici, che però spesso non le completano, limitandosi a disegnare il percorso intorno alle attrazioni principali e alle località turistiche più remunerative. Avendo poco a che fare con gli spostamenti abituali della gente del posto, questi sentieri si estinguono rapidamente.

Alcuni dei percorsi escursionistici su lunga distanza più apprezzati negli ultimi anni sono stati definiti da volenterosi appassionati. Il sentiero Jeju Olle in Corea del Sud, lungo 425 chilometri, è nato da un’idea dell’ex giornalista Suh Myung-sook, che si è ispirata al cammino di Santiago. Secondo Saintz è uno degli itinerari più riusciti al mondo, con quasi 800mila visitatori ogni anno, in gran parte coreani. “Ha fatto nascere la passione per l’escursionismo e le camminate nella comunità locale, questa secondo me è la ragione del suo successo”, dice.

Per creare un itinerario capace di attirare appassionati del posto e stranieri, McCarron ha studiato le linee guida pubblicate dal National park service (l’agenzia statunitense che gestisce i parchi nazionali), le raccomandazioni del World trails network e gli standard dei sistemi escursionistici dei paesi vicini. Il Jordan trail, inaugurato nel 2016, è un riferimento particolarmente importante. Il sentiero, lungo 674 chilometri, è stato tracciato da un misto di escursionisti locali e stranieri ed è gestito da una ong locale, la Jordan trail association. L’associazione contribuisce a preservare e a promuovere il sentiero e fornisce agli escursionisti mappe, guide e permessi speciali per entrare nelle aree riservate. Inoltre mette in contatto i visitatori con strutture ricettive, accompagnatori e agenzie turistiche nei 75 villaggi toccati dall’itinerario.

Mohammad sta gettando le basi per un’organizzazione simile nel Kurdistan iracheno, che probabilmente sarà guidata da lui. S’intrattiene con esponenti del ministero del turismo e della federazione escursionistica ed è in contatto con un agente dei servizi segreti, che lo avvisa in caso di attacchi aerei imminenti. Alcuni di questi burocrati potrebbero sorprendersi se sapessero che hanno avuto a che fare per anni con un profugo senza documenti. Quando è arrivato in Iraq, Mohammad non era “neanche un richiedente asilo”, come dice lui. Non si è mai registrato all’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati perché non voleva rinunciare alla sua carta d’identità siriana, l’unica forma d’identificazione che avesse mai avuto. Non erano molti i curdi ad averla dove era nato lui, un villaggio su una striscia di Siria da cui si vedono le colline dell’Iraq e della Turchia. È stato il primo paesaggio che Mohammad ha imparato a conoscere a piedi. Da bambino, per andare a scuola, doveva camminare per quasi cinque chilometri su un sentiero fangoso che d’inverno diventava impraticabile. Quando è scoppiata la guerra è entrato in Iraq all’alba attraversando un ponte usato dai contrabbandieri e ha passato la notte successiva su una radura in montagna. Si è svegliato con i sassolini nelle tasche.

Passi leggeri

Altri due camminatori abituali accompagnano Mohammad e McCarron nell’escursione sopra Akre. Una è Emily Garthwaite, fotografa e compagna di McCarron. Vive con lui a Erbil e ha cominciato a documentare il loro lavoro sui sentieri nel 2019. L’altro è un uomo di Akre. Un ex cacciatore di frodo di uccelli rari di nome Sadiq Zebari, una vecchia conoscenza che gli altri componenti del gruppo stanno testando come guida, in parte per distoglierlo dalla sua vecchia professione. Zebari andava a caccia di kaw, o coturnice orientale, un pennuto selvatico con i fianchi zebrati che è anche l’uccello nazionale non ufficiale del Kurdistan, apprezzato per il suo canto e per la sua carne. È stata l’ossessione e la grande passione della sua vita. “Ho cominciato a cacciarli nel 2003 e ho smesso nel 2019”, dice Zebari con aria triste mentre ci riposiamo vicino a una parete di pietra. “Immagina di fumare per sedici anni e poi smettere”.

Mohammad mi dice scherzando che la traversata fa parte della sua dieta

“E lui sa bene di cosa parla”, commenta Garthwaite. Mentre camminiamo, Zebari fuma una sigaretta dietro l’altra, disseminando pacchetti vuoti lungo il sentiero. Va in montagna quasi tutti i giorni. Anziché di uccelli, ora va a caccia di legna da vendere al bazar di Akre. Indossa pantaloni di lana, un vecchio maglione intrecciato a maglia e un paio di scarpe da ginnastica Louis Vuitton contraffatte. La montagna è casa sua. Si arrampica sui pendii più ripidi come se passeggiasse su una banchina, con le mani dietro la schiena e passi leggeri che quasi per magia lo portano sempre davanti a tutti. Superiamo un boschetto di melograni reso famoso da una canzone curda che Mohammad comincia a cantare e che paragona i frutti ai seni dell’amata. Sopra di noi, un uomo a cavallo scende da una scarpata, con il fucile in spalla. Quando passa ci fa un cenno. È il cugino di Zebari.

Nel 2019, dopo anni di escursioni giornaliere e pernottamenti nei fine settimana, l’Abraham path initiative ha cominciato a finanziare l’attività di Mohammad e McCarron e a fornire assistenza strategica, in gergo si dice “allevare” il progetto di un sentiero, come avevano già fatto in vari casi nel sudest asiatico. I dirigenti dell’Api mi hanno spiegato che considerano il progetto Zagros in linea con la loro missione di unire a passo d’uomo i popoli e le culture dei territori attraversati da Abramo, il patriarca delle tre grandi religioni monoteistiche, durante le sue peregrinazioni. Hanno anche sottolineato che il sentiero non ha un nome ufficiale e che sarà denominato – e gestito – da un team curdo iracheno. “L’ultima cosa che serve a questa regione è altra gente di fuori che viene qui e ci dice quello che dobbiamo fare”, osserva Anisa Mehdi, direttrice dell’Api.

Sempre nel 2019, Mohammad e McCarron hanno scoperto quasi duecento chilometri di sentiero ininterrotto. McCarron e Garthwaite si sono stabiliti a Erbil. Mohammad ha cominciato a costruire uno schedario con gli anziani delle famiglie e delle tribù che esercitavano una qualche influenza lungo il percorso immaginato. Cercava uomini e donne capaci di costruire mappe mentali dettagliate delle loro zone. Uno di questi uomini era Zebari.

Le basi di Saddam

Una strada militare porta a un’altura frastagliata chiamata monte Kale. Dirigendoci a est, lasciamo la strada e ci inoltriamo in un’ampia valle inclinata verso il centro come una cazzuola. “Leon”, chiama Mohammad, indicando un bosco di querce in alto, sulla cresta. “Vedi lassù? Accanto allo sperone di roccia? Quello è il punto più alto, dove fermarci per riposare; poi comincia la discesa. Ma se facciamo il solito percorso ci perdiamo questa sorgente”.

McCarron e Mohammad si fermano per studiare la cresta, che hanno attraversato già diverse volte come decine di altri passi montani in Kurdistan. Ci sono sempre cose nuove da scoprire. Ci allontaniamo dal sentiero stabilito per andare a vedere una sorgente naturale con un tubo zincato e una cisterna di pietra. Ci troviamo a est del percorso e scendiamo a zig zag lungo un declivio spoglio senza seguire un tracciato chiaro. La strada in alto è più simile a un sentiero, con una vista migliore sulla valle, ma non passa per la sorgente, una potenziale fonte di ristoro per i camminatori assetati. “Alla fine secondo me è meglio rimanere sul sentiero”, dice McCarron. “È quella che finora è stata la nostra strada ufficiale”. Poi si volta verso Mohammad: “Tu quale preferisci?”.

Yazidi in visita nella valle di Lalish, il 5 novembre 2021 (Andrea Frazzetta)

“Sì, anch’io l’altra. È più equilibrata”.

McCarron annota la decisione su Gaia, un’app gps che usa per registrare tutti i loro movimenti in montagna. Poi ripete l’appunto su un taccuino tascabile e si volta verso di me.

“Fa parte della nostra filosofia. Finché sei su un sentiero battuto non ti chiedi mai se sei sulla strada giusta. Ma non appena ti ritrovi in una situazione come questa”, spiega indicando la terra brulla, “cominci a guardarti intorno e a farti delle domande, e magari a sentirti confuso”.

Entrambi i sentieri sono deviazioni. Il percorso più naturale per valicare il passo è quello che segue la strada non asfaltata fino a un’ex base militare irachena sulla cima del Kale. “Le basi di Saddam”, come sono ancora chiamate queste strutture, si trovano in tutto il Kurdistan. Quella sopra di noi, a quanto si dice, è circondata da mine. Secondo alcune stime, l’Iraq è il paese più infestato di mine al mondo. In primavera, quando c’è il disgelo, si staccano dal terreno e rotolano a valle con la neve sciolta. “Molte sono state mappate da un’organizzazione per la bonifica delle mine”, dice McCarron. “Ma molte altre no, quindi spesso ti ritrovi in situazioni come questa”. Il sentiero che conduce alla base è piacevolmente ben definito, probabilmente è un’antica via della transumanza. Non ci sono segnali di pericolo. “Eppure, come ci dirà Sadiq, da qui non passa mai nessuno”.

Impostare le mappe di Gaia con accanto la cartina delle circa tremila mine individuate nella regione del Kurdistan è un’esperienza inquietante. Le mine coprono tutto l’altopiano. L’esercito iracheno e quello iraniano le piazzavano dovunque fosse probabile che passassero i combattenti. Se l’obiettivo era interrompere e terrorizzare la vita rurale sui monti Zagros, le mine hanno conservato la loro efficacia molto dopo il ritiro di Saddam Hussein. “È difficile essere nomadi con le mine intorno”, dice Garthwaite.

“Qualche escursionista è capitato su una mina in tempi recenti?”, chiedo.

“No”, risponde McCarron, poi fa una smorfia. Alcuni tour operator di Erbil mi hanno detto che nel corso degli anni ci sono state diverse situazioni di rischio. Halgurd, il monte più alto dell’Iraq, si trova alla fine del sentiero degli Zagros ed è una meta popolare tra gli alpinisti nonostante la forte presenza di mine. Alcuni gruppi erano al corrente dei rischi, dice McCarron; altri no. Dall’inizio degli anni novanta si contano almeno 13.400 vittime di mine nella regione del Kurdistan. Nel 2021 sono state 42, di cui 19 morti. “Ci manca solo che un escursionista mandi all’aria il futuro del turismo e tutto quello che stiamo costruendo da queste parti”, dice McCarron.

Ci troviamo ad almeno ottocento metri dalla zona pericolosa sopra Akre, ma il suo commento ci ricorda che ci vorrà un bel po’ di tempo prima che i visitatori possano camminare sui monti Zagros senza una guida. Secondo Zebari, l’ultima volta che sull’altura è esplosa una mina è stato nel 1999. La fece detonare una mucca.

Ci sediamo all’ombra di una falesia vicino alla cima. Sotto una bassa sporgenza ci sono un sacco a pelo sbiadito e una coperta: il covo nascosto di un pastore. Mi arrampico per andare a vedere. “Niente mine qui, vero?”, grido. “No”, dice McCarron. “Vai tranquillo”.

L’ultima volta che è esplosa una mina è stato nel 1999. La fece detonare una mucca

Il senso della storia

La nostra ricerca questa settimana parte da Shush, il piccolo villaggio da cui per ora prende il via il percorso del progetto. Shush si trova 392 chilometri a nord di Baghdad e 67 chilometri a nordest di Mosul, la città finita sotto il dominio del gruppo Stato islamico nel 2014 e riconquistata nel 2017 soprattutto grazie agli sforzi dei combattenti peshmerga. Ci muoviamo da Erbil prima dell’alba. Mentre ci avviciniamo al villaggio, tre uomini ci aspettano su un belvedere, con i bastoni da passeggio infilati nel fango. Tutti e tre fanno parte del circolo escursionisti di Akre. Due hanno combattuto per liberare Mosul; uno è un peshmerga con 33 anni di esperienza. In curdo, peshmerga vuol dire “coloro che affrontano la morte”.

Shush è un ammasso di case aggrappate a una collina, sotto una rupe di pietra calcarea bianca. Entrando nel villaggio costeggiamo una distesa di lapidi ricoperte di muschio e talmente erose dal tempo che alcune non si distinguono dalle pietre circostanti. Il cimitero apparteneva all’ex comunità ebraica di Shush. Gli anziani del paese hanno un vago ricordo collettivo del giorno in cui, nel 1948, l’ultima famiglia partì per andare nello stato di Israele, che era appena nato. Vivevano in una vecchia sinagoga di pietra ai piedi del villaggio. All’epoca, gli ebrei in Iraq erano vittime di violente persecuzioni.

Dei tre uomini del circolo, due sono di Shush, e uno insegna storia. Indica con il bastone ogni antica rovina che incontriamo e si rammarica ricordando che il villaggio un tempo aveva molti quartieri ebraici, alcuni dei quali probabilmente risalivano all’epoca di Yaqut al Hamawi, uno storico che descrive Shush nella sua grande geografia islamica. Per avere un’idea del vertiginoso senso della storia che si avverte sui monti Zagros, tenete presente che Al Hamawi nacque nel 1179.

Una nuova era

A Shush il mukhtar – l’equivalente del sindaco nei villaggi del Medio Oriente – è noto per essere saggio e perspicace: ha fatto asfaltare una strada e ha portato nel villaggio un generatore per l’elettricità, ma non ancora l’acqua corrente. Ci invita a fare colazione e a visitare il monastero in muratura dietro casa sua, che per molti anni ha usato come capanno degli attrezzi. Ci incurviamo sotto un architrave di legno ed entriamo. A differenza delle informazioni che si hanno sulla comunità ebraica, nessuno nel villaggio sa quando l’ultima famiglia cristiana ha lasciato Shush. L’edificio fu usato come moschea fino al 1985, poi fu abbandonato. Probabilmente ha quattrocento anni, ma all’interno non ci sono tracce dei fasti dell’antichità. In un angolo c’è una pila di cassette di plastica per la frutta. Su un filo giallo che pende dal soffitto sono messi a stendere i panni nei giorni di pioggia. Ci sono lampade a propano, condizionatori, una vecchia stufa elettrica e, a fianco, una scatola di legno per le munizioni. La scritta stampata in tedesco ne rivela il contenuto: due razzi anticarro. All’esterno un cane abbaia furiosamente.

A colazione, Mohammad spiega al mukhtar l’idea del sentiero dei monti Zagros e lo invita a partecipare al progetto fornendo vitto e alloggio agli escursionisti che passano per Shush. In questa fase preliminare non vanno fatte troppe promesse, ma allo stesso tempo è importante sottolineare i benefici che un sentiero escursionistico potrebbe portare in un villaggio sprovvisto di moderni impianti idraulici. Negli anni Mohammad ha perfezionato la sua tecnica promozionale.

Mentre lui parla, McCarron aggiunge il monastero del mukhtar alla lunga lista di siti antichi che hanno incontrato lungo il sentiero, molti dei quali non vedono degli archeologi da almeno cinquant’anni. Sotto il governo baathista l’attività archeologica fu nella migliore delle ipotesi scoraggiata e nella peggiore vietata. Per mappare il sistema dei canali intorno a Ninive, la capitale dell’impero assiro, i primi studi dell’antica Mesopotamia si basavano sulle foto desecretate scattate dai satelliti del programma statunitense Corona. La caduta dell’Is ha permesso un’analisi più ravvicinata per la prima volta in mezzo secolo.

“Il Kurdistan è all’inizio di una nuova era”, mi ha detto l’archeologo italiano Daniele Morandi Bonacossi, che dal 2012 dirige il Progetto archeologico Terra di Ninive. “Abbiamo documentato migliaia di siti archeologici, molto conosciuti a livello locale ma fino a dieci anni fa totalmente ignoti alla comunità scientifica. Semplicemente, le autorità non sapevano della loro esistenza”. Il suo progetto più recente, lo scavo di una decina di rilievi rupestri assiri in prossimità di un canale a Faydah, è stato rimandato per anni, perché il sito si trovava a trenta chilometri dalla linea del fronte contro i jihadisti. In tempo di pace Faydah ha subìto nuove minacce, tra cui la costruzione di fabbriche di cemento e un allevamento di bovini vicino al canale, che precede di quattro secoli gli acquedotti romani. Nel 2017, per allargare la sua stalla, il contadino è riuscito a decapitare uno dei rilievi con un bull­dozer, racconta Morandi Bonacossi.

L’apertura di un percorso escursionistico può sensibilizzare le istituzioni a questo tipo di minacce, così almeno sperano le mie guide. Secondo Morandi Bonacossi, le zone battute da Mohammad e McCarron sono piene di rovine e rilievi che nessuno ha ancora studiato. All’arrivo a Shush, i visitatori restano a bocca aperta di fronte alle antichità che il villaggio esibisce con tanta disinvoltura, apparentemente senza sforzo e, a dirla tutta, senza grande cura per la conservazione. Le cose, però, stanno cambiando. McCarron dà un’ultima occhiata al magazzino improvvisato prima di lasciare la casa del mukhtar. “Be’, sempre meglio di una stalla”, dice. La prima volta che lui e Mohammad sono entrati nell’antica sinagoga, una struttura monumentale in pietra a secco circondata da alcuni alberi di fichi, era piena di bestiame.

I monti Zagros sono il risultato di una violenta collisione. Circa 20 milioni di anni fa, quando la placca arabica s’inabissò sotto quella euroasiatica, una cintura di roccia sedimentaria schizzò – per quanto possa schizzare una roccia – nell’aria del miocene. Questo sollevamento formò una fila armoniosa di pieghe come queste \\\\\\\\ tra il mar Caspio e il Golfo persico, che su una carta che mostra le curve di livello sembra una striscia di velluto a coste marrone stropicciata e intrecciata da dita giganti. Gran parte della catena montuosa si trova in Iran, ma per poco meno di un quinto della sua estensione è nel Kurdistan iracheno, e qui è una delle attrazioni naturali più spettacolari. Vaste porzioni dei tre governatorati iracheni che costituiscono la regione autonoma del Kurdistan si trovano a cavallo di queste pieghe di roccia calcarea dai picchi e dalle valli piacevolmente regolari. Nelle intenzioni dei suoi ideatori, il percorso condurrà i visitatori in direzione perpendicolare rispetto a queste coste e creste, attraversando una valle al giorno.

In questa fase preliminare non vanno fatte troppe promesse

Affrontare gli imprevisti

I pendii e le superfici dei monti Zagros sono talmente variegati che spesso i sentieri si nascondono alla vista. Da Shush prendiamo una via dei pastori lungo colline disseminate di pozzi e avvallamenti. È una pista che McCarron e Mohammad hanno scoperto pochi mesi fa, alla loro sesta o settima visita nella zona. Il percorso precedente girava a sud oltre la sinagoga, lungo una strada rialzata per le jeep probabilmente costruita per l’esplorazione petrolifera. Un giorno hanno incrociato un pastore con la sua mandria che avanzava in mezzo a quello che sembrava un campo dissestato di massi; poi, un paio di chilometri dopo, se lo sono ritrovati davanti. Il campo era una scorciatoia. Quando sono tornati a Shush ci sono passati anche loro. Il sentiero seguiva colline formate da strati di calcare e scisto, con solchi su cui si camminava come su delle travi. Era molto più rapido e interessante della strada per le jeep.

“Quando progetti un sentiero devi farlo in modo che ogni volta sia lo stesso”, dice McCarron mentre ci addentriamo in una distesa di macchia spinosa. “Su tre percorsi disponibili per attraversare un villaggio, quale raccomandi agli escursionisti? Li porti su per una collina, che potrebbe essere bloccata dalle pecore o dalle capre? Stai considerando la presenza di piccoli veicoli? La strada si allagherà durante la stagione delle piogge? Definire esattamente un percorso può richiedere parecchie visite”.

“A volte dieci”, aggiunge Mohammad. “A volte devi fare un sentiero dieci volte prima di conoscerlo”.

Garthwaite, che ha camminato sui monti Zagros quasi quanto McCarron e Mohammad, e che reputo la più resistente tra i presenti, anche per il peso supplementare delle Leica che porta con sé, racconta che una volta, tornando su un sentiero lungo il versante orientale dell’itinerario, vicino a Mawilyan, hanno scoperto che per motivi oscuri il ponte sul Rezan era stato rimosso. Il gruppo è dovuto tornare indietro di diversi chilometri per cercare un punto in cui guadare il fiume. “I sentieri qui cambiano in continuazione”, dice, “sono inondati, coperti dalla neve, dal fango, dalla vegetazione, oppure ci si costruisce sopra”.

“Per progettarne uno bisogna essere bravi ad assorbire gli shock”, aggiunge McCarron. “È necessario tenere sempre conto degli imprevisti, dei pericoli, degli inconvenienti”.

Una donna yazida nella valle di Lalish, il 5 novembre 2021 (Andrea Frazzetta)

Lungo il cammino vediamo spuntare alla nostra sinistra una collinetta di colore bianco accecante, punteggiata di grotte. Passiamo davanti a una mangiatoia in pietra e sul ripiano di roccia ai nostri piedi vediamo delle sagome erose dal tempo: presse per il vino o un vecchio forno? Garthwaite si abbassa per cercare degli ammoniti fossili. Questo complesso calcareo un tempo era sommerso dal mare, dice.

Comincia a piovere, un acquazzone improvviso che finisce non appena estraiamo gli impermeabili dallo zaino. Ci arrampichiamo su una cresta superando un terreno coltivato a maggese e arriviamo a Mar Odisho, un monastero nestoriano fatto di pietre che sembrano pagnotte appena sfornate. Scaliamo le sue rovine austere, frequentate soprattutto da mucche allo stato brado, e poi il tetto, che circonda un chiostro centrale dov’è cresciuto un melograno.

Scontro con la gravità

Ai piedi di Mar Odisho c’è un villaggio chiamato Gundik, dove una fila di bandiere inneggia al Partito democratico curdo, il maggiore dei due principali partiti della regione. Mohammad compra un limone al negozio di alimentari locale e spreme il succo nella bottiglia dell’acqua. Il sentiero di pietra che si snoda nel villaggio è pieno di distrazioni: anatre che fanno il bagno in un canale di roccia; donne che impilano focacce di pane; sciroppo che ribolle in una pentola di metallo. Ai margini del villaggio, un apicoltore ci invita a dare un’occhiata al suo alveare. Mohammad parte con il suo messaggio promozionale. Non si sa mai chi può condividere informazioni su un percorso sconosciuto o su una grotta segreta.

Ci fermiamo un’altra volta nel villaggio successivo, Khirdas, in modo che gli esponenti del circolo escursionisti di Akre possano visitare la moschea. Quando ripartiamo, uno di loro, che collabora da tempo al progetto Zagros, ci descrive un sentiero alternativo alla strada per le jeep che abbiamo imboccato a Mar Odisho. Mohammad è incuriosito. “Proviamolo”, dice McCarron. Il sentiero si rivela impervio. Fatichiamo lungo una scarpata irregolare di terreno sdrucciolevole. Ogni passo è uno scontro con la gravità. McCarron osserva che nei mesi secchi estivi l’argilla friabile su cui stiamo camminando si sgretolerebbe sotto i nostri piedi. “In realtà non è un sentiero”, dice. “È un’arrampicata”. Non ci sono escrementi di mucca. La cima, da cui dovremmo scendere verso Akre, sembra allontanarsi a ogni passo. Involontariamente mi viene in mente che la collisione tra la placca euroasiatica e quella arabica non è mai finita, e che i monti Zagros si stanno ancora alzando da terra alla velocità di 2,5 centimetri l’anno.

Sadiq Zebari nel villaggio di Hashtka, il 4 novembre 2021 (Andrea Frazzetta)

Il canto dei bulbul

La sera incontriamo Tariq Kamil Aqrawi, che con il suo abito blu scuro ci fa sentire ancora più sporchi e in disordine. Ex ambasciatore iracheno in Austria, Aqrawi vive nella città vecchia di Akre, piena di tesori tra cui passiamo esausti, attraversando il ponte della sinagoga fino al bazar deserto. La settimana prima Mohammad, durante una delle sue infaticabili perlustrazioni, ha individuato un possibile alloggio nella tenuta del vecchio diplomatico. Prendiamo un tè nel suo giardino pergolato, con il canto dei bulbul in sottofondo.

Ad Aqrawi l’idea di un sentiero escursionistico piace. È innamorato di Akre e si è impegnato per affermarla tra le attrazioni culturali curde. È entusiasta anche del fatto che io sia arrivato dalla Germania, terra della bellissima lingua tedesca. Ogni tanto mi chiede di tradurre una parola mentre ci racconta la storia della sua vita: boy-scout, incarico prestigioso, pensione. Non è stato facile andare via da Vienna, dice, una città meravigliosa a cui lo avevano assegnato dopo la caduta di Saddam Hussein e dove ancora vivono i suoi figli. Ma voleva ritirarsi vicino alle montagne della sua giovinezza e costruire il suo Nostalgiehaus, un centro culturale e museo dedicato ad Akre. L’edificio, un rudere ristrutturato accanto alla sua casa, è il nostro alloggio per la notte. Mentre portiamo dentro gli zaini, Aqrawi ci mostra le stanze, piene di libri di storia e oggetti di artigianato. La casa apparteneva al qadi di Akre, cioè a quello che nell’ottocento era il giudice ed erudito islamico. Aqrawi l’ha riempita di oggetti della sua infanzia: una macchina per cucire Singer, un vassoio da tè d’argento e una vecchia radio su cui suo padre gli faceva ascoltare le trasmissioni da Tel Aviv e la Bbc. Dopo la salita al potere del partito baathista era l’unico modo per ricevere notizie critiche sul regime.

Ceniamo in un ristorante a gestione familiare dove il cibo è sicuramente fresco, visto che il locale ha aperto il giorno prima. Mentre ordiniamo, va via la corrente. Beviamo il tè alla luce delle torce dei cellulari e parliamo del percorso. Mohammad e McCarron vogliono sapere le impressioni dei tre escursionisti locali. Uno dice che non aveva mai visto alcuni villaggi da cui siamo passati, anche se è cresciuto a pochi chilometri di distanza: non ce n’era mai stato motivo. Un altro è sorpreso da quanta strada abbiamo fatto. Anche se prima di partire sapevamo quanti chilometri avremmo percorso, per lui questa non è un’unità di misura indicativa in montagna. “Non avevamo mai attraversato cinque villaggi in un giorno”, dice.

Fuori del ristorante, i lampioni sospesi tra le case inondano il corso principale di Akre di una dura luce rosata. Le montagne e le loro grotte si stagliano invisibili intorno a noi, sagome nere contro un cielo nero. Aqrawi compare al mio fianco. “Quella è la mia vecchia scuola”, dice, indicando un edificio dall’altra parte della strada. “Ist es nicht schön?”, non è bella?

Due passi montani e due giorni dopo Akre, nei pressi del villaggio di Barzan, incrociamo una coppia di giovani pastori in una valle di vecchi alberi bitorzoluti e cascate scintillanti. La valle è famosa per essere stata teatro dell’insurrezione curda in Iraq e per i suoi legami con la ricchissima famiglia Barzani, di cui fanno parte anche il presidente e il primo ministro della regione autonoma del Kurdistan. La zona quindi è stata risparmiata dalla deforestazione e dall’esplorazione petrolifera che hanno deturpato il paesaggio in altre parti del nord dell’Iraq. La valle attraversa il tratto più verde dell’itinerario, quindi non ci affrettiamo verso la nostra prossima destinazione – Zorgavan, una valle fluviale sul Grande Zab – e ci rilassiamo su un prato mentre Mohammad interroga i pastori sulle strade che percorrono ogni giorno. I due sono perplessi dal progetto ma sono molto seri quando si parla di geografia e spiegano pazientemente tutto quello che sanno. Anche se questo tratto è ben segnato come buona parte del percorso, vedo McCarron che elabora in testa un reticolo di strade alternative.

Le montagne si stagliano intorno a noi, sagome nere contro un cielo nero

Una volta che lui e Mohammad sono soddisfatti, Garthwaite resta indietro per fotografare i pastori e McCarron e io ci ritroviamo a camminare in testa al gruppo. “Quelli a cui hai appena assistito sono i primi due anni e mezzo di costruzione del sentiero”, dice. “Se chiedi ‘come si fa ad andare da Soran a Dargala?’, è probabile che le persone ti rispondano che non lo sanno. ‘Nessuno va più a piedi da Soran a Dargala’, dicono”. Se però chiedi delle vie dei pastori, o di come le vecchie generazioni si spostavano da un villaggio all’altro, “se lo ricordano subito e te le fanno vedere”.

Tradimenti e sopravvivenza

È compito di Mohammad tradurre la pratica escursionistica in attività più familiari e presentare come luoghi di svago montagne che nell’identità curda sono sempre state considerate zone di violenza. Sono state rifugio dei guerriglieri e i luoghi dei campi della morte e dei plotoni d’esecuzione di Saddam Hussein. Nella sola operazione Anfal il governo baathista uccise fino a 180mila curdi. Una cifra che non tiene conto della repressione delle rivolte degli anni sessanta, settanta e dei primi anni ottanta; dei morti nelle guerre contro l’Iran, il Kuwait o gli Stati Uniti; delle persone uccise nelle guerre e nei massacri avvenuti altrove nel grande Kurdistan – in Siria, Turchia e Iran –, dove un percorso escursionistico non è neanche lontanamente immaginabile. Secondo un detto di età imprecisata, “i curdi non hanno amici tranne le montagne”. Il senso è duplice. Da un lato si riferisce ai tradimenti che le comunità curde hanno subìto nei secoli per mano di presunti alleati – tra cui il governo degli Stati Uniti, che secondo alcuni calcoli ha tradito otto volte la causa del nazionalismo e dell’autonomia curda – e dall’altro si ricollega a una storia di strenua sopravvivenza sui monti Zagros, Taurus e Qandil.

“Noi curdi siamo scappati sulle montagne, le abbiamo usate per nasconderci, e in alcuni casi i peshmerga ci hanno vissuto per anni”, dice Mohammad. “Sono state davvero le nostre uniche amiche”. Stiamo attraversando un campo di cardi siriani secchi. Da queste parti non è raro trovare alchemille curde, rabarbari siriani e cipolle iraniane nella stessa radura. Ora in montagna ci si va per camminare, dice Mohammad, “non per nascondersi”.

Dato che la strada per Zorgavan è quasi consolidata, Garthwaite ha invitato due amiche a unirsi al gruppo per la giornata. Sono due appassionate di camminate in montagna. Una di loro, Meena Ayad Rawandozi, indossa una giacca a vento azzurra e un cappello da baseball sui lunghi capelli lisci. Suo padre è un artificiere del governo e ha camminato spesso tra le città yazide per disinnescare gli ordigni dell’Is. Le mine non la preoccupano, i nervi d’acciaio sono una caratteristica di famiglia: “Mio padre mi dice sempre ‘vai in montagna’. M’incoraggia”. Qualche anno fa, Rawandozi si è iscritta a un circolo escursionistico fondato da studenti universitari. Hanno scelto un nome riconoscibile da tutti, “No friends but the mountains”, e sono diventati famosi su Instagram pubblicando foto di escursioni che nessuno conosce. In poco tempo il circolo aveva migliaia di follower. Da cinque i suoi iscritti sono diventati trenta: uomini e donne, curdi, assiri, turkmeni e arabi.

La popolarità del gruppo ha fatto riflettere Rawandozi sull’importanza dell’accesso delle donne ai luoghi all’aperto. Ha cominciato a fare arrampicata con una squadra di soccorso di emergenza per allenarsi sui percorsi a lunga distanza. “In Kurdistan non abbiamo un gruppo escursionistico di sole donne”, dice. “È una cosa nuova per noi”.

Recentemente, Garthwaite ha guidato un gruppo di escursioniste adolescenti in una passeggiata nella valle della Musica, vicino a Shaqlawa. Le ragazze venivano da Sinjar e Mosul e avevano vissuto per anni nei campi profughi. “Non gli è consentito camminare insieme agli uomini”, dice Garthwaite. “Ovviamente ci servono delle guide femminili”. Rawandozi sembra un’ottima candidata. Ad aprile ha accompagnato un gruppo di curde in un’escursione di un giorno organizzata da lei. Voleva fare pratica. Quest’estate guiderà una spedizione tutta al femminile sulla cima più alta dell’Iraq.

Nessun controllo

Trascorro quasi tutto il mese di novembre con Mohammad, McCarron e Garthwaite sui monti Zagros, nel nord dell’Iraq e oltre. Un giorno Mohammad e io partiamo in auto da Erbil per andare a visitare un grappolo di villaggi e rovine ottanta chilometri a ovest dell’inizio del percorso. Ogni luogo ha un ruolo cruciale nella storia della convivenza etnica e religiosa che caratterizza le montagne, e questo è un aspetto a cui Mohammad tiene molto. Ci sono un monastero caldeo del settimo secolo, il tempio sacro per gli yazidi di Lalish e, a Khinnis, una serie di bassorilievi di 2.700 anni fa che celebrano il sistema di canali di Sennacherib, il re che distrusse la città di Babilonia e ha un ruolo ricorrente nel vecchio testamento.

Nessuno di questi siti, però, è incluso nel sentiero, e difficilmente lo sarà in tempi brevi. Oltre alle mine, i due principali pericoli per gli escursionisti nella regione autonoma del Kurdistan sono i bombardamenti e i gruppi paramilitari. I tratti di sentiero che Mohammad e McCarron hanno individuato nella piana di Ninive, tra cui anche un iniziale, ipotetico punto di partenza verso la città di Amedi (che si trova in cima a una collina) passano per zone dove la Turchia ha compiuto centinaia di attacchi aerei e di artiglieria per colpire le roccaforti del Pkk. In alcuni casi i bombardamenti sono arrivati a est di Shush, vicino al percorso. Ad agosto del 2020 un attacco sul monte Bradost ha ucciso quindici persone, di cui cinque civili. “Ci sono tantissime montagne magnifiche dove non si può andare”, mi ha detto un operatore turistico a Erbil. Come le mine, un attacco mortale a un gruppo di turisti farebbe tornare il sentiero dei monti Zagros indietro di una generazione.

L’escursionismo comporta sempre dei rischi su cui chi progetta i sentieri ha poco controllo, e questo vale ancora di più in Kurdistan. La regione è già colpita da una siccità e da una mancanza di acqua senza precedenti. Un ritorno del gruppo Stato islamico o l’aumento di altri attacchi (a marzo i Guardiani della rivoluzione islamica dell’Iran hanno lanciato almeno una decina di missili balistici contro Erbil, a quanto pare in risposta a un bombardamento israeliano in Siria) potrebbe devastare un’economia già sfibrata e basata sul petrolio.

A novembre, durante la mia visita, migliaia di curdi iracheni erano ammassati al confine tra Bielorussia e Polonia per cercare rifugio in Europa. Mentre noi eravamo impegnati sul sentiero, la notizia del giorno erano le proteste in tutta la regione di insegnanti, studenti e attivisti che invocavano riforme democratiche, la fine della corruzione del governo e maggiori opportunità economiche. Anche se la popolazione è quasi tutta a favore dell’indipendenza dall’Iraq, è anche sempre più delusa dai due partiti politici tradizionali e dai loro leader interessanti solo ai soldi. L’affluenza alle elezioni del 2018 è stata la più bassa nella storia della regione.

Il momento cruciale

Il sentiero sarà sempre un lavoro in corso, dice Aysar Batayneh, presidente della Jordan trail association. Ci saranno sempre ostacoli burocratici, dispute con i proprietari locali e preoccupazioni per la sicurezza. “Guardando gli altri percorsi, ti accorgi che le esperienze e le insidie spesso sono le stesse”, dice. Tuttavia, un sentiero non è mai uguale all’altro, e le conoscenze di seconda mano servono fino a un certo punto. “Ogni sentiero è un puzzle diverso da risolvere”, dice Landis, il collaboratore di McCarron a Hunan. “È un organismo vivente. Bisogna stare in contatto con gli escursionisti sul posto, settimana dopo settimana”. Paradossalmente, per vedere la luce il sentiero dei monti Zagros avrebbe bisogno di più visitatori. Ma le autorità e gli investitori locali vogliono prima la prova dell’uso quotidiano.

Più o meno nelle stesse settimane della mia visita, McCarron e Mohammad cominciano a chiedere a gruppi di escursionisti locali di unirsi a loro sui tratti più segnati del sentiero. Un venerdì visitiamo Shush con una compagnia di sportivi del fine settimana provenienti da tutto il Kurdistan: ragazzi con lo zaino in spalla, operatori di ong, impiegati nell’industria del petrolio. Camminando, McCarron riflette sul lavoro fatto quel mese. “Sono contento”, dice. Accanto a noi un bambino di Khirdas spinge una carriola con dentro dei bastoni. “Questa volta abbiamo fatto progressi soprattutto nel sensibilizzare la comunità. Ma, come hai visto, abbiamo anche trovato un po’ di collegamenti, magari di poche centinaia di metri. Spesso sono proprio questi i più difficili da sistemare. Se ne va via una giornata di lavoro”.

Un buon sentiero non è economico. In caso di complicazioni, una giornata di lavoro su un percorso in Kurdistan può costare più di mille dollari, dice McCarron. L’intero progetto probabilmente ne costerà centinaia di migliaia, e non è nemmeno tra i più dispendiosi. La Abraham path initiative, per esempio, ha creato il Palestinian heritage trail grazie a un finanziamento della Banca mondiale da 3,3 milioni di dollari.

“Finora tutto si è svolto dietro le quinte”, dice McCarron

Alla fine, però, un sentiero deve autosostenersi, e spesso il ritorno sull’investimento è alto. La Jordan trail association sostiene che la sua rete di sentieri ha creato più di settecento posti di lavoro dal 2016 e a oggi ha prodotto un reddito di 7,3 milioni di dollari, rimasto in gran parte nelle comunità locali.

Tre anni dopo l’ingresso dell’Api nel loro progetto, Mohammad e McCarron stimano che il lavoro sia a metà dell’opera. Hanno invitato sul sentiero altri progettisti, tra cui Landis, che è venuto in visita un mese prima del mio arrivo. Il mese prossimo affronteranno un test fondamentale per ogni itinerario in cantiere: un’escursione completa. Un gruppo di camminatori esperti percorrerà il sentiero dall’inizio alla fine, seguendo le guide locali e dormendo e mangiando nelle strutture ricettive lungo la strada. I loro riscontri influenzeranno il prossimo ciclo di revisioni. Mohammad si occuperà di registrare l’organizzazione presso il governo, con la supervisione dell’Api. Cominceranno ad addestrare le guide al primo soccorso. Qualunque sia il tracciato finale, la prima escursione completa è sempre il momento cruciale per un sentiero. “Finora tutto si è svolto dietro le quinte”, dice McCarron. “In primavera comunicheremo al mondo l’idea del sentiero”.

Una volta che il tracciato sarà consolidato, metro per metro e pista per pista, il team aggiungerà segnavie e indicazioni. Da quel momento in poi, il ruolo di Mohammad crescerà e quello di McCarron diminuirà. Un giorno, mi confida McCarron, spera di tirarsi fuori dal progetto. Per Mohammad la prospettiva ha un sapore agrodolce. “Leon mi ha insegnato tantissimo”, dice. “Allo stesso tempo, sa che questo sentiero è per la gente del posto. Lui farà altre esperienze nella vita. Avrà un’altra idea e andrà a esplorare altri posti, e il sentiero dei monti Zagros sarà per la gente di qui. Per me, Jawwad, Anwar, Sadiq e centinaia di altre persone”.

Nel pomeriggio, fuori Khirdas, un contadino sta sistemando dei pezzi di scisto per tracciare la griglia di un orto all’ombra della montagna. Un dipendente della compagnia petrolifera, un curdo-canadese di nome Adam Mirani, si prepara per raggiungere in auto Zorgavan, dove si accamperà sotto le stelle per la notte. “Fino a cinque o dieci anni fa la gente che mi vedeva sistemato così diceva ‘che diavolo fai?’ Ora è diventata una cosa normale”.

“Ci sono stati molti sminamenti”, dice Zerdasht al Haydari, un altro escursionista. “Non ero qui quando c’erano le guerre, ma c’erano zone davvero pericolose”.

Il centro della città vecchia di Akre, il 4 novembre 2021 (Andrea Frazzetta)

Nome di battaglia

File di piante di rose fiorite sono allineate nel cortile della casa di Hama Soor, una delle più alte di Dargala. Il villaggio è a cavallo del cordone formato dai monti Handrin e Karokh, che sono sinonimo della resistenza curda. Sono stati teatro di diverse battaglie tra i peshmerga e le forze governative: dalla prima vittoria degli insorti curdi nel 1966 agli scontri precedenti alla rivoluzione del 1991, che assicurò alla regione del Kurdistan l’autonomia di fatto dal resto dell’Iraq. Non è insolito incontrare curdi che portano il nome di queste montagne. La sorella minore di Mohammad, nata nel Rojava l’anno della fondazione della regione autonoma del Kurdistan, si chiama Handrin.

Il nome di nascita di Hama Soor è Ahmed Mustafa Hasan, ma in città tutti lo conoscono come Hama il rosso, che era il suo nome di battaglia durante gli anni passati sulle colline intorno a Dargala da comandante di peshmerga e che si riferisce alle gote sempre rosse ai lati dei baffi. Lungo il vialetto che porta all’ingresso della sua casa è accatastata molta legna. “Dalle mie parti, quando vediamo tanta legna diciamo che qualcuno ha parecchio stress da smaltire”, dice McCarron. “Nel caso di Ahmed, penso si tratti semplicemente di pianificazione”.

In effetti, Hama Soor non sembra un tipo che si fa prendere alla sprovvista. Ci presentiamo alla sua porta con diverse ore di ritardo, alla fine di una giornata massacrante in cui abbiamo camminato per 25 chilometri. Ci fa preparare i letti e chiama la moglie e i figli per farci portare una tazza di tè e una cena a base di ravioli ripieni di carne d’agnello: sarà il mio palato stanco, ma è la cosa più squisita che mi sia mai stata servita in qualsiasi paese del mondo. Per dessert lascia sul tappeto una busta di mele screziate; vengono da Karokh, dove è andato oggi a pascolare le capre, e sono fredde come l’acqua di un torrente. Mohammad e McCarron non resistono e gli chiedono che strada ha fatto. Tutti i sentieri della zona erano di Saddam, dice Hama Soor, e sono in cattive condizioni: “Il governo non ci sostiene. Nessuno dà una mano”. Mentre mangiamo appoggia il telefono contro il barattolo dello zucchero per guardare Undertaker che combatte contro Brock Lesnar e Big Show. Arriva suo figlio di tre anni e Hama Soor si scioglie in un mare di baci. Padre e figlio hanno un colorito rosa barbabietola. Undertaker vince l’incontro.

Tenuta da pastore

Ci mettiamo in marcia poco dopo l’alba per l’ultima giornata di lavoro sul sentiero. Mentre scendiamo a Dargala vediamo i bambini che vanno a scuola a piedi. È una mattinata limpida; dal punto di osservazione giusto si vedono la Turchia e l’Iran. Un po’ più vicino ci sono i monti Mamarut e Omarava. La nostra destinazione è il passo tra i due.

Su un sentiero verso il monastero di Rabban Ormisda. Alqosh, il 5 novembre 2021 (Andrea Frazzetta)

Hama Soor è nella classica tenuta da pastore di capre dei monti Zagros: pantaloni larghi, un’ampia fascia intorno alla vita e un copricapo scuro con le nappe dal motivo così tipicamente curdo che a volte chi l’indossa in Turchia passa dei guai. Scherzando, mi dice che me lo regala solo se il mio volo non fa scalo a Istanbul.

Come salvaschermo del telefono Hama Soor ha una sua foto da giovane, quando era un peshmerga: lì è snello e ha un’espressione seria, la carnagione sempre rosea. La mano sinistra non gli si chiude bene perché ci si sono infilate dentro due schegge di metallo. Nel 1987, mentre combatteva contro i soldati iracheni a Mawilyan, poco distante da qui, il suo fucile fu colpito da una pallottola e alcuni frammenti dell’arma gli si conficcarono nella mano e nel labbro. Un anno dopo, durante l’operazione Anfal, si prese un’altra pallottola, stavolta nell’avambraccio destro. Senza cambiare andatura si tira su la manica per mostrarci la cicatrice del foro di entrata, pulita e netta, e quella di uscita, molto più grinzosa.

“Era il caos”, ricorda. “Combattevano tutti”. I soldati iracheni lanciavano dagli aerei gas nervino e gas mostarda sui villaggi, prima delle incursioni della fanteria. Era il culmine di un decennio di massacri. Un anno dopo lo sterminio di Al Anfal, una parola che viene da una sura del Corano e si riferisce alle “spoglie” della guerra santa, quattromila villaggi erano stati rasi al suolo e due terzi del Kurdistan iracheno erano stati svuotati dei curdi. Dargala fu distrutta e ricostruita varie volte, racconta Hama Soor, proprio come lui è stato ricucito dopo ogni ferita. Ha contato una ventina di schegge di metallo nel suo corpo. Quando nevica gli fanno male tutte. È la prima volta che McCarron e Mohammad perlustrano questo tratto del sentiero con Hama Soor. In precedenza hanno fatto diversi errori: una volta sono finiti nei pressi di uno stabilimento di polli, l’odore era quello inconfondibile di carne macellata. Hama Soor conduce il gruppo lungo un sentiero che costeggia la strada principale e lo stabilimento, seguendo la sponda di un fiume e addentrandosi in un villaggio ai piedi delle montagne attraverso un cimitero. Raggiungiamo uno spiazzo in pietra dove quattro operai stanno costruendo un ponte di cemento. “Mi piace questa strada che ci ha fatto vedere”, dice McCarron. Mohammad è d’accordo: “Sono proprio contento”.

Un obiettivo preciso

Superato il villaggio, il gruppo comincia la salita del Mamarut con il vento forte, fermandosi a riposare dietro uno schermo di querce basse e nodose. Garthwaite svita il tappo del thermos e versa a tutti un po’ di tè in tazze di legno grezzo. Hama Soor ricorda le rustiche dotazioni dei suoi nascondigli in tempo di guerra, pieni di pistole e radio rubate all’esercito iracheno. Era a Seran, lungo il sentiero, poco più avanti rispetto a dove ci troviamo adesso. Garthwaite ha un sussulto, a Seran ha incontrato famiglie che patiscono da anni gli effetti degli attacchi chimici.

Hama Soor dice che è stato fortunato: è stato colpito dal gas di Saddam Hussein solo una volta. Erano i primi giorni di primavera, all’inizio della campagna di Al Anfal. Qualcosa, simile a un’arma, cadde sull’Handrin. Nel giro di pochi istanti nella base tutti sentirono puzza di mele marce. Le sue labbra si seccarono e si screpolarono e lui cominciò a lacrimare. Corse insieme agli altri al ruscello più vicino per sciacquarsi il viso. Era una giornata piovosa, e il vento soffiò il fumo bianco indietro verso la linea delle forze governative. Il brutto tempo gli salvò la vita. Nelle valli dei monti Zagros, dove il gas si depositò, migliaia di persone rimasero asfissiate. Non lontano, a Balisan, ci fu un altro attacco che provocò molte vittime. A Seran lui e i suoi compagni presidiarono la montagna fino all’autunno.

Ora è tutto diverso, dice Hama Soor. “Allora stavamo in montagna perché non avevamo altra scelta. Non avevamo niente, eravamo poveri, non c’era nessuno ad aiutarci. Ora vedo che i giovani vanno in montagna con un obiettivo preciso, ci vanno di loro iniziativa”.

Il sentiero si avvicina a un ponte che attraversa il fiume Rezan. Nascosta dietro un pioppeto c’è una fila di grotte che alcune famiglie scavarono sul fianco della collina per ripararsi dalle bombe. Ora sono magazzini. Chiediamo a Hama Soor come tornerà a casa – noi proseguiamo per Choman, al confine con l’Iran – ma non facciamo in tempo a parlare che lui ferma una macchina di cui ha riconosciuto il guidatore. McCarron lo paga per il vitto e l’alloggio e per averci fatto da guida tra le montagne. Garthwaite gli regala un paio di tazze di legno da viaggio. Hama Soor sorride e accetta. “Mi dispiace se ci siamo persi qualcosa”, dice quando ci salutiamo. “Scusate se non è stato tutto perfetto”.

“È stato perfetto”, lo rassicura Mohammad. ◆ fas

Ben Mauk è uno scrittore statunitense che vive a Berlino. Collabora con diversi giornali, tra cui The New York Times Magazine, The New Yorker, Harper’s e London Review of Books.

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Questo articolo è uscito sul numero 1471 di Internazionale, a pagina 60. Compra questo numero | Abbonati