Aparecida è il libro commovente in cui la giornalista e attivista femminista Marta Dillon racconta come ha recuperato i resti della madre, assassinata durante la dittatura di Videla. Dillon – che aveva dieci anni quando la madre fu rapita – descrive anche com’era vivere con una donna bella e potente, la cui ambizione era traboccante: cambiare il mondo, viverlo tutto con una passione vertiginosa. Un ago infilato nel petto: ecco cosa si prova leggendo questo caleidoscopio d’immagini sfocate, sentimenti, documenti e dialoghi che intrecciano la storia di una morte, quella di Marta Taboada, militante peronista, insegnante, avvocata e madre di quattro figli piccoli, con quella di chi ha dovuto abituarsi alla sua assenza forzata. Aparecida è la storia di una ricerca disperata. E del ricongiungimento, più di tre decenni dopo, dei figli e dei nipoti con un teschio e alcune ossa della loro ex madre e nonna. Alla fine dell’agosto del 2011, una folla emozionata ha accompagnato il funerale. Le ossa della madre, quei “bastoncini gialli secchi come quelli di chiunque altro”, insieme a un mucchio di offerte amorevoli di amici e parenti, vivono da allora in una scatola di cedro nella tomba di famiglia. Hinde Pomeraniec, La Nación
Faye Gallagher, vedova e madre single, sta accompagnando a casa i suoi cinque bambini litigiosi dopo l’ultimo giorno di scuola, quando perde il controllo. Sterzando sulla corsia d’emergenza, costringe la dodicenne Ellen a scendere dall’auto e a fare gli ultimi cinque chilometri a piedi. Ore dopo, è calata l’oscurità ma Ellen non è ancora tornata a casa. Non bisogna farsi ingannare, però. L’esordio di Una Mannion mantiene abilmente la promessa di suspense, ma non è un romanzo poliziesco. Man mano che la storia si sviluppa, il senso di minaccia e di mistero non deriva dal rapimento di una ragazzina, ma da una famiglia disfunzionale e dai travagli dell’adolescenza. L’ambientazione è Valley Forge Mountain, un’affiatata comunità rurale alla periferia di Filadelfia. Siamo nei primi anni ottanta e la narratrice Libby, che ha 15 anni ed è la sorella di Ellen, sta lottando per trovare la sua strada. È bloccata tra la consapevolezza che dovrebbe essere più comprensiva nei confronti di sua madre e il lutto per il padre irlandese inetto ma idolatrato. Dove Mannion eccelle è nell’evocare un tempo e un luogo che stanno scivolando via, ma che riesce a ritrarre sulla pagina con perspicace economia lirica. I Gallagher saranno presto divisi, ma per un momento sono tenuti insieme dal loro desiderio collettivo di essere la famiglia che erano una volta. Agganciare un romanzo di formazione a un thriller non è facile, ma I ragazzi della Blue Route ci riesce in modo più che convincente. Hephzibah Anderson, The Guardian
Un haiku del poeta giapponese Kobayashi Issa (1763-1827) ha ispirato Muriel Barbery nel creare la struttura a specchio del suo quinto romanzo: “Camminiamo in questo mondo / sul tetto dell’inferno / guardando i fiori”. È la storia del viaggio iniziatico a Kyoto di una giovane donna francese, Rose: un pellegrinaggio postumo sulle orme del padre, un mercante d’arte giapponese, Haru Ueno, di cui scoprirà il testamento alla fine di un itinerario accuratamente pianificato, dai templi alle case da tè, senza averlo mai incontrato. L’autrice dell’Eleganza del riccio, che ha vissuto in Giappone per due anni, ha creato un magnifico testo in dodici brevi capitoli, punteggiati da piccole parabole con fiori o piante. È un’ode a questa “terra di alberi e pietre” e a una città che favorisce la metamorfosi. E se Barbery abbozza una storia romantica di lutto e d’amore, è sempre come eco di lontane leggende e precetti di saggezza. In questo libro raffinato assaporiamo tanto la delicatezza delle descrizioni quanto le formulazioni ellittiche dalle infinite risonanze. Alla fine, è in un sogno che Rose incontra suo padre. Le tende la mano e le dice: “Correrai il rischio della sofferenza, del dono, dell’ignoto, dell’amore, del fallimento e della metamorfosi. Allora, come il fiore di prugno è in me, tutta la mia vita passerà in te”. Monique Petillon, Le Monde
I racconti di Cathy Sweeney, sempre brevissimi e con un finale inaspettato, si possono leggere come presagi di un mondo che non capiremo mai. Dalla moglie che si porta il pene del marito al lavoro nel suo cestino del pranzo al marito che s’innamora di un robot erotico, i ventuno racconti di Tempi moderni, pieni di violenza e disprezzo, desiderio e perversione, sono a volte agghiaccianti ma malvagiamente divertenti. Molte delle storie sono presentate come fiabe o racconti morali, ma sono ambientate nella vita contemporanea e nascono da urgenze decisamente moderne. Tra i molti temi esplorati, certamente la crisi del matrimonio e il disgusto della vita coniugale attraversano tutto il libro, indicando un malessere più profondo che riguarda la società. Molte storie sono narrate da uomini, e molte sono incentrate sulle donne, in particolare le donne trattate in modo barbaro, oppresse o semplicemente ignorate e lasciate da sole con dei bambini piccoli. Ma non c’è mai il tentativo di suscitare compassione. Per quanto la vita moderna possa essere ridicola e noiosa, non si può ignorare l’immane lotta delle persone che si nasconde anche dietro le realtà dall’aspetto più semplice.
Maggie Armstrong, Irish Independent
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