Il romanzo d’esordio di Rye Curtis è una di quelle rare storie al confine tra vari generi che si fa amare dal lettore malgrado la sua sovrabbondanza di figure e situazioni eccentriche o comunque sopra le righe. Alcuni personaggi sono cupi e grintosi, altri saggi e leggeri di spirito; insieme danno forma a un racconto molto originale di avventura e perseveranza. Nel libro ci sono due protagoniste: Cloris Waldrip, nata in Texas, l’unica sopravvissuta all’incidente di un piccolo aereo nella foresta nazionale di Bitterroot, nel Montana, in cui ha perso la vita suo marito di 54 anni; e la ranger Debra Lewis, una donna divorziata, alcolizzata, depressa nonché deprimente che, assistita da un equipaggio di soccorritori improbabili, tenta di rintracciare Waldrip servendosi degli indizi che la donna ha disseminato dietro di sé nella natura selvaggia. Il vortice di eventi stravaganti degno di un film di David Lynch è organizzato in capitoli che si alternano tra questi due personaggi (Waldrip è, tra le due, la figura meglio riuscita), dimostrando come la forza dello spirito e la capacità di maturazione morale siano a volte – ma a volte no – ravvivate da traumi inaspettati. Waldrip ha circa settant’anni quando si ritrova incagliata in mezzo al nulla, costretta ad affrontare il destino usando solo le scarpe robuste che ha scelto di indossare quella mattina e il suo (considerevole) ingegno. Racconta la storia vent’anni dopo, essendo sopravvissuta al calvario solo per finire in una residenza per anziani nel Vermont. Le settimane della lotta per la sopravvivenza di Waldrip sono quelle del Kingdomtide, un’antica stagione liturgica metodista che coincide con l’autunno. In quel periodo la donna deve combattere gli animali selvatici, la fame, le condizioni estreme, scogliere che spezzano le caviglie, un leone che cammina all’indietro e numerose altre situazioni dovute a cause umane più che naturali. “È strano il modo in cui lo spirito umano riesce a resistere”, dice Waldrip. “Una persona può abituarsi a una situazione, anche se in passato le era sembrata intollerabile”. Tutto il bene che si può è una storia creativa sull’anticonformismo, la resilienza e il modo in cui traiamo forza da contesti completamente imprevedibili, come cadere dal cielo. Janet Kinosian, Los Angeles Times
L’ombra del fuoco è un romanzo poliziesco storico, ambientato nella Parigi del 1871. È primavera, e la capitale francese è in stato d’assedio. Il governo di Adolphe Thiers, insediato a Versailles, va all’offensiva per stroncare la Comune. A margine di questa guerra civile riappare il serial killer Henri Pujols. Eccolo tornato a rapire, drogare e sequestrare ragazze per soddisfare i pornografi e i clienti dei bordelli. Tre ausiliari della polizia e un soldato del 105° battaglione federato – la cui amante è appena scomparsa – indagano per le strade, tra bivacchi e ospedali improvvisati, per tentare di mettersi sulle tracce delle vittime di Pujols. La storia del romanzo di Hervé Le Corre è raccontata in dieci capitoli, corrispondenti ad altrettanti giorni crepuscolari a partire dal 18 maggio, compresa la cosiddetta settimana di sangue (tra il 21 e il 28 maggio 1871) che distruggerà i sogni degli insorti. Dei dieci personaggi di cui il romanziere bordolese ci narra le vicende, pochissimi sopravviveranno. L’ombra del fuoco è un racconto che affascina per la sua tensione e la sua malinconia. La tavolozza cromatica del romanziere ha ben poche somiglianze con quella del grande pittore comunardo Gustave Cour-bet, perché Le Corre fa essenzialmente acqueforti. Pagina dopo pagina incide le ombre, nei cieli e nei volti, in una Parigi fatta di fuliggine e di oscurità notturna. Qua e là, macchie di colore si mescolano all’inchiostro nero: il rosso sangue della bandiera comunarda, l’incandescenza di un incendio, la fiamma di una lampada a petrolio. I barlumi di speranza che tremolano e non si spengono.
Macha Séry,Le Monde
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