Izumi ha perso il marito e il lavoro. Passa il tempo a cucire pupazzi di stoffa e a chiedersi come abbia trascorso 20 anni interpretando il ruolo della “donna di successo”. Da adolescente aveva voluto solo vincere, salire sempre più in alto e oggi non sa come interpretare la parte di “disoccupata, 34 anni”. Haruka ha avuto il cancro al seno. È grata al fidanzato che l’ha sostenuta durante la cura, e per ora è la gratitudine a tenere insieme la loro relazione. Eppure la irrita che Hyosuke preferisca che la malattia resti un segreto: “Non è facile essere amati”, pensa. I dilemmi delle donne che lavorano raccoglie cinque racconti di Fumio Yamamoto (1962-2021), pubblicati nel 2000 sull’onda lunga lasciata dallo scoppio della bolla economica giapponese. Il Giappone e i suoi scrittori convivono da tempo con il declino economico e 25 anni dopo la prima uscita questa raccolta ha mantenuto pienamente tutta la sua forza. Il libro esplora anche le aspettative delle donne giapponesi nel dopoguerra: c’è quella che riduce l’orario di lavoro dopo la maternità; l’altra che valuta di sposare un fidanzato problematico pur di lasciare il padre violento; una terza che torna al lavoro ma continua a fare la casalinga a tempo pieno. Molte si scontrano con capi che danno per scontate le dimissioni dopo il matrimonio o colleghi che trovano “antipatiche” le lavoratrici. Queste storie di sessismo degli anni novanta parlano chiaramente anche ai lettori del 2025. Alison Fincher, Asian Review of Books
Andrew Miller è un maestro della sfumatura. Nella Terra d’inverno, ambientato nei primi anni sessanta, si concentra sulla difficoltà di amare in un mondo tutt’altro che accogliente. Il romanzo comincia con un suicidio: un giovane muore nel seminterrato di un ospedale psichiatrico e il suo corpo viene scoperto da un altro internato. Nessuno dei due sarà protagonista diretto della vicenda, ma la loro presenza inquieta stabilisce il tono di ciò che seguirà. La storia vera e propria riguarda due coppie: Eric Parry, medico di campagna originario del West Country, e sua moglie Irene, trasferiti in una remota casetta in cui lei fatica ad adattarsi; il vicino Bill Simmons, agricoltore improvvisato, e sua moglie Rita, un tempo ballerina a Bristol e ora casalinga. I nomi e le differenze sociali servono a indicare alcune dinamiche di classe e di genere ma Miller interpreta i suoi personaggi come più della semplice somma di quei tratti. Quando Eric risponde alla lode di una sua amante: “In effetti non sono sicuro di essere né un buon medico né un brav’uomo”, avvertiamo una verità dolorosa. Rita sembra a suo agio nel ruolo domestico eppure si perde nel suo mondo interiore. Lei e Irene stringono un’insolita sorellanza durante una festa di Natale e la successiva tormenta, quando fanno un pupazzo di neve su un pendio tra le loro case, in un’atmosfera gelida e sospesa. Entrambe aspettano un figlio e comprendono di trovarsi a un bivio che cambierà le loro vite nel bene e nel male.
Rachel Seiffert, The Guardian
Una setta di donne sottomesse, disposte a tutto pur di compiacere un misterioso “lui” e una brutale madre superiora. Sacrifici imposti dalla cecità della fede – mutilazioni, autoflagellazioni, camminate sulle braci ardenti – in un mondo postapocalittico segnato da piogge acide, venti velenosi e insetti che bruciano la pelle. In questo scenario una devota annota di nascosto ciò che accade a lei e alle altre recluse in un convento isolato. Su questi elementi ruota Le indegne, il nuovo romanzo di Agustina Bazterrica (Buenos Aires, 1974), già autrice del disturbante Cadavere squisito (Eris 2024), tradotto in più di venticinque lingue. Anche qui domina un universo distopico devastato dalle catastrofi ambientali, dove l’umanità sopravvive a fatica. Come nel Racconto dell’ancella di Margaret Atwood, di cui il libro è debitore, la protagonista scrive in segreto un diario nella cella della Casa della Sacra Fratellanza. Bazterrica sceglie ancora una volta una narrazione cruda, temperata da un lirismo essenziale. Il risultato è un mondo “meravigliosamente orribile” e una riflessione sulla violenza dei sistemi patriarcali.
Carlos Sanzol, La Nación
Nel suo primo romanzo, La vita facile, Aisling Rawle immagina un reality show estremo: venti persone, chiuse in una struttura nel deserto, devono formare una coppia ogni notte per evitare l’eliminazione. Lily, la protagonista, partecipa al programma convinta che la vittoria possa offrirle una vita diversa. Rawle ricostruisce con precisione il funzionamento del gioco: le telecamere sempre accese, le prove arbitrarie, le ricompense minime. L’autrice rende credibile questo mondo regolato da compiti umilianti e da decisioni aleatorie. Lily non è una protagonista carismatica: è insicura, poco propensa all’azione, a volte sembra quasi invisibile. Ma questa scelta consente al romanzo di mostrare come il gioco deformi i rapporti e la percezione di sé. La trasformazione del personaggio è lenta (forse troppo per alcuni) ma suscita una riflessione più ampia sulle dinamiche dell’intrattenimento e sulla nostra complicità di spettatori. All’inizio la narrazione procede con cautela, poi il romanzo trova un suo equilibrio tra tensione narrativa e critica sociale. Ne emerge una satira del voyeurismo mediatico che non rinuncia a chiedere la nostra complicità: il desiderio di seguire la gara fino all’ultima eliminazione rimane fortissimo.
Kirkus Reviews
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