Nella foto sul passaporto la ragazza giamaicana guarda dritto nell’obiettivo. È il 1952, ha diciannove anni e un’espressione indecifrabile. Non ha mai chiuso gli occhi e tanto meno lo fa in questa foto, prima della partenza per una nuova vita a New York. Il suo volto non tradisce l’emozione. Una zia a Harlem ha promesso di farle da garante. Qualcosa però va storto, il viaggio è annullato. La ragazza nella foto, Ethlyn, è mia madre. Mi darà alla luce quindici anni dopo a Luton, una città industriale nel Regno Unito.

Ethlyn non ha mai parlato della sua opportunità sfumata di diventare statunitense. L’avventura nel Regno Unito, dieci anni dopo, fu una specie di premio di consolazione. Eppure c’è una nota di rassegnazione nei suoi occhi giovani, come se già allora avesse capito che la sua destinazione finale sarebbe stata Luton e non Harlem. Quell’anno fu un momento di svolta. Un articolo pubblicato il 2 luglio 1952 sul Gleaner, il quotidiano nazionale giamaicano, scriveva di un nuovo sistema di quote che limitava molto ogni futuro sforzo di raggiungere i propri parenti negli Stati Uniti: “Circa 25mila giamaicani della lista d’attesa per il visto d’ingresso del consolato statunitense vedono affievolirsi le loro speranze a causa della legge McCarran”.

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La legge favoriva i migranti di origine nordeuropea, premiando quelli che arrivavano da zone con una più lunga tradizione d’immigrazione non forzata negli Stati Uniti, imponendo quote alle colonie britanniche nei Caraibi ma non ai paesi dell’Europa occidentale. Il deputato di New York Adam Clayton Powell jr. era uno dei politici secondo cui la legge voleva espressamente limitare l’immigrazione dei neri negli Stati Uniti. “Questa non è più la terra dei liberi”, disse, “ma un posto riservato agli anglosassoni”. I nostri antenati che riuscirono a raggiungere il paese prima della chiusura dei cancelli prosperarono, almeno economicamente, mentre gli sfortunati che si ritrovarono nel Regno Unito furono compatiti come i parenti poveri.

Il mio albero genealogico ha pochi rami certi. Ethlyn è nata in Giamaica nel 1932. Sua madre, Pauline Fredrickson, era una ballerina, presentata come “l’ultimo grido di New York” quando negli anni venti tornò in Giamaica per esibirsi con la Butterfly Troupe. La madre di Pauline, Theresa, era una violinista: secondo la leggenda di famiglia, una volta suonò alla Carnegie Hall e partorì Pauline quando era ancora adolescente. La bisnonna Reid aveva gestito un bar a Città di Panamá frequentato dagli operai che costruivano il canale. Ancora più affascinante era la storia di zia Anita, che aveva rapinato una banca negli Stati Uniti, era scappata in Canada, era stata inseguita da un poliziotto a cavallo, aveva flirtato con lui, aveva evitato l’arresto e alla fine l’aveva sposato. E prima ancora di zia Anita c’era stata Gong, la trisnonna della mia trisnonna, rapita in Africa e ridotta in schiavitù in Giamaica. Più indietro non siamo in grado di risalire. Mio padre non ha mai parlato della sua famiglia, nemmeno un cenno. A parte Gong, ciò che caratterizza le generazioni della nostra famiglia è una specie d’irrequietezza che si manifesta nell’emigrazione.

Oggi i giamaicani che vivono all’estero sono quasi quanto quelli che sono rimasti in patria. I flussi in uscita e in entrata dalla regione sono un caso di studio illuminante sulla storia della migrazione. “Immigrato” è diventato una parolaccia, un termine spregiativo. Ma i pionieri caraibici sono stati e continuano a essere una grande forza.

Le persone si sono sempre spostate. Da un certo punto di vista, il mondo si divide tra quelli che abbandonano il luogo in cui sono nati e quelli che restano. “Essere nati su una piccola isola, in un territorio coloniale arretrato”, scriveva Derek Walcott, “significava rassegnarsi precocemente al destino”. Quando Ethlyn e mio padre Bageye partirono, nel 1959, i Caraibi erano nel pieno della cosiddetta febbre dell’Inghilterra. Chi aveva gioventù, energia, faccia tosta e un po’ di denaro rischiava tutto e s’imbarcava su una nave o su un aereo. Partivano talmente in tanti che cominciò a circolare una battuta: “L’ultimo che se ne va spenga la luce”.

Nel Regno Unito, e non solo, la grande storia dell’immigrazione dalle Indie occidentali si è concentrata soprattutto sulla cosiddetta generazione Wind­rush, frutto dello sbarco di un migliaio di persone dalla grande nave passeggeri Empire Windrush nel 1948. Descritto come un evento fondativo, anche perché immortalato su pellicola e abbondantemente raccontato dai giornali, lo sbarco fu in realtà solo uno dei tanti che si registrarono alla fine degli anni quaranta. Nel 1947, per esempio, la Ormonde e la Almanzora avevano preceduto la Windrush trasportando più di cinquecento migranti senza tante fanfare. In quanto cittadini dell’impero britannico, i sudditi delle colonie erano autorizzati a lavorare e a stabilirsi nel Regno Unito. Invitati a contribuire alla ricostruzione del paese dopo le devastazioni della seconda guerra mondiale, centinaia di migliaia di migranti delle Indie occidentali continuarono a sbarcare almeno fino al 1962, quando il parlamento approvò il Common­wealth immigrants act permettendo l’ingresso solo a chi aveva un permesso di lavoro.

La vicenda della Windrush si collega alla storia precedente dell’emigrazione dalle Indie occidentali all’America centrale. Da che mondo è mondo, i migranti affrontano dei rischi per la promessa di un futuro migliore. Gli operai delle Indie occidentali che costituivano i due terzi della forza lavoro impegnata nella costruzione del canale di Panamá sacrificarono vite e salute fisica e mentale per migliorare le proprie condizioni. La tragedia di quelli che non ce l’avevano fatta, travolti dalle frane o dilaniati dalle esplosioni, era eclissata dalla trasformazione dei lavoratori poveri in persone che tornavano a casa con l’orologio d’oro nel panciotto, il Borsalino in testa e tante storie da raccontare. Poi tutto finì. Il 10 ottobre 1913, il presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson premette un bottone a Washing­ton e trasmise un messaggio telegrafico: a più di tremila chilometri di distanza una gigantesca esplosione aveva spaccato la terra sollevando un’enorme ondata d’acqua. Era l’ultimo passaggio della costruzione del canale, che sarebbe stato inaugurato l’anno seguente. Per decine di migliaia di lavoratori itineranti e migranti era arrivato il momento di partire. Tra loro c’era anche il mio bis-prozio Herbert Reid, che nel 1916, a vent’anni, salpò da Cristóbal, in Panamá, per raggiungere New York.

Le persone si sono sempre spostate. Da un certo punto di vista, il mondo si divide tra quelli che abbandonano il luogo dove sono nati e quelli che restano

“Girati e ricomincia”, così Ethlyn diceva per descrivere questa migrazione circolare, avanti e indietro dall’isola, da un posto all’altro, per voltare pagina e ricominciare tutto da capo. Dall’abolizione della schiavitù in poi, le Indie occidentali sono diventate un posto da cui si partiva almeno per una stagione, idealmente per andare a lavorare negli Stati Uniti.

La Giamaica si trova a più di mille chilometri dalla costa del Nordamerica. Spesso, se cerchi qualcuno in Giamaica e non lo trovi, ti dicono che “è fuori dall’isola”. Di solito significa che è andato a Miami nel fine settimana per comprare qualcosa, magari il frigorifero o la tv, oppure per andare a trovare amici e parenti. A Miami ci sono talmente tanti giamaicani che gli isolani scherzando la chiamano Kingston 21, come se fosse un quartiere della capitale.

Negli anni settanta, quando i commercianti della classe media si lamentavano della direzione che stava prendendo il paese sotto il primo ministro socialista Michael Manley, quest’ultimo ricordava senza tanti complimenti che “in Giamaica non c’è spazio per i milionari. Se qualcuno vuole diventare milionario abbiamo cinque voli al giorno per Miami”.

L’atteggiamento di Manley era il riflesso di un’ansia legata al concetto di appartenenza al luogo che i giamaicani chiamano casa, ammesso che esista: anche i miei genitori, quando sono partiti per il Regno Unito, non sono mai riusciti a scrollarsela di dosso. Quando eravamo piccoli ci dicevano sempre di “non abituarci troppo” perché eravamo “solo di passaggio”.

Ma per andare dove? Presumibilmente per tornare in Giamaica, anche se poi non l’abbiamo mai fatto. Quello del ritorno sull’isola era un progetto fantasioso e improbabile. A meno di non riuscire a replicare le solide opportunità di progresso sociale ed economico di Luton a Kingston, quest’idea romantica del ritorno non si sarebbe mai materializzata.

Diversi miei zii paterni s’imbarcarono come marinai su navi mercantili. Il secondogenito, Victor, si vantava sempre di aver salvato gli altri dalla miseria. Negli anni quaranta e cinquanta, trovare lavoro sulle isole non era facile. “Il lunedì mattina vedevi i ragazzi che giravano per il centro con le loro valigie piene di diplomi”, ricorda Ethlyn, “ma non c’era lavoro”. Victor, che dopo dieci anni in mare con la Royal Mail Steam Packet Company era stato promosso capo steward, mise una buona parola con i superiori raccomandando i suoi fratelli, prima come garzoni e poi come steward di bordo. “Non li avrei mai abbandonati, non potevo lasciarli andare in rovina”, dice. Era una bella vita, una sorta di preparazione al sogno finale di lasciare l’isola.

Quando ero ragazzo, a Luton, le loro storie sulla vita in mare mi sembravano troppo lontane per essere credibili. In più c’era un problema. A questi racconti gioiosi facevano da contraltare le storie tristi dei nostri amici di famiglia, ragazzi non tanto più grandi di me che erano partiti su navi pericolanti e che poco dopo essersi imbarcati erano annegati. Confondevo le loro tombe d’acqua con quelle degli antenati morti nel viaggio dall’Africa come schiavi. Un libro per bambini di cui ho dimenticato il titolo evocava un’immagine inquietante: erano morti talmente tanti africani (gettati in mare oppure suicidi) che le loro ossa messe insieme formavano un sentiero subacqueo che congiungeva l’Africa alle Americhe.

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I Caraibi furono teatro di un’immane catastrofe, una gigantesca prigione a cielo aperto per cinque milioni di africani strappati alla loro terra durante la tratta degli schiavi dal cinquecento in poi. Ma diedero anche i natali al mondo moderno e all’economia globale, e furono tra i primi esempi di società multiculturale. Dopo lo sterminio delle popolazioni indigene, l’arcipelago diventò un crogiolo di europei (avventurieri o detenuti), schiavi prelevati dall’Africa e un numero sempre più sparuto di amerindi. Le piantagioni erano campi di lavoro forzato, un brutale esperimento capitalista che si complicò ulteriormente dopo la fine dello schiavismo, con l’arrivo di schiere di lavoratori a contratto dall’India, dalla Cina e non solo. Le Indie occidentali erano l’asse su cui poggiava il mondo moderno, alimentando da un lato le rivoluzioni industriali in Europa e dall’altro fornendo uno spietato e ingiusto modello di convivenza tra pochi europei privilegiati e una maggioranza terrorizzata. Più che “caraibiche”, le nuove popolazioni locali, formate da africani ridotti in schiavitù e immigrati europei volontari e no, potevano definirsi “europee africane”, scrive la professoressa Joyce Estelle Trotman, nata nella Guyana britannica.

A livello geopolitico, l’emigrazione volontaria è il frutto dello spostamento di un gruppo di persone (qualunque sia il loro colore) da un territorio in cui hanno poco capitale culturale o economico a un altro in cui sperano di migliorare il loro destino. La generazione Windrush cercava effettivamente un futuro migliore. Quello che non è sempre raccontato è che il suo arrivo nel Regno Unito fu anche la conseguenza di un’emigrazione di massa di britannici. Nel 1947 Winston Churchill aveva implorato di non andarsene a più di mezzo milione “di cittadini vitali e attivi nel pieno della vita” che avevano fatto domanda per trasferirsi nei paesi del Commonwealth percepiti come bianchi: Australia, Nuova Zelanda, Sudafrica, Canada. “Non possiamo fare a meno di voi!”, supplicò. Le sue preghiere rimasero inascoltate. In un certo senso, i trecentomila cittadini che arrivarono nel Regno Unito dalle Indie orientali tra la fine degli anni quaranta e il 1962 andarono a sostituire un milione abbondante di britannici bianchi che in quegli stessi anni lasciarono il paese. Quando lo scrittore e intellettuale Ambalavaner Sivanandan, nato in Sri Lanka ed emigrato a Londra, diceva “noi siamo qui perché voi eravate lì” si riferiva a una precedente migrazione britannica bianca verso le colonie.

Nel settecento e nell’ottocento, migliaia e migliaia di britannici furono scacciati da quelle che fino ad allora erano state terre comuni ritrovandosi ad affrontare una serie di avversità a cui sembravano non poter sfuggire. La legge per la recinzione dei terreni da parte dei proprietari in Inghilterra e l’espulsione dei contadini dalle Highlands in Scozia erano una minaccia esistenziale per chi non era proprietario terriero, costretto così a emigrare in cerca di alternative. Così si spostarono verso nuovi territori per saccheggiare la terra e prosciugarla di ogni ricchezza, replicando il sistema che avevano lasciato in patria.

Alcuni di loro diventarono coloni, fattori, supervisori e direttori delle piantagioni nelle Indie occidentali. Cominciò l’“età dell’oro dello zucchero” scozzese: dopo la guerra d’indipendenza americana, gli investitori scozzesi abbandonarono la produzione del tabacco e fecero fortuna coltivando canna da zucchero nelle Indie occidentali. Perfino il grande poeta scozzese Robert Burns siglò un patto faustiano con lo schiavismo. Nel 1786, faticando a guadagnarsi da vivere come agricoltore nell’Ayrshire, accettò un’offerta di lavoro come “negriero” in una piantagione di zucchero in Giamaica. Prenotò il biglietto per la traversata e rimase in patria solo grazie al suo improvviso successo come scrittore.

La migrazione può essere vista come un grande rimescolamento di persone, luoghi e fortune. Il suo finale è irrisolto, e la sua amara eredità cova ancora sotto la superficie in luoghi come i Caraibi. La fine dello schiavismo nell’impero britannico fu favorita da un programma d’indennizzo di venti milioni di sterline (più o meno l’equivalente di 2,8 miliardi di euro di oggi) che nel 1834 il governo offrì non agli schiavi, ma agli schiavisti. Quando ho chiesto a Louise Smith, una giamaicana di ottant’anni, perché negli anni cinquanta è emigrata nel Regno Unito, mi ha ricordato che la stratificazione sociale e razziale della Giamaica durante la sua gioventù era radicata nello schiavismo. C’era una sorta di “pigmentocrazia” che favoriva le persone bianche: “Loro stavano in pianura, si erano presi la parte migliore della Giamaica. Noi stavamo sulle colline dove correvano le capre”.

Per molti visitatori le ex colonie delle Indie occidentali britanniche sono ancora un mistero. Mettiamo per un attimo da parte i colonizzatori bianchi britannici. Come si spiegano le sinagoghe ebraiche sefardite, le danze cinesi con il dragone, il Ramlila che rievoca la vita di Rama secondo l’antico poema epico indù Ramayana, la comunità tedesca in Giamaica, le sarte libanesi? Ancora una volta, la tratta transatlantica degli schiavi ci offre una chiave di lettura di questi spostamenti.

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Alla fine dello schiavismo, gli ex schiavi si rifiutarono di tornare a lavorare nelle piantagioni e i padroni andarono nel panico, temendo la rovina ora che l’uomo nero emancipato sembrava contento di starsene all’ombra di un albero a sputare semi di cocomero mentre la canna da zucchero marciva. La soluzione fu cercare manodopera all’estero. In particolare, i cinesi e gli indiani erano considerati candidati di prima scelta, e a Hong Kong furono creati degli appositi centri di reclutamento. Nei decenni successivi, decine di migliaia di indiani furono portati in Giamaica, nella Guyana britannica, a Trinidad e in altre isole dei Caraibi, quasi sempre vincolati da un contratto di servitù di cinque anni. Al loro arrivo ricevevano gli attrezzi agricoli, qualche utensile per la cucina e un solo abito, poi erano spediti nelle piantagioni su carri trainati dai muli o treni merci. Le loro condizioni di lavoro erano pessime. In Giamaica, solo quando finiva il contratto di servitù i cosiddetti indiani scaduti potevano ottenere un lasciapassare per accedere al resto dell’isola, e prima di fare domanda per tornare a casa dovevano aspettare altri due anni. Intorno al 1870 le autorità cominciarono a offrire incentivi per convincerli a rimanere. Il premio più ambito era una sovvenzione che assegnava al beneficiario fino a cinque ettari di terra; il più delle volte, però, erano di terreni privi di valore in zone improduttive di montagna.

Alcuni immigrati cinesi si ritrovarono nelle Indie occidentali in seguito a circostanze tragiche. Un collegamento tra Panamá e le Indie occidentali aprì prima del canale, con la costruzione della Panama railroad dal 1850 al 1855. Secondo una storia del canale di Panamá per bambini scritta nel 1963, gli operai “gioiosi e umili” delle Indie occidentali erano considerati i più adatti alle condizioni di lavoro perché “si muovevano con lentezza, erano abituati al caldo e resistevano alla febbre”. In media la forza lavoro era di seimila unità ogni anno, ma la compagnia ferroviaria non compilava statistiche affidabili sulle morti. Nel 1854 gli immigrati dalle Indie occidentali lavoravano al fianco di circa un migliaio di operai cinesi tra i quali la mortalità era talmente alta che nacque la leggenda di “un cinese sepolto sotto ogni scambio”. I superstiti furono caricati in massa su una nave diretta a Hong Kong, ma erano talmente malridotti che furono costretti a sbarcare in Giamaica. Lì si unirono a un altro gruppo di lavoratori cinesi che erano sbarcati nell’agosto 1853 dopo più di cento giorni in mare e che erano stati spediti a lavorare nelle piantagioni di zucchero, caffè e pepe garofanato. Nel giro di due generazioni, i sino-giamaicani s’integrarono nella società giamaicana diventando imprenditori nelle attività più disparate, dagli alimentari alle panetterie, dalle mercerie alle agenzie di scommesse, fino ai negozi di dischi e alle case discografiche con l’esplosione del reggae. Periodicamente, però, tra la popolazione nera esplodeva un violento sentimento anticinese.

A quanto pare, prendersela con gli ultimi arrivati, a prescindere dalle origini, è una caratteristica che accomuna tutta la regione. Nel 1962, al suo ritorno a Trinidad, V.S. Naipaul scrisse dell’antipatia verso gli immigrati da Grenada: “L’atteggiamento verso gli immigrati è lo stesso in tutto il mondo. Le storie sugli indiani occidentali in Inghilterra (‘Vivono in ventiquattro in una stanza’) sono le stesse che circolano a Trinidad su grenadiani e altri”.

La differenza tra i nuovi arrivati e i nativi non aveva a che fare tanto con l’etnia quanto con la migrazione, l’ambizione e il senso di responsabilità verso chi aveva investito su di loro. Viaggiare era costoso, e chi era stato abbastanza fortunato da riuscire a partire di solito si era fatto prestare i soldi dai parenti, che poi dovevano essere ripagati. Lo stesso spirito imprenditoriale che caratterizzava i cinesi in Giamaica si ritrovava negli Stati Uniti dei primi del novecento tra gli immigrati delle Indie occidentali, che avevano aperto sartorie, ristoranti, agenzie immobiliari e altre attività nelle comunità nere. Negli anni trenta i ricercatori del Federal writers’ project, un progetto per trovare un lavoro agli scrittori disoccupati, riferirono di un detto secondo cui “se un indiano occidentale ha dieci centesimi più di un mendicante, apre un’azienda”. A volte questi immigrati erano visti male per la loro tenace fedeltà al Regno Unito anziché agli Stati Uniti. Lo scrittore giamaicano Claude McKay osservava che i suoi conterranei erano “fissati con lo sventolare la bandiera britannica in faccia ai loro cugini americani”.

C’era un motivo se questi emigranti delle Indie occidentali non erano andati a Luton ma a Harlem, Brooklyn e Miami. Gli Stati Uniti erano geograficamente più vicini e anche se molti neri vivevano ancora sotto le restrizioni delle leggi segregazioniste, per chi veniva dalle Indie occidentali era più facile orientarsi culturalmente ed economicamente in Nordamerica, dove c’era una maggiore mobilità sociale rispetto al Regno Unito. Inoltre gli Stati Uniti erano percepiti come una realtà più ricca e molto più affascinante. “Quando ero ragazzino in Giamaica negli anni cinquanta”, dice lo scrittore Viv Adams, “le auto britanniche erano considerate delle scatolette di latta completamente prive di fascino. Chi ce l’aveva fatta guidava una macchina americana”.

Questo contrasto di potenzialità è evidente nella vita dell’ex generale e segretario di stato statunitense Colin Powell. Nel 1995 il New York Times chiese ai suoi lettori di fare un esercizio mentale: togliete a Powell la divisa da ufficiale – scriveva il quotidiano – vestitelo come un autista londinese e immaginatelo su un autobus a due piani mentre grida “biglietti, per favore”. Sembrava una storia fantasiosa, ma era esattamente ciò che era capitato a suo cugino Mervin Powell, i cui genitori erano emigrati in Gran Bretagna.

L’emigrazione aiuta a raggiungere il benessere materiale, ma quali sono le conseguenze per la salute mentale? Secondo la maggior parte degli studi psichiatrici, la dislocazione e la dissonanza della migrazione, sia interna (nello stesso paese) sia esterna (da un paese all’altro), hanno sugli immigrati effetti negativi, che a volte si trasmettono anche ai figli. L’incidenza della schizofrenia tra i giovani neri nati nel Regno Unito da genitori delle Indie occidentali è sempre stata significativamente più alta rispetto al resto della popolazione. A Luton, negli anni settanta, quando sentivo che dei bambini neri erano stati rimandati nei Caraibi dai genitori, chiedevo a mia madre cos’era successo. “L’Inghilterra li ha fatti diventare matti”, mi rispondeva.

I segni del trauma erano ancora più evidenti tra i bambini lasciati a casa dai genitori emigrati e affidati alle cure dei nonni o ad altri componenti della famiglia allargata. Non potendo permettersi di portarli con sé, i genitori promettevano di andare a riprenderli più tardi, dopo essersi sistemati; a volte ci volevano molti anni. Nell’attesa, da Toronto, Harlem o Londra ogni sei mesi i genitori spedivano a casa barili di vestiti e giocattoli (è per questo che erano detti barrel children, bambini barile). Quando arrivava il momento del ricongiungimento, i nonni e i parenti restavano traumatizzati dalla separazione, e spesso i figli avevano difficoltà a legare con i genitori. “Mia madre non mi accettava”, ricorda Everine Shand, che ha lasciato la Giamaica nel 1960 per raggiungere la madre nel Regno Unito dopo sette anni di separazione. “Non aveva alcun istinto materno. Credo che non mi abbia nemmeno abbracciato quando mi ha vista all’aeroporto”.

Quello degli emigrati delle Indie occidentali era un calcolo lucido: la salute mentale in cambio di un beneficio economico. A volte c’erano rimpianti, ma nella maggior parte dei casi ci si alzava il bavero della giacca e si tirava dritto. In fondo al cuore, però, covava sempre un desiderio insopprimibile: il ritorno. Quando V.S. Naipaul tornò a Trinidad e trovò persone uguali a lui, raccontò di “una comunità dalla mentalità contadina, che dava importanza al denaro, spiritualmente statica e staccata dalle sue radici”. Evidentemente, gli sfuggiva il paradosso di lamentarsi degli “indiani di Trinidad che andavano in India e tornavano convinti della loro superiorità”. Questa descrizione di una comunità degli indiani di Trinidad spiritualmente svuotata contrasta con la storia che mi ha raccontato Shirley Williams, un’ex infermiera nata in Guyana: negli anni settanta, centinaia di anziani guianesi si misero pazientemente in fila per imbarcarsi su una nave diretta in India e messa a disposizione dal governo per tornare a casa prima di morire.

Era questo il sentimento che animava gli indiani occidentali con cui sono cresciuto a Luton. Ai funerali li sentivi lamentarsi, “Questo paese è troppo freddo per finirci sotto terra”. Ed è lo stesso sentimento che ha spinto mia madre Ethlyn a tornare in Giamaica, prima di trasferircisi in pianta stabile, dopo un’assenza di più di trent’anni.

L’ho accompagnata, ed è stato allo stesso tempo un dolore e una gioia vedere quante cose erano cambiate dalla sua partenza. La trasformazione, evidente fin da quando siamo atterrati all’aeroporto di King­ston, era sorprendente. Mia madre era molto emozionata, ma fisicamente più rilassata di come l’avessi mai vista. Scherzava continuamente con le persone del posto; cantava tutto il tempo canzoni allegre invece degli inni malinconici che sentivo nella nostra casa di Luton negli anni sessanta. Quando siamo passati davanti al carcere le è perfino tornata in mente una canzone per bambini che ne parlava. Ero sbalordito.

Crescendo a Luton, ho sempre avuto la sensazione che mia madre si sentisse limitata dalla grigia e minacciosa cultura britannica. Il suo era il tipico nervosismo dell’immigrata che non vuole attirare l’attenzione sulla sua diversità. Era come un’artista costretta a dipingere con pochi colori spenti. Qui in Giamaica, invece, aveva finalmente a disposizione tutti i colori dell’arcobaleno. Ho pensato: e se fosse rimasta? Quella ragazza di diciannove anni della foto sul passaporto avrebbe avuto la stessa vitalità che mostrava ora, vicina all’età della pensione? Abbiamo passato molto tempo a osservare l’isola mentre Ethlyn riprendeva confidenza con il suo luogo di nascita. Quando siamo tornati all’aeroporto, due settimane dopo, mia madre ha preso la sua decisione. “Ogni tanto tornerò in Gran Bretagna e mi fermerò un po’. Ma vivrò in Giamaica. Voglio vivere davvero. Torno a casa”. ◆ fas

Colin Grant

è uno storico e scrittore britannico di origini giamaicane. Questo articolo è uscito su Lapham’s Quarterly con il titolo Wheel and come again.

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Questo articolo è uscito sul numero 1459 di Internazionale, a pagina 94. Compra questo numero | Abbonati