A nove anni Billy Woods scrisse una storia su un malvagio Golliwog (un personaggio della letteratura per l’infanzia che somiglia a una bambola di pezza nera). A sua madre, professoressa giamaicana di letteratura, non piacque. Suo padre, esule marxista dallo Zimbabwe, portava le cicatrici della guerra politica. Questi fantasmi non sono solo parte del passato di Woods, sono la struttura stessa della sua musica. Non parlano: infestano. Oggi è più maturo, ma dialoga ancora con quell’ombra. Golliwog è una resa dei conti con simboli ereditati e identità superate. L’album, formato da diciotto brani, comincia tra crepitii lo-fi e atmosfere cupe. In Waterproof mascara una donna piange tra rovine coloniali. In Misery, prodotta da Kenny Segal, Woods si muove come un fantasma. Il finale contiene una frase del romanzo Amatissima di Toni Morrison. In Cold sweat l’orrore dell’impotenza assume logica onirica: sei su un tavolo, circondato da discografici, costretto a ballare. Poi ti risvegli accanto a un’ex fidanzata che non hai mai lasciato. Niente finisce davvero. Woods esplora il disfacimento causato da storia, fama e violenza. Il titolo stesso rielabora un insulto razzista e lo trasforma in un’armatura. Golliwog, più che un album, è una casa infestata. Ogni verso apre una porta sulla memoria. E, anche se disorientante, resta coerente. Woods è il filo conduttore: misurato, spettrale, tagliente.
Francis Buseko, The Quietus


Sono passati più di dieci anni da quando Suzanne Vega ha pubblicato un album all’altezza del nuovo Flying with angels, in cui ritrova quel tocco incisivo da racconto breve che l’ha sempre caratterizzata. Queste canzoni parlano di vite quotidiane senza essere semplicistiche; i personaggi e le loro storie appartengono al tumulto della nostra epoca ma sono narrati con un occhio umanistico. Musicalmente, Vega è in forma: ogni brano è orecchiabile, ben eseguito e non si dimentica in fretta. Continuando la strada aperta a metà degli anni ottanta da Left of center, scritta per chi è ai margini, ora con Speakers’ corner la cantante afferma l’importanza di esprimere se stessi e il diritto di essere diversi, in un momento storico in cui molti che invocano la libertà di parola sono gli stessi che spingono sulla repressione. L’album è pieno di oscurità, anche se stemperato da squarci di speranza. Ogni tanto la cantautrice prova a osare di più, con risultati alterni. Comunque anche i pezzi meno riusciti (Love thief o Lucinda) non sono brutti. Nel corso del disco Vega sa sempre come avvicinarsi alle problematiche dei nostri tempi, evitando soluzioni banali ma offrendo empatia.
Will Pinfold, Spectrum Culture
Pochi pianisti sono riusciti a venire a capo della Via crucis che Franz Liszt compose nel 1879, perché l’alchimia di questo lavoro austero e incostante funzioni, serve che insieme al pianista ci sia un ensemble vocale al suo livello. Leif Ove Andsnes l’ha trovato tra i suoi compatrioti del Norwegian Soloists Choir, che riescono a dare vita a questo rito un po’ sconnesso. Dall’inizio, che ricama sull’inno latino Vexilla regis, i cantanti illuminano il saluto alla croce nella nudità del canto a cappella. Il Cristo vibrante di Oystein Stensheim ci sconvolge. Nella chiesa neoromanica di Oslo dove si sono tenute le registrazioni, Andsnes ha trovato un pianoforte Steinway del 1917 che lo aiuta ad approfondire l’introspezione, in particolare nei momenti solitari (IV, V, XIII), senza rinunciare al dramma, grazie anche alla precisione e alla dinamica di un tocco sontuoso. L’ascolto del coro da parte del pianista, evidente nelle sue risposte sempre assolutamente precise, è davvero notevole. Andsnes non è solo il motore di questa Via crucis, ma regna su tutto un programma lisztiano completato con intelligenza dalle sei Consolations e da due delle Harmonies poétiques et religieuses.
Benoît Fauchet, Diapason
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