Kae Tempest, artista londinese, si è sempre concentrato sulla pittura della ricca vita interiore degli altri. Con Self titled, il rapper e performer di spoken word si rivolge a se stesso, dando vita a un disco che trabocca di vivida interiorità, anche se a livello sonoro il risultato è discontinuo. L’esplorazione della propria identità di genere e la sua riscoperta sono il fulcro dell’album, e Tempest ne intreccia i temi. I stand on the line e Know yourself rassicurano un sé più giovane con grande arguzia. Il pezzo forte dell’album, Breathe, è un’affermazione di sei minuti – registrata in un’unica ripresa, su suggerimento del nuovo collaboratore Fraser T. Smith – in cui Tempest ricompone osservazioni precedentemente diverse tornando al ritornello: “Sii qualcuno in cui il bambino che ero potesse credere / respirare”. Il rifiuto del riposo dà nuova intensità a parole che avevamo già sentito. Quando Tempest torna allo spoken word rimane sicuro di sé, ma ti lascia con il desiderio di tornare ai suoi lavori precedenti. Anche la strumentazione è incoerente: la frenetica Diagnoses ha sintetizzatori potenti e Till morning unisce cupe trombe e frasi di chitarra, ma gran parte dell’album ricade nel tipico rap orchestrale londinese, raggiungendo raramente i vertici di altri lavori simili. Self titled compensa la sua instabilità musicale con la poesia sempre tagliente di Tempest, ed è difficile non essere rapiti da ogni parola.
Yu An Su, Clash
Il panorama di Miami sembra un organismo vivente. Prendete il Brickell city centre, un edificio che sembra respirare, concepito per creare una brezza naturale nel caldo della Florida. Il produttore dance Nick Léon viene dalla contea di Broward, a nord di Miami. Come questo edificio, la sua musica riflette l’umidità della città ma anche i suoni esuberanti e quella minaccia inquietante che le aleggia sempre intorno. Léon ha lavorato per tre anni a questo disco e l’ha chiamato A tropical entropy, da una frase di Joan Didion contenuta nel libro Miami, che descriveva quest’area come un’America a rovescio, con il suo clima ozioso e la presenza oppressiva del crimine. L’artista prende le tensioni ritmiche delle strade e le mette nella musica per creare un ritratto divertente ma allo stesso tempo snervante. A tropical entropy è un album dance raro, riesce a esplorare gli aspetti più squallidi dell’ambiente da cui proviene evitando di essere solo un punto di fuga. Salta da un genere all’altro, come se non riuscisse a stare fermo più di un minuto: ogni brano è breve e turbolento. È un disco più adatto alla stanza da letto che a un club perché trasforma l’energia della pista da ballo in battiti del cuore paranoici. Un album vivo e imperfetto, come la città in cui è nato.
Andrew Ryce, Pitchfork
Bedřich Smetana (1824-1884), il padre della musica classica ceca, ha scritto poca musica da camera, ma i suoi due quartetti per archi sono un gioiello. C’è molta autobiografia: in questi lavori, composti in età matura, il musicista annota le sue gioie, i suoi dolori e i suoi ricordi, fino alla tristezza di fronte all’arrivo della sordità. Il quartetto Zemlinsky li cesella con una comprensione straordinaria dell’anima del compositore e delle sue radici boeme. I quattro musicisti hanno questi pezzi in repertorio dal 1994, quando sono nati come formazione al conservatorio di Praga, e mantengono nei loro confronti un entusiasmo straripante, idiomaticamente all’altezza di esecuzioni che hanno fatto la storia come quelle del quartetto Smetana e del Talich. Il primo quartetto (1876), sottotitolato Dalla mia vita, si articola in quattro miniature sorprendenti per intensità e naturalezza. Sono qualità che troviamo anche nel secondo quartetto (1883), dove è esplicita la tristezza meditativa di un compositore cosciente di essere sul punto di sparare i suoi ultimi colpi.
Erwan Gentric, Diapason
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