La protagonista di Se non sai che sei viva, il nuovo romanzo di Marie-Helene Bertino, è una donna di 36 anni che a giorni deve sposarsi con un uomo che non ama. La sua nonna morta è tornata per schernirla sotto forma di un uccello spiritoso, e per affidarle una missione: deve lasciare l’hotel di Long Island dove si è accampata per “decomprimersi”, e trovare suo fratello, eroinomane solitario e rinomato drammaturgo da cui lei si è allontanata anni prima. Dopo averle detto questo, la nonna-uccello defeca sul suo abito da sposa. “Sabato”, riflette la protagonista senza nome, “sarò una donna con un vestito che varca la soglia della vita matrimoniale. Una sposa. Finalmente mi lascerò alle spalle la mia famiglia”. Si sbaglia di grosso, come dimostrano i giorni seguenti, alla deriva tra mille disavventure in uno stato di sogno semilucido popolato da allucinazioni, scambi di persone e molte, molte metafore sugli uccelli. Quando alla fine trova il suo inafferrabile fratello, lui è irriconoscibile per ragioni che scoprirete leggendo. Di cosa parla Se non sai che sei viva? Parla di trauma, dolore, perdono, cattive madri, femminilità, monogamia. Parla di una donna intrappolata dal suo subconscio e dalle convenzioni sociali, in una ricerca omerica per recuperare il controllo sulla propria vita. È anche una storia piena di colpi di scena da soap opera, che si susseguono con assurdità. Il risultato è un libro inquietante, cupamente comico, vulnerabile e vero. Bess Kalb,The New York Times
Lettura facile di Cristina Morales è una narrazione scomoda. Prima di tutto, è scomodo che le sue protagoniste siano quattro donne presumibilmente affette da disabilità mentali che, tuttavia, non solo hanno la virtù archetipica di “dire la verità” (come i ciechi o i folli in tante storie classiche) sulle istituzioni e le leggi che ci opprimono come carcerieri reazionari, ma la affrontano attivamente con i loro corpi, i loro istinti, le loro parole. Il romanzo non puntella la nostra buona coscienza. Al contrario, ci spinge sul versante sgradevole della favola: o partecipiamo alla retorica oppressiva e al senso comune, o siamo ipocriti come i presunti attivisti che popolano queste pagine, o siamo ridicoli, didascalici e sottomessi. Morales racconta la storia di un gruppo di coinquiline che hanno una sessualità intensa, un linguaggio libero e complessi rapporti di sorellanza. C’è una “trama” centrale: un giudice deve decidere se approvare la sterilizzazione di Marga, considerata la sua promiscuità erotica e la sua disabilità. Questo basta a rendere Lettura facile un libro terrificante. La scrittura di Morales è devastante, straripante, passa dall’intimità ruffiana all’esplosione della furia, da lì alla parodia della vita quotidiana, passando per il sarcasmo contro le istituzioni, per tornare sempre a un linguaggio indomabile: quello delle sue quattro protagoniste che, pur conoscendo le regole, le infrangono in piroette che lasciano il resto di noi nel ridicolo. Nadal Suau, El Mundo
Lui è uno scrittore, lei un’architetta. Entrambi sono romanticamente coinvolti, ma sulla loro relazione pesa il mondo capitalista contemporaneo, quella modernità liquida che Zygmunt Bauman ha saputo descrivere così bene. I personaggi senza nome dell’argentino Patricio Pron vivono in un mondo in transizione, fatto di relazioni personali effimere, frammentarie, insicure e fragili. È una sorta di parabola narrativa che cerca di mettere sul tavolo le “nuove configurazioni del desiderio” attraversate da precarietà e ambivalenza, che allo stesso tempo vogliono essere serie e leggere. Anche la struttura del libro è fragile, come un’impalcatura su un mare di ghiaccio che rischia di incrinarsi sotto il peso di personaggi ben consapevoli della frustrazione che causano agli altri e a se stessi. Domani avremo altri nomi non è né un romanzo né un saggio, ma oscilla costantemente dall’uno all’altro, permettendo alla riflessione di scivolare con naturalezza nella trama. Un testo suggestivo sui tempi presenti e futuri, su ciò che ci plasma, sui nuovi ruoli della mascolinità e della femminilità, sulla velocità come chiave di lettura delle relazioni. Una velocità che, come voleva Ralph Waldo Emerson, è l’unica salvezza quando si pattina sul ghiaccio sottile. Ricardo Baixeras, El Periódico
Dalia Sofer è una scrittrice ebrea iraniana-americana la cui famiglia è espatriata a New York dopo che suo padre fu imprigionato e torturato nel 1980. Con Uomo del mio tempo racconta la storia della rivoluzione e le sue conseguenze dal punto di vista di un collaborazionista. Hamid, il cui radicalismo si fonda non tanto sull’adesione a dei princìpi quanto sul disprezzo verso il padre prepotente, ripensa alla sua rottura con la famiglia (fuggita negli Stati Uniti) e ai suoi anni come riluttante torturatore. Il filo del racconto lo porta a New York nel 2017, quando affronta sua madre e suo fratello e raccoglie le ceneri di suo padre, che desiderava essere sepolto in Iran. Giunto ormai alla mezza età, è l’ombra di un uomo che odia se stesso, pronto ad affrontare il suo passato. Sofer dà il meglio di sé evocando la gioventù combattiva di Hamid. L’Iran prerivoluzionario è un calderone di scontenti. Hamid si rivela perspicace sul potere dei sermoni e dei manifesti nel galvanizzare la rivolta. Mentre la storia iraniana svanisce sullo sfondo, Sofer si sofferma sulla vergogna di Hamid. Ma le lacrime del torturatore lasciano indifferenti. Sam Sacks, The Wall Street Journal
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