Una delle domande che gli osservatori si fanno dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina è se prima o poi Mosca riuscirà a costringere la sua sorella minore, la Bielorussia, a inviare soldati in guerra. Finora, fortunatamente, non è successo. Forse perché il Cremlino sa che il presidente bielorusso Aleksandr Luka­šenko ha poche unità ben addestrate, e che un loro invio al fronte potrebbe minare la “stabilità” bielorussa.

Probabilmente Lukašenko ha convinto il leader russo che, viste le sanzioni internazionali, la Bielorussia è più utile come fornitrice di prodotti militari e civili e come alleata in grado di fare pressione su Kiev. Il leader bielorusso potrebbe anche aver spiegato a Vladimir Putin che i bielorussi non vogliono combattere contro gli ucraini: se fossero mandati al fronte, molto probabilmente si arrenderebbero e passerebbero dalla parte ucraina. E poi l’intero paese si solleverebbe di fronte alla morte in guerra dei suoi concittadini.

Nella campagna elettorale per le presidenziali del 26 gennaio, Lukašenko ha puntato su una carta vincente: si è presentato come leader saggio e garante della pace. La propaganda di stato ha convinto i cittadini che se le presidenziali del 2020 le avesse vinte l’opposizione, oggi il paese sarebbe in guerra. E una buona fetta dell’elettorato, senza accesso a fonti d’informazione indipendenti, ci ha creduto.

In realtà il presidente bielorusso sta cercando di tenere il piede in due staffe. Da un lato vuole dimostrare di essere un fedele alleato di Mosca; ma dall’altro ha tutto l’interesse ad apparire come un pacificatore, aperto all’eventualità che la guerra finisca senza una vittoria russa. Anche i suoi propagandisti hanno moderato i toni, che in passato sono stati spesso violenti nei confronti degli ucraini. Lukašenko sa che prima o poi l’Ucraina andrà ricostruita, e spera che Minsk possa partecipare in qualche modo ai lavori postbellici. Per adesso, tuttavia, la guerra ha peggiorato drasticamente il giudizio degli ucraini non solo su Lukašenko e il suo regime, ma anche sui bielorussi in generale. A dimostrare che il regime e la popolazione bielorussa non sono la stessa cosa sono rimasti solo il reggimento di volontari bielorussi Kastuś Kalinoŭski, che combatte in Ucraina contro i russi sotto il controllo del ministero della difesa di Kiev, e gli attivisti e i giornalisti legati all’opposizione.

Kiev non vede ancora la necessità di cooperare in modo più stretto con le forze democratiche bielorusse in esilio, e rimane scettica sul reale potenziale della diaspora politica bielorussa.

Lukašenko, invece, è assolutamente determinato a prendere parte ai negoziati sulla fine del conflitto, probabilmente perché teme che gli Stati Uniti e la Russia possano risolvere la questione ignorando gli interessi di Minsk.

Nel frattempo, tra i democratici bielorussi si è diffusa la tesi secondo cui il destino del loro paese sarà deciso in Ucraina: se Kiev avrà la meglio, e se Mosca uscirà indebolita dal conflitto, allora per i bielorussi si aprirà una possibilità di cambiamento. La controffensiva ucraina del 2022 e quella, poi fallita, del 2023 avevano sollevato speranze in tal senso. Oggi, invece, i russi avanzano lentamente ma implacabilmente nel Donbass. E Kiev ha problemi con la mobilitazione dei soldati e i rifornimenti di armi.

La settima volta di Lukašenko

◆ Il 26 gennaio 2025 i bielorussi andranno alle urne per le elezioni presidenziali, che confermeranno al potere il dittatore Aleksandr Lukašenko, in carica dal 1994. Il voto è stato definito una “farsa” dalla leader dell’opposizione in esilio Svjatlana Tsichanouskaja. Oltre a Lukašenko, arrivato al settimo mandato, i candidati sono quattro, ma tutti fedeli al regime. La larghissima vittoria di Lukašenko alle precedenti presidenziali, che si svolsero il 9 ag0sto 2020, fece scoppiare una grande ondata di proteste contro il regime, accusato di aver manipolato il voto, sottraendo la vittoria all’opposizione. Le proteste furono represse brutalmente. Migliaia di persone furono arrestate e i principali oppositori si rifugiarono all’estero. Meduza, Reuters


Comunque sia, è ovvio che la questione del ruolo della Bielorussia nella fine del conflitto non è d’importanza primaria. L’occidente considera Lukašenko un burattino del Cremlino: perché dovrebbe essere invitato al tavolo delle trattative? In questa vicenda il ruolo che avrà Minsk dipenderà in gran parte dall’esito del confronto tra il nuovo presidente statunitense Donald Trump e il Cremlino.

Consapevoli e determinati

Sul fronte interno, dopo la brutale repressione della rivolta pacifica del 2020, tra gli oppositori di Lukašenko ha preso piede l’idea di una sollevazione violenta contro il regime. Le grandi speranze riposte nel reggimento Kalinoŭski non rappresentano un’ipotesi concreta di cambiamento.

Intanto, un anno dopo la conferenza “La strada verso la libertà”, organizzata dall’opposizione bielorussa a Kiev alla fine del 2023, la miracolosa unificazione delle forze democratiche non c’è stata. E non ha portato risultati nemmeno il forum bielorusso-ucraino che si è tenuto sempre a Kiev lo scorso novembre, per discutere “della strategia delle forze democratiche bielorusse in vista della liberazione del paese dal regime di Lukašenko”.

Naturalmente, se il regime entrerà in una crisi acuta, la violenza potrà essere utile, perfino decisiva per abbatterlo. Ma perché questo succeda si dovranno verificare determinate condizioni, dentro e fuori il paese, tra cui l’indebolimento della Russia, che a sua volta dipenderà dal sostegno occidentale all’Ucraina. Al momento, però, Washington non sembra interessata a una destabilizzazione della Russia, tanto meno alla sua dissoluzione.

I bielorussi devono quindi essere consapevoli della realtà: per Washington e per l’Unione europea la democratizzazione della Bielorussia non è una priorità. Certo, i leader occidentali continuano a esprimere preoccupazione, ma di fatto molti hanno accettato l’idea che Minsk faccia ormai parte dell’impero russo.

Il futuro della Bielorussia è nascosto dalla nebbia che avvolge le sorti della guerra in Ucraina. Ma qualsiasi sarà l’esito del conflitto, i bielorussi devono prendere atto che il loro paese non sarà liberato dall’esterno. Magari potranno verificarsi condizioni internazionali favorevoli, ma il problema della dittatura i bielorussi dovranno risolverlo da soli. ◆ ab

Pozirk è un’agenzia giornalistica bielorussa in esilio a Vilnius, in Lituania.

Questo articolo è stato pubblicato in collaborazione con Voxeurop

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Questo articolo è uscito sul numero 1598 di Internazionale, a pagina 30. Compra questo numero | Abbonati