In questi racconti l’argentina Samanta Schweblin non dà pace al lettore. Non mette nessun unguento sulle ustioni: la perdita di persone care, la violenza emotiva, la malattia, la sensazione di essere stati espropriati, l’egoismo. Questa scelta implica un rischio elevato in un’epoca in cui parte del successo letterario e commerciale di uno scrittore consiste nell’abilità di distillare il lato buono delle cose e presentare le crisi come opportunità. Le storie di Sette case vuote si muovono lungo la linea tra la veglia e il sonno. Alcune sembrano incubi diventati realtà. Nella tradizione di quei racconti dell’orrore che sono allo stesso tempo magnifici racconti realistici (e viceversa), la realtà è sfiorata dal suo rovescio fantasmagorico e il fantastico si annida nei lati oscuri del reale. Schweblin ci porta verso una sensazione di disagio che si allarga fino alla nausea. Forse la perla di Sette case vuote è il racconto in cui Lola, una donna anziana, evoca continuamente la morte facendo liste, impacchettando le sue cose in scatole, dando alla sua vulnerabilità una dimensione maligna: aspetta il marito raggomitolata nel letto, prolungando artificialmente il suo malessere, in modo che l’uomo si senta in colpa. Lola, ossessiva e dedita al controllo, vedrà la sua vita ridursi a un’eterna ripetizione della perdita e dello smarrimento. Marta Sanz, El País
Il romanzo di Benjamin Myers è una storia inaspettatamente toccante di un’amicizia che vince le barriere di età, classe e genere. Ambientato nel corso di un’estate all’indomani della seconda guerra mondiale, il libro segue il sedicenne Robert Appleyard mentre lascia il suo villaggio di minatori di Durham per cercare un lavoro qualunque, purché non abbia nulla a che fare con l’estrazione del carbone. Raggiungendo la costa orientale incontra Dulcie Piper, una donna che ha tre volte la sua età e che vive da sola in un cottage. I due formano una relazione improbabile ma simbiotica, in cui lui fa giardinaggio mentre lei fornisce cibo, riparo e sostentamento intellettuale. Dulcie è un’esteta che mangia aragoste e beve molto, con un pastore tedesco di nome Butler. Oltre a dargli da mangiare, Dulcie incoraggia Robert a frequentare l’università e lo introduce alla poesia, “il modo dell’umanità di dire che non siamo completamente soli”. Così facendo, rivela di essere stata un tempo l’amante di Romy Landau, un poeta tedesco. Quando Robert scopre un manoscritto dell’ultima raccolta inedita di Romy, offre a Dulcie un messaggio dall’oltretomba. Narrato in retrospettiva da Robert, che alla fine diventa lo scrittore che Dulcie voleva che fosse, il libro è il ritratto sensibile di un uomo emotivamente maturo che guarda indietro a una singola estate che gli ha cambiato la vita. Jude Cook, The Guardian
All’inizio del nuovo romanzo ellittico di Yiyun Li, la narratrice senza nome descrive il difficile compito che si è prefissata nello scrivere questo particolare libro, che prende la forma di una conversazione immaginaria tra una madre e il figlio morto. “Ero un generico genitore in lutto per un generico figlio perso in una tragedia inspiegabile. C’erano già tre cliché”. L’umorismo in questo libro è sottile ma potente, sempre seguito da un’eco vitale di assurdità che rimanda all’occasione della conversazione: infatti, la non inspiegabile tragedia per cui la narratrice è in lutto è il suicidio di suo figlio di 16 anni, che lei chiama Nikolai, anche se non era questo il suo vero nome. Li ha scritto il libro nei mesi successivi al suicidio del figlio, e la responsabilità che la scrittrice si assume è simile a quella della maternità, che è per lei una preoccupazione ricorrente. Nel romanzare questa conversazione, la narratrice ha fatto sì che l’incontro tra lei e il figlio potesse aver luogo, anche se il mondo in cui parlano non è limitato dal tempo o dallo spazio, ma è “fatto di parole”. Lei cerca di stabilire che non devono più “attenersi alle regole che legano un figlio e un genitore”, ma la “speranza senza colpa” o la “colpa senza speranza” che circonda quella relazione li trascina; madre e figlio sono ancora bloccati in una lotta fatta di necessità e obblighi reciproci, anche se sembrano andare d’accordo quando Nikolai era vivo. _Dove le ragioni finiscono _è un’interrogazione della forma così come un tentativo di capire come vivere la sofferenza e scriverne. La madre scrittrice speranzosa e colpevole sa bene che il romanzo non è una conversazione con suo figlio, ma con se stessa. Lauren Oyler, The New York Times
Un campeggio nelle Landes. Sembra un’ambientazione innocua. Tuttavia, per Léonard, protagonista di Caldo, il campeggio nasconde un rovescio morboso e una pressione sociale malsana. Adolescente viziato e a disagio che si vergogna a togliersi la maglietta e non sopporta il caldo, Léo finge di divertirsi alle feste in riva al mare dove tutti sono interessati solo al sesso. Il campeggio, con il suo conformismo solare e la sua ingiunzione di simulare il divertimento, diventa lo specchio angosciante del suo malessere. Léo è “fuori sincronia con il suo ambiente”. Come si trasforma un campeggio paradisiaco in un incubo soffocante? Introducendo un cadavere. Una sera, Leonard assiste alla morte accidentale di un compagno, che si strangola con le corde di un’altalena. Ha la strana idea di seppellire il cadavere, caricandosi di un senso di colpa divorante che non lo lascerà mai. Victor Jestin combina violenza, sensualità e delicatezza, senza perdere mai il senso della misura. Philippe Couture, Le Devoir
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