Quando Lorde è emersa nel 2013 con il singolo Royals, ha stupito tutti per il talento che andava oltre i suoi sedici anni. Non sorprendeva, invece, la certezza con cui criticava l’élite e il culto delle celebrità. Pure heroine, il suo album di debutto, era pieno di quella sicurezza adolescenziale su quello che è giusto o sbagliato nella cultura pop. Crescendo, la cantante neozelandese ha esplorato emozioni più complesse in Melodrama (2017) e in Solar power (2021), dove dichiarava: “Se cerchi un salvatore, non sono io”. Ora con Virgin abbraccia l’incertezza senza scusarsi. Hammer, la canzone d’apertura, recita: “Sono pronta a sentirmi senza risposte”, mentre What was that resta sospesa nella confusione nata dalla fine di una storia d’amore, con una domanda che rimane irrisolta. In Favourite daughter, dedicata alla madre, Lorde offre versi incisivi come “Ero una cantante / tu la mia fan / quando a nessuno importava”. Il pezzo parla di sacrifici e ansie che vanno affrontati anche da adulti. Nonostante i testi forti, la produzione di Virgin manca di quella forza immediata che avevano pezzi come Green light. Tuttavia, in questo album Lorde ritrova la sua potenza vocale, passando dal sussurro al rap leggero, come in If she could see me now. Quando produzione, voce e testi si fondono in modo così fluido, il risultato è sublime. Alla fine, è proprio nelle zone grigie che Lorde sembra brillare di più. Ben Hewitt, Pitchfork
BC Camplight, nome d’arte del virtuoso cantautore e pianista Brian Christinzio, torna con una riflessione cruda e surreale su un periodo segnato dai tentativi di superare traumi infantili, mantenere la sobrietà e combattere demoni interiori. E ancora una volta il musicista statunitense trapiantato da anni a Manchester dimostra quanto sia bravo a trasformare il caos in arte. Con una domanda insolita per un disco pop, nell’iniziale The tent Christinzio chiede se abbiamo mai provato l’ashwagandha e torna al 1993, dando vita a un racconto dell’adolescenza; è un brano ricco di arrangiamenti e variazioni imprevedibili. Terapia, riconciliazione e guarigione sono i temi ricorrenti. A sober conversation è un disco onesto, ambizioso e sorprendente. L’abilità del cantautore di mettere insieme umorismo, tragedia e assurdità è impareggiabile. Riesce a scrivere qualcosa di profondamente personale in cui però possiamo ritrovarci. La sua introspezione non significa mai piangersi addosso ma si rivela in un paesaggio sonoro cinematografico. Michael Barron, Xs Noize
Aldo Ciccolini era nato a Napoli il 15 agosto 1925: il più francese dei pianisti italiani tra poco avrebbe cent’anni. Massenet, Liszt (magnifici Années de pèlerinage del 1954), Albéniz, Kabalevskij, Castillon, Rossini, Brahms, Bach, Rachmaninov: i suoi quarant’anni di registrazioni per la Emi, raccolti qui, respirano un eclettismo pieno di spirito e di poesia. Si comincia a seguirlo con sonate di Scarlatti e il primo concerto di Čajkovskij, usciti dopo la sua vittoria al concorso Long-Thibaud del 1949, e si finisce con l’integrale di Debussy del 1991, passando per Séverac, Chopin, Schumann, i cinque concerti di Saint-Saëns e dei dischi di melodie francesi con Janine Micheau, Nicolai Gedda, Gabriel Bacquier, Mady Mesplé e Jean-Christophe Benoît. Il pianista torna sulle pagine concertanti di Franck e d’Indy, prima in mono poi in stereo, e sforna due integrali di Satie che riflettono il passaggio dalle registrazoni analogiche a quelle digitali. Questo materiale, già pubblicato nel 2009 su 56 cd, torna con quattro dischi supplementari. Tra questi si segnala un album registrato nel 2010, tutto di bis da leccarsi i baffi, da Bailecito di Gustavino a Minstrels di Debussy al Kupelwieser-walzer di Schubert trascritto da Richard Strauss. François Laurent, Diapason
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