L’abbandono di programmi di lotta alla povertà sta riportando il Brasile indietro di anni. Il gigante sudamericano figura di nuovo nella mappa delle Nazioni Unite della fame nel mondo. La pandemia di covid-19 ha causato la perdita di 7,8 milioni di posti di lavoro aggravando una situazione già precaria. Secondo i dati dell’università libera di Berlino, in Germania, oggi 125,6 milioni di brasiliani, cioè il 59,3 per cento della popolazione, vivono in condizioni d’insicurezza alimentare.

“Ci svegliamo e non speriamo più di avere pane, riso o qualcosa da mangiare per colazione. E non sappiamo se mangeremo il giorno dopo”, dice Jaqueline Félix, 22 anni. Vive a São Paulo, lavorava come domestica e commessa, ma ha rinunciato a cercare un impiego. Riceve 375 real (60 euro) al mese di aiuti di emergenza dal governo di Jair Bolsonaro (estrema destra) e per sopravvivere si affida alle donazioni. “Un pacco di pannolini e una confezione di latte costano 50 real. Non ce li possiamo permettere”, dice.

Félix e i suoi due figli mangiano a colazione, quando si svegliano, e poi nel pomeriggio, a metà tra il pranzo e la cena. Nel 2003, quando Luiz Inácio Lula da Silva, del Partito dei lavoratori (sinistra), diventò presidente del Brasile, s’impegnò a garantire che tutti i brasiliani mangiassero tre volte al giorno. Istituì il programma Fome zero, fame zero, che puntava su alcuni pilastri della sicurezza alimentare. I primi due erano già in discussione tra i movimenti sociali dell’epoca: la disponibilità e l’accesso agli alimenti. Il terzo aspetto era la stabilità, “cioè la capacità di mantenere in piedi il sistema. Non si trattava solo di offrire un pacco alimentare di base”, spiega l’economista Walter Belik, uno degli ideatori del programma sociale di Lula. Al centro del dibattito c’era anche la questione della qualità degli alimenti.

Grazie al programma alimentare e alle politiche per aumentare il salario minimo e distribuire il reddito, nel 2014 il Brasile era uscito dalla mappa della fame.

In fila per la sopravvivenza

Secondo Emerson Pavão, un addetto alla sicurezza di cinquant’anni, le conquiste di quel periodo sono un lontano ricordo. Pavão è disoccupato, ha dovuto lasciare la casa dove viveva e da più di un anno dorme nei centri di accoglienza di São Paulo. “Alcune ong ci portano da mangiare, ma non tutte le sere. Quindi arriva il momento in cui sei costretto a umiliarti, vai da uno sconosciuto e gli dici: ‘Ho fame’”.

Uno dei luoghi più importanti della città per la distribuzione di viveri è la Ceagesp, un enorme centro agroalimentare all’ingrosso. “È la fila per la sopravvivenza”, dice Sônia de Jesus, 55 anni, che vive con il figlio, laureato in economia e disoccupato.

Fino all’inizio del 2020 De Jesus lavorava come domestica e badante, ma poi è stata licenziata. Da quando ha scoperto la Ceagesp aprire il frigo ha smesso di essere il momento più triste della giornata. “Prima c’era solo acqua”, ricorda De Jesus, che riceve 150 real dal governo. “Dieci anni fa riempivo il carrello al mercato. Ora quando vado a fare la spesa mi porto solo una borsa piccola”.

Il sociologo Herbert de Souza, noto come Betinho (1935-1997), è stato uno degli attivisti in prima linea nella lotta contro la fame in Brasile. Nel 1993 creò la ong Ação da cidadania, che ha comitati locali in tutti gli stati brasiliani ed educa le comunità alla lotta per i diritti sociali. L’obiettivo iniziale era la raccolta e la distribuzione di prodotti alimentari. Ma i progressi raggiunti con Fome zero hanno spinto i successori di Betinho a fare progetti più ambiziosi.

“Quando sono entrata a far parte di Ação da cidadania, nel 2010, ci occupavamo di ‘fame di libri’ e ‘fame di cittadinanza’”, racconta Ana Paula de Souza, coordinatrice dell’ong. Ma nel 2017 sono comparse di nuovo le richieste di aiuti alimentari. L’emendamento costituzionale 95, approvato quell’anno dal presidente Michel Temer, entrato in carica dopo la destituzione di Dilma Rousseff (del Partito dei lavoratori), ha congelato gli investimenti nel sociale per vent’anni.

“Le mense popolari e le cucine comunitarie hanno chiuso in tutto il Brasile”, racconta De Souza. “La salute e la sicurezza alimentare sono state messe in pericolo durante la pandemia, proprio quando le persone avevano bisogno di avere difese immunitarie alte”, racconta.

Da sapere
Inflazione alle stelle

◆ Negli ultimi quindici mesi i prezzi globali dei generi alimentari sono aumentati del 40 per cento, la crescita maggiore registrata dalle primavere arabe del 2011. Gli aumenti mettono in difficoltà soprattutto i paesi poveri ed emergenti, dove le persone spendono la maggior parte di quello che guadagnano per mangiare. Le forti recessioni causate dalla pandemia hanno messo in ginocchio non solo le persone che percepiscono redditi bassi, ma anche la classe media, con milioni di famiglie che sono scese al di sotto della soglia di povertà. Secondo la Banca mondiale, dei 100-150 milioni di persone ridotte in estrema povertà dalla crisi causata dalla pandemia l’80 per cento vive nei paesi a reddito medio. Il sudest asiatico è la regione più colpita, seguita dall’Africa subsahariana. Le Monde


Lo smantellamento delle politiche pubbliche di lotta contro la fame è cominciato durante i governi di Rousseff, che ha guidato il Brasile dal 2011 al 2016. “La situazione politica era instabile e si adottò una politica di austerità e di taglio della spesa pubblica”, ricorda Walter Belik.

Oggi, in piena pandemia, anche chi riceve un salario minimo all’inizio di ogni mese si trova in difficoltà quando è il momento di fare la spesa. È il caso di Vera Lúcia Silva dos Santos, 66 anni, che vive nel quartiere di São Judas, a São Paulo. Dal 2019 va alla Ceagesp per avere da mangiare.

“Un cespo di insalata costa tre real, una follia. Non possiamo permetterci le uova, figuriamoci la carne”, dice mentre aspetta sotto il sole la donazione di un po’ di frutta e verdura.

Cucinare con l’etanolo

Padre Julio Lancellotti è uno dei responsabili della distribuzione alimentare nel grande capannone del centro sociale São Martinho de Lima, nel quartiere di Belém, a São Paulo. Secondo lui, l’aumento della povertà in Brasile è evidente. Con 14 milioni di persone in cerca di lavoro, i bisogni diventano sempre più elementari.

“La gente è alla ricerca di gas per cucinare. Il fatto che molti brasiliani abbiano ricominciato a cucinare con l’etanolo è un indicatore della crisi umanitaria in corso. A volte non riescono neanche a usarlo, perché l’alcol è molto caro”, dice.

Luzia Janaína da Cunha, che era addetta alle pulizie, ha perso il lavoro all’inizio della pandemia e ora vive in un centro di accoglienza. “Non potrei mai mantenermi se per un pacco di riso di cinque chili dovessi pagare 25 real, perché non lavoro e non guadagno”, dice.

Secondo Belik, 60 milioni di brasiliani, circa il 27 per cento della popolazione, per garantirsi il sostentamento alimentare durante la pandemia hanno fatto affidamento su qualche forma di solidarietà. Il problema potrebbe essere alleviato investendo nella regolamentazione degli stock: “Quando i prezzi salgono, il governo dovrebbe intervenire per aumentare l’offerta e abbassare i prezzi. Quando il prezzo è così basso da causare perdite per gli agricoltori, il governo dovrebbe comprare scorte per sostenere i prezzi”.

Il programma Fome zero prevedeva scorte cuscinetto, basate sull’acquisto di prodotti provenienti dall’agricoltura familiare, per rifornire asili, scuole e ospedali. Nel 2014 il programma aveva un budget di più di un miliardo di real (160 milioni di euro), ma dopo la destituzione di Rousseff nel 2016 i fondi si sono ridotti del 90 per cento.

Per Sônia de Jesus è evidente che l’insicurezza alimentare che colpisce la sua famiglia dipende dal sistema di produzione e distribuzione industriale: “Il Brasile è ricco di generi alimentari, di frutta e verdura, ma esporta quasi tutto all’estero. E quando i beni vanno all’estero il prezzo si fa in dollari, e aumenta”, dice ripetendo quello che ha imparato dal figlio, economista.

Ana Paula, della ong Ação da cidadania, dice che le donazioni sono importanti, ma non risolvono il problema strutturale. “Un conto è dare un pacco alimentare di base a una persona in un particolare momento di emergenza. Un altro conto è capire che sono sempre di più le famiglie a cui manca sempre da mangiare”, dice.

Speranza

Padre Lancellotti riflette sul suo ruolo: “Con una mano offriamo il pane e con l’altra lottiamo”, dice. “A chi oggi soffre la fame, non posso rispondere ‘aspettiamo che arrivi la rivoluzione, il cambiamento sociale e che giustizia sia fatta’, perché nel frattempo le persone muoiono. Bisogna continuare a lottare, senza perdere di vista l’obiettivo a lungo termine”.

Una delle più grandi campagne di solidarietà del Brasile è Periferia viva, organizzata da militanti di organizzazioni come il movimento dei Sem terra e il Movimento per i diritti dei lavoratori.

Fornendo cibo sano ed ecologico, i contadini aiutano a combattere la fame e ad aprire un dialogo con la società sulla riforma agraria e la sovranità alimentare. Secondo Lancellotti il Brasile ha bisogno di un nuovo periodo di speranza.

“Le persone sono stanchissime, non ce la fanno più”, dice. “I brasiliani non hanno solo fame di cose da mangiare, ma anche di dare un senso alla vita. Se il poco che ho da mangiare lo ottengo con tristezza e rabbia, non servirà a sostenermi. Devo mangiare con speranza”. ◆ cp

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Questo articolo è uscito sul numero 1428 di Internazionale, a pagina 44. Compra questo numero | Abbonati