Timothée Chalamet potrebbe sembrare un po’ troppo anodino per interpretare un dirompente affabulatore come Bob Dylan. Eppure nel godibile e orecchiabile A complete unknown l’attore si dimostra un ottimo conduttore. Come per le migliori cover band, è la forza della musica e del suo autore a farti guadagnare la pagnotta. Ci sono così tanti Dylan – poeta, profeta, genio perduto e ritrovato – che sceglierne uno può essere controproducente e così A complete unknown, fedele al suo titolo, non ci prova neanche. Invece ci offre Bob the Enigma, un misterioso indovino calato da un altro universo (il Minnesota) in aiuto di un mondo bisognoso. Il film si concentra sui quattro anni che culminano nel Newport folk festival del 1965 e il sisma musicale che scatenò. L’inizio, con l’arrivo di Dylan a New York, non è felicissimo: l’agiografia può essere pericolosa. Le cose migliorano quando Bob trova il suo posto nella vivace scena folk della città, e lui e il film trovano un ritmo fluido. Non piacerà neanche ai puristi dylaniani. La sorpresa più piacevole del film (e il motivo per cui funziona bene) è proprio perché, anche se costruisce un mondo realistico e dettagliato, non cerca di abbellire Dylan né di renderlo comprensibile. Il suo genio rimane sconosciuto, così come la sua storia. Potrebbe essere Gesù, Giuda o tutti e due.
Manohla Dargis, The New York Times
Stati Uniti 2025, 141’. In sala

Stati Uniti / Regno Unito 2023, 125’. In sala
Forse nessun altro attore in attività è sconcertante, a volte irritante, quanto Sean Penn. Fuori dallo schermo non perde occasione per esprimere i suoi giudizi moraleggianti praticamente su ogni cosa. Sullo schermo tuttavia è spesso eccezionale. Come in questo brutale dramma sul lavoro logorante, alienante e grondante di sangue dei paramedici che operano nei servizi di emergenza per le strade di New York. Penn è Gene Rutkovsky, un duro che indossa il suo machismo come difesa contro il crollo interiore. È il mentore del novellino Ollie (Sheridan), il vero protagonista, che ahimè è così stereotipato da non riservare grandi sorprese. Il regista francese Sauvaire scaraventa tutto sullo schermo (inclusi degli allarmanti atteggiamenti reazionari). Forse un film solo su Rutkovsky avrebbe avuto più senso.
Kevin Maher, The Times
Iran / Francia / Svezia / Germania 2024, 97’. In sala
Mahin (Farhadpour) ha settant’anni, è vedova da trenta ed è sola dopo che i figli sono emigrati. Vive alla periferia di Teheran e soffre di solitudine, finché non decide di prendere in mano la sua vita e ritrovare l’amore. Gettando al vento ogni cautela progetta una notte da ricordare piena di musica, danze e vino insieme al tassista Faramarz (Esmaeel Mehrabi). Ma i suoi piani trovano il modo di andare storti in questa bella, intima e tragicomica storia di un amore tardivo, con il repressivo regime iraniano sullo sfondo. A suo modo anche il film è sovversivo. A Moghaddam e Sanaeeha è stato impedito di andare a Berlino per la prima mondiale del loro film: le autorità gli hanno ritirato i passaporti a causa di alcune scene in cui si beve, tra l’altro senza hijab, e a una sequenza formidabile in cui Mahin affronta la polizia morale. Forse ancor più radicale è il fatto che Il mio giardino persiano si concentri su persone comuni, anziane e sole, una fascia di popolazione spesso trascurata dai film in tutto il mondo.
Wendy Ide, The Observer
Stati Uniti 2025, 103’. In sala

Sulla scia di L’uomo invisibile (2020), Leigh Whannell ha cercato di rendere omaggio al classico L’uomo lupo del 1941, volgendo contemporaneamente lo sguardo a preoccupazioni e, soprattutto, paure del mondo contemporaneo. L’impegno c’è, solo che il risultato somiglia a una frase composta con le parole giuste, ma pronunciate nell’ordine sbagliato.
Clarisse Loughrey, The Independent
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