Le canzoni di Juana Molina non ti rimangono in testa: t’invadono la mente come un fungo cordyceps. Dopo una prima vita da star della serie comica argentina Juana y sus hermanas, da quasi trent’anni Molina trasforma il folk sudamericano in una rete di radici rizomatiche dove digitale e acustico s’intrecciano. La sua esperienza da attrice ha umanizzato i loop alieni del suo album della svolta, Tres cosas, e con il tempo è diventata la chiave per capire l’umorismo che serpeggia nella musica dell’artista di Buenos Aires: cupo ma mai cupissimo, simile a un’illustrazione di Edward Gorey. Molina è una clown nel senso classico, più interessata all’assurdità dell’esistenza che alla risata. In Halo (2017) raccontava la fine di una relazione attraverso pozioni e mele avvelenate, con in copertina un femore antropomorfo. DOGA, il suo ottavo disco e il primo dopo otto anni, è una serie di drammi morali senza morale, più sfuggente e rivelatore dei precedenti. Tra il 2019 e il 2024 Molina ha registrato trenta ore d’improvvisazioni con il tastierista Odín Schwartz. Pensava di fare un triplo album, anche strumentale, e se DOGA dura solo 55 minuti mantiene comunque un senso di vastità. Uno es árbol è un gorgo sonoro che si regge su un basso ipnotico e versi enigmatici sul “non-albero”, presenza-assenza che rispecchia il suono stesso del disco. Due brani lunghi nella seconda metà mostrano i diversi toni che Molina sa estrarre dall’oscurità: dalla ninnananna inquieta Rina soi a Miro todo. Se Halo guardava al paranormale, DOGA esplora il paranaturale. Molina sceglie timbri sintetici che evocano versi animali notturni o ronzii minacciosi. In Desinhumano la chitarra imita il guzheng cinese mentre rinarra la storia del re delle scimmie Sun Wukong. Alla fine, suggerisce Molina, la crudeltà umana fa più paura del buio. In Intringulado, parola inventata per “un groviglio complicato”, canta di tre sorelle che litigano per una teiera appartenuta alla madre, intrecciando vita reale e finzione. Molte canzoni sono scritte come dialoghi teatrali, e ascoltare DOGA è come assistere a un’opera sperimentale con Juana Molina nel ruolo di se stessa. La verità biografica conta poco: l’arte di Molina è fatta di deviazioni improvvise, e restare ferma non è mai stata un’opzione.
Walden Green, Pitchfork
Pubblicato pochi mesi dopo l’album strumentale Music for writers, Daylight daylight è il secondo disco di Steve Gunn del 2025. Unisce il minimalismo del lavoro precedente all’atmosfera nebulosa e primaverile di Other you (2021). Qui Gunn si presenta come un trovatore acustico: è il suo primo album per la No Quarter. È prodotto da James Elkington, che crea gli arrangiamenti di archi e fiati donando al disco un carattere arioso e a volte astratto. I sette brani scorrono lenti e meditativi, evocando morte e rinascita senza toni cupi. Daylight daylight è un viaggio curioso e luminoso: pezzi come Hadrian’s wall e Loon incantano con arrangiamenti che richiamano Ennio Morricone. Gunn, però, rimane ancorato al presente, con canzoni che sembrano sul punto di dissolversi in luoghi ignoti.
Timothy Monger, All Music
Considerare Chin up buttercup un album sulla fine di un amore potrebbe essere accurato ma è allo stesso tempo inadeguato per una musica che vuole soprattutto ricostruire la vita dopo una perdita. Le esperienze descritte nelle canzoni coprono l’intero ciclo del dolore, mentre il titolo aggiunge una nota sardonica riferita all’imperativo sociale di offuscare con finti sorrisi un mondo interiore in frantumi. Austra, alter ego della canadese Katie Stelmanis, fa un esorcismo dance, in cui da una parte si balla e dall’altra c’è spazio per toni intimi. La musicista sta in mezzo a tensioni profonde e tradimenti, che bilancia attraverso ritmi leggeri in un’atmosfera generale dominata dal disorientamento. La voce resta una dei suoi punti di forza con cui si dimostra ferita ma determinata. Austra ci sta dicendo che sentirsi a pezzi non significa essere deboli.
Matt Young, The Line of Best Fit
Anziché seguire la moda e registrare le tre ultime sonate per pianoforte di Beethoven come un blocco unico, Víkingur Ólafsson ha scelto di orbitare attorno a una sola, la n. 30 in mi maggiore, op. 109, collocandola in una linea temporale che riflette sia il passato del compositore sia l’ambiente viennese dell’inizio dell’ottocento. Per il pianista islandese guardare indietro significa rivolgersi a Bach, di cui trova le impronte musicali nel tardo Beethoven. L’invenzione senza freni di quest’ultimo, sostiene, affonda le sue radici nel barocco. L’album si apre con il preludio in mi maggiore dal primo libro del Clavicembalo ben temperato di Bach (tutte le opere presenti sono in mi maggiore o mi minore, tonalità che il pianista, sinestetico, associa a diverse sfumature di verde). Le note eseguite con un delicato distacco barocco si riversano in una lettura trasparente della sonata n. 27, op. 90, di Beethoven, che Ólafsson considera una diretta anticipatrice dell’op. 109. Una limpida interpretazione dell’ultima partita di Bach offre un sostanzioso sorbetto musicale prima della sonata D 566 di Schubert. E la sua transizione verso l’op. 109 è mozzafiato. Ólafs-son non solo offre un’articolazione di varietà eccezionale, ma ha anche un suono di straordinaria bellezza.
Clive Paget,The Guardian
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