I negozi erano tutti pieni. L’abbiamo notato appena arrivati in Ucraina. Avevamo attraversato il confine con la Polonia all’inizio di dicembre, e dopo aver superato il checkpoint polacco e quello ucraino, ci siamo fermati in una stazione di servizio che all’interno aveva un caffè, e siamo rimasti sorpresi di scoprire che era immacolato e ben fornito. C’erano tre donne in uniforme che lavoravano al bancone. Un camionista sedeva a un tavolo di legno chiaro, mangiando una crêpe fresca. C’era tutto quello che potevi desiderare. C’era caffè dall’Etiopia. C’erano patatine, bibite gassate e cioccolato di alta qualità. C’era frutta fresca. C’erano liquori di ogni tipo. C’erano libri. C’erano tazze che celebravano l’esercito ucraino.

Ho comprato due di quelle tazze. Su una c’era lo stemma dell’Ucraina, sull’altra il disegno di una mano che lanciava una molotov accompagnato dalla scritta “Smoothie ucraino”.

Quando siamo tornati al furgone, il nostro autista, un ucraino di mezza età, ha visto le mie tazze e ha insistito per aiutarmi ad avvolgerle bene per essere sicuro che non si rompessero nello zaino. Prima ha usato la carta velina. Poi, pensando che non bastasse, è andato alla pompa di benzina e ha preso uno di quei panni con cui si puliscono le astine per controllare il livello dell’olio, e ha voluto avvolgere lui stesso le tazze. Non voleva che quegli oggetti, con i loro messaggi di resistenza, fossero danneggiati.

Non mi aspettavo che ci sarebbero state stazioni di servizio pulite e ben fornite in tutta l’Ucraina. Non mi aspettavo che ogni negozio a Leopoli e Kiev fosse pieno, ben illuminato e immacolato. Non mi aspettavo di poter comprare decorazioni natalizie raffiguranti soldati ucraini che imbracciano un missile anticarro. Ne ho comprata una insieme alla carta igienica su cui è stampata la faccia di Vladimir Putin.

A Kiev abbiamo mangiato in caffè e ristoranti raffinati: cucina della Crimea, cucina georgiana, l’alta cucina ucraina di un famoso chef di nome Ievgen Klopotenko, che aveva studiato alla scuola di cucina Cordon bleu e ora voleva dimostrare al mondo che il boršč non era un’invenzione russa ma ucraina, una delle tante cose e persone (Gogol, Bulgakov) che erano ucraine ma erano state prima cooptate dai russi, poi dai sovietici e infine di nuovo dai russi. Questa storia doveva finire.

Penso che in occidente non ci siamo fatti un’idea complessiva della vita in Ucraina durante la guerra. È infinitamente più ricca, viva e stimolante di quanto crediamo. Nella prima settimana di dicembre Kiev era animata da auto, pendolari, musica natalizia, concerti a lume di candela, gente che faceva acquisti. I negozi erano aperti. I saloni di bellezza erano aperti. I cinema erano aperti. I tatuatori erano aperti. I bar erano aperti. Una sera eravamo seduti in un pub a bere birra locale, quando un uomo grosso con l’uniforme militare ucraina è entrato insieme alla sua ragazza, che indossava un cerchietto con le orecchie di gatto. Si sono seduti a un tavolo laccato e si parlavano con gli occhi lucidi, tenendosi per mano, finché non è entrato un altro uomo, con un cane al guinzaglio. Sembrava che l’uomo fosse il fratello o un amico del soldato, e che non si vedessero da un po’. I due si sono abbracciati, mentre il cane, un incrocio nero e muscoloso, mugolava e saltellava di gioia. Il soldato si è chinato per accarezzarlo e giocarci, poi finalmente tutti si sono seduti di nuovo, con il cane sotto il tavolo, che si è quasi subito addormentato steso sui piedi del soldato. In televisione c’erano i mondiali di calcio.

Nessun dubbio

Ero in Ucraina con una delegazione dell’organizzazione per la libertà di espressione Pen America, che voleva attirare l’attenzione sui tentativi della Russia di cancellare la storia e la cultura del paese. Vorrei parlarvi di questi sforzi per convincere il mondo che l’Ucraina non ha mai avuto una cultura distinta da quella russa, e di come gli ucraini stanno reagendo. Ma se me lo consentite, vorrei anche dirvi che l’Ucraina è un paese quasi completamente funzionante, che smentisce ogni aspettativa sulle condizioni di vita in tempo di guerra. Questo non significa che il conflitto che infuriava nella parte orientale del paese non si sentisse nella capitale. Si sentiva. Era nei pensieri di tutti in ogni momento. Gli attacchi aerei settimanali erano nei pensieri di tutti. Si parlava delle interruzioni di corrente, si consideravano le soluzioni.

La guida del museo nazionale di storia ucraina ci ha detto che quando l’elettricità salta, e non può prendere il treno per venire al lavoro, si fa sei chilometri a piedi attraverso la neve e il fango per arrivare al museo, che è vuoto. Nei giorni immediatamente successivi all’invasione russa hanno trasferito la maggior parte dei circa ottocentomila pezzi che esponeva. Abbiamo visitato il museo e siamo stati interrotti da un raid aereo, durante il quale più di settanta missili sono stati lanciati sull’Ucraina dalla Bielorussia. Ma di questo parleremo dopo.

Abbiamo incontrato un professore di filosofia che una volta al mese compra auto usate e le porta ai soldati che ne hanno bisogno per arrivare al fronte. Abbiamo conosciuto una giovane coppia che accudisce i cani abbandonati durante i combattimenti. Abbiamo incontrato il giardiniere di una scuola elementare che ci ha mostrato – come farebbe con chiunque – il seminterrato in cui lui, la sua famiglia e altri 365 abitanti della città sono stati tenuti in ostaggio dai soldati russi per 28 giorni, e in cui sono morte dodici persone. Abbiamo visto la fossa comune dietro la chiesa di Sant’Andrea a Buča, in cui gli ucraini hanno dovuto seppellire 116 civili uccisi nei primi giorni dell’invasione. Abbiamo visto il murale di Banksy su un edificio semidistrutto a Borodjanka. In una biblioteca a Černihiv abbiamo visto il buco lasciato da un missile russo, ma al primo piano abbiamo visto delle donne che stavano prendendo lezioni di ucraino. Fino ad allora avevano parlato solo russo.

Ovunque siamo andati abbiamo visto una rinascita dell’identità ucraina. Nel 2014 e prima di questa invasione, i russi avevano cercato di sminuire il carattere distintivo della cultura e dell’identità ucraine, sostenendo che il paese era sempre stato parte della Russia e lo sarebbe stato ancora una volta: il 40 per cento del paese parlava già russo come prima lingua. Hanno cercato di annacquare l’identità ucraina, di assorbirla nella Russia come avevano già fatto più volte. Ma l’invasione di Putin ha avuto l’effetto opposto: ogni ucraino che abbiamo incontrato traboccava di orgoglio nazionale, e odiava la Russia in modo furioso. I bibliotecari e gli studenti di letteratura non leggevano più Dostoevskij o Puškin, entrambi considerati propagandisti dell’imperialismo russo. In una serata nevosa siamo andati a uno spettacolo di musica classica, pieno di coppie e famiglie ben vestite, e anche alcuni soldati. I musicisti suonavano Mendelssohn, Mozart e Bach, ma Čajkovskij brillava per la sua assenza. Tutto ciò che era russo era stato bandito. I russi del passato e del presente erano orchi, animali, complici, e presto sarebbero stati sconfitti. Tutti si aspettavano la vittoria – non abbiamo mai sentito esprimere il minimo dubbio, mai, da parte di nessuno – ma ciò che sarebbe successo dopo era considerato la parte più difficile. Come avrebbero dovuto comportarsi dopo la guerra con i loro aggressori e con il popolo silenzioso che aveva permesso l’invasione?

L’Ucraina smentisce ogni aspettativa sulle condizioni di vita in tempo di guerra

“Non riesco proprio a immaginarlo”, ci ha detto la dottoranda Anna Ščerbjak. Lei e il suo ragazzo, Andrij Fedotov, ci hanno portato in un vivace ristorante chiamato Musafir, aperto da rifugiati crimeani fuggiti dai combattimenti nel 2014. “Allora c’erano progressisti russi contrari alla guerra”, ha detto Anna. “Ora non ci sono russi con cui puoi parlare. Perché queste persone non si sentono in colpa? Vorrei che lo ammettessero, che dicessero: ‘Sono colpevole’”.

Ananas e macerie

Non è così difficile entrare in Ucraina. Si arriva in aereo a Cracovia o a Varsavia, in Polonia, e si prosegue in auto. Oppure si prende un treno. Per attraversare il confine ci vuole un po’ di tempo – circa due ore – e poi si è dentro. Ci sono migliaia di veicoli e decine di treni che entrano ed escono dal paese ogni giorno. Da Cracovia a Leopoli sono quattro ore di strada. Per Kiev altre sette. Nell’hotel in cui alloggiavamo a Kiev, il Radisson Blu, c’era sempre elettricità ed era pieno di statunitensi ed europei. C’erano evangelici del Tennessee e dell’Alabama, c’erano sacerdoti cattolici inglesi e scozzesi, c’erano mercenari tedeschi, c’era una riunione del Consiglio danese per i rifugiati. Ogni mattina un miscuglio di tutti questi gruppi riempiva la sala da pranzo per la colazione a buffet, che era molto ricca. C’erano vassoi di salsicce e pancetta. C’erano frittelle e cialde e patate condite tagliate a spicchi. C’erano uova cucinate in ogni modo. C’erano cereali, croissant, danesi, pane di segale fresco e pane integrale. C’erano una dozzina di tipi di formaggi e yogurt. C’erano arance, banane, cachi, ananas, cetrioli e peperoni. Tutto questo in Ucraina nel mese di dicembre.

Questo non per sminuire le privazioni subite al fronte, ma solo per dimostrare la capacità di resistenza del paese. L’aggressione russa non impedisce agli ucraini di avere ananas a dicembre. Non gli impedisce di riempire i centri commerciali degli ultimi dispositivi elettronici. Un giorno a Buča, che è stata duramente colpita nei primi giorni della guerra, abbiamo visitato un centro commerciale che aveva ogni nuovo televisore, ogni telefono appena uscito, ed era illuminato e pieno di clienti. Accanto c’erano le rovine di un mercato all’aperto che i razzi russi avevano ridotto a un ammasso di metallo contorto. Quella e tante altre rovine ricordavano la seconda guerra mondiale: le macerie coperte di neve, gli scheletri di cemento di case, fabbriche e mercati anneriti dal fuoco. Ma spesso accanto c’erano nuovissimi centri commerciali con i prodotti del ventunesimo secolo. C’erano bar karaoke e scuole di pole dance. C’era Uber. A due passi dai quartieri rasi al suolo dalle bombe russe si stavano costruendo nuovi condomini. A nord di Kiev le gru erano ovunque. Se l’Ucraina non è la nazione più resistente al mondo, allora ditemi qual è. Gli ucraini stanno andando avanti con la loro vita.

I soldati prendono i treni diretti a est o guidano auto usate verso il fronte, e il resto della popolazione tira avanti. A scuola si deve fare lezione. I camion devono trasportare merci. Le auto parcheggiate nel posto sbagliato devono essere portate via.

Un pomeriggio abbiamo visto un carro attrezzi apparire davanti al nostro hotel e, in meno di tre minuti, rimuovere un’auto che era parcheggiata troppo vicino a un vicolo. Era il millesimo esempio di vita quotidiana che continuava come prima, e l’ho trovato così sorprendente che l’ho filmato. I due uomini sul carro attrezzi mi hanno visto, e sembravano rendersi conto di quanto fosse strano portare via una macchina nel bel mezzo di una guerra, così quando hanno finito, in meno di tre minuti – è stato davvero straordinario – mi hanno salutato con la mano e hanno alzato il pollice mentre ripartivano.

I due uomini del carro attrezzi sembravano avere una trentina d’anni, e vederli rimorchiare un’auto, invece di combattere i russi, era qualcosa a cui ci eravamo abituati. Le strade di Leopoli e Kiev sono piene di giovani uomini e donne in età da combattimento che non stanno combattendo. Ci sono ragazzi sani che fanno il caffè nei ristoranti. Ci sono giovani uomini e donne sani che studiano all’università e lavorano da McDonald’s. Ci sono giovani che fanno la guardia ai condomini di lusso e ai negozi di souvenir. Quando è cominciata la guerra, il governo ha proibito agli uomini tra i diciotto e i sessant’anni di lasciare il paese fino alla fine del conflitto, e tutti noi della delegazione abbiamo immaginato che nelle città non ci sarebbero stati molti uomini di questa fascia d’età. Invece erano ovunque.

All’inizio della nostra visita avevo cercato, nel modo più delicato possibile, di chiedere ad alcuni dei ragazzi che incontravamo come fossero riusciti a evitare il servizio militare. Le risposte variavano. Un ragazzo alto e atletico mi ha detto che non aveva superato la visita medica. Un altro credeva di essere in lista per l’arruolamento, ma non aveva ricevuto nessuna chiamata. Era difficile capire le regole su chi doveva essere arruolato e quando, ma per farla breve: in Ucraina c’è un esercito permanente di soldati professionisti, proprio come nella maggior parte dei paesi. Dopo il conflitto del 2014 una parte di loro è stata addestrata da consulenti statunitensi, in previsione di un’altra invasione. Poi ci sono quelli che si sono arruolati all’inizio della guerra e ormai sono soldati ben addestrati ed esperti. Infine ci sono i nuovi volontari.

Ma non c’è ancora una mobilitazione generale. Non c’è ancora il tipo di leva che manda tutti i giovani uomini al fronte. Quindi ci sono migliaia di ragazzi nel centro delle città e nelle periferie, che vanno avanti con i loro affari – lavorano, studiano, servono nei bar. Un giorno siamo andati allo zoo di Kiev – era aperto nel cuore dell’inverno – anche se gli animali vivono un’esistenza tristissima. Accanto allo zoo c’è l’università, e le lezioni erano in pieno svolgimento, con centinaia di studenti che ridevano scalpicciando sui marciapiedi ghiacciati. Il fatto che ci siano centinaia di migliaia di ragazzi e ragazze in grado di combattere, ma che non stiano combattendo in questa guerra di sopravvivenza, è una delle tante complessità che molte persone generalmente ben informate forse non conoscono.

Civili vanno verso un rifugio durante un bombardamento a Kiev, 17 dicembre 2022  (Adrienne Surprenant, Myop)

La guerra del boršč

Io non sapevo neanche dello chef stellato Ievgen Klopotenko, che ho citato prima. Una sera con il nostro gruppo siamo andati a cena al suo ristorante, il 100 rokiv tomu vpered. È una costruzione a tre piani dal design scandinavo, calda, pulita e strapiena di clienti eleganti anche di martedì sera a dicembre. Mentre ci sedevamo, uno dei nostri ospiti ucraini ci ha detto che lo chef era molto famoso e stimato. Aveva scritto libri, appariva spesso in tv, aveva dato da mangiare ai rifugiati di Leopoli all’inizio della guerra. Abbiamo mangiato zuppa di pesce e mousse di patate e halušky, una specie di gnocchi, tutto eccellente. Il menù era un misto di tradizione e ironia, compreso un piatto chiamato api fritte. A tarda sera abbiamo ordinato le api, che sono arrivate in un mucchietto nero di corpi e ali, con un pezzo di alveare che formava una sorta di tetto sopra gli insetti morti. Alcuni del gruppo hanno assaggiato le api, che non sapevano di niente, gli altri hanno continuato a bere l’ottimo vino di Odessa. E poi è apparso lo chef in persona.

Era giovane, 36 anni, con un groviglio di riccioli rossicci, rasati sui lati. Indossava un maglione giallo, pantaloni a mezza gamba e scarpe da tennis rosso acceso. Quando è uscito dalla cucina, gli avventori hanno alzato tutti lo sguardo, brevemente intimoriti. È venuto a tener banco al nostro tavolo, raccontandoci i molti modi in cui i russi hanno cercato di appropriarsi della cucina ucraina. Il boršč è un piatto ucraino, ha detto, e i russi lo hanno rivendicato come loro. Per anni ha cercato di convincere il mondo che il boršč è ucraino, ha perfino presentato una richiesta all’Unesco per farne riconoscere l’origine. Oltre a rivendicare molti piatti ucraini, i russi hanno portato avanti per secoli una guerra contro le spezie. In particolare l’origano. Lo ha pronunciato “oregàno” e ha parlato per dieci minuti, in un inglese corretto ma incerto, della guerra dei russi all’origano. È stato molto divertente, e molto inaspettato, sentir parlare di una guerra contro una spezia italiana nel cuore dell’inverno ucraino.

Accanto a me c’era il filosofo Volodymyr Yermolenko, che stava per andare al fronte alla guida di un’auto usata comprata per una soldata, una sua ex studente. L’anno prima aveva studiato letteratura all’università. Poi era entrata nell’esercito e aveva bisogno di un modo per raggiungere la zona dei combattimenti.

“Puoi venire se vuoi”, mi ha detto.

Non capivo perché le stesse portando un’auto. Non c’erano mezzi per il trasporto delle truppe?

“No, no”, mi ha spiegato. In questa guerra i soldati ucraini non sono portati al fronte con i camion o gli aerei militari. Nella maggior parte dei casi ci vanno in macchina. E spesso hanno bisogno di un veicolo. Quindi persone come Volodymyr, troppo vecchio per combattere, donano auto usate ai soldati per arrivare a Bachmut o nel Donbass. Una volta al fronte, di solito queste auto sono abbandonate.

Due giorni dopo, Volodymyr avrebbe portato a Cherson un’auto usata che aveva comprato per l’equivalente di circa mille dollari. Ci avrebbe messo dieci ore. Un suo amico lo avrebbe seguito per riportarlo indietro. Facevano quel viaggio una volta al mese. Avevano già donato otto auto.

Volevo andarci. Mi sono fatto dare il suo numero.

Abbiamo lasciato il ristorante di Klopotenko per andare incontro alla fredda notte nevosa di Kiev. Alcuni degli edifici erano bui. Altri erano illuminati. Nel centro della città era difficile capire chi aveva l’elettricità, quando e perché. Gli alberghi e i ristoranti principali sembravano non risentirne. Ma tutti i civili che abbiamo conosciuto dovevano affrontare lunghi blackout: quattro ore, otto ore. Spesso rispondevano alle email in ritardo, scusandosi e dicendo che erano senza corrente dal giorno prima. Non che qualcuno si lamentasse. Nessuno si lamentava. C’erano sempre persone, milioni, che se la passavano peggio. Ci siamo separati da tutti quelli che erano venuti a cena: studenti, scrittori, attivisti e filosofi.

In Ucraina non c’è il tipo di leva che manda tutti i giovani uomini al fronte

Il giorno dopo la maggior parte di loro sarebbe andata a Charkiv, a sei ore di strada, per partecipare al funerale di Volodymyr Vakulenko, uno scrittore di romanzi e libri per bambini unitosi alla resistenza, che era stato rapito in casa sua ed era scomparso per mesi. Alla fine, quando i russi si erano ritirati da Charkiv, il suo cadavere era stato ritrovato. Fino a quando non era stato identificato dalla famiglia, era il Corpo 319. Gli avevano sparato due colpi e lo avevano lasciato in strada.

Il museo vuoto

Il giorno dopo, lo scrittore Peter Godwin e io eravamo di nuovo in quel quartiere. A qualche isolato dal ristorante di Klopotenko c’è il museo nazionale di storia dell’Ucraina, un maestoso edificio grigio in stile romano circondato da sacchi di sabbia. Per riscaldarci – c’erano dieci gradi ma sembravano meno – siamo entrati. All’interno l’atrio era stato trasformato in un’esposizione di reperti dell’invasione russa: segnali stradali crivellati di colpi, il cuscino di un bambino bucato da un proiettile. Lungo la scalinata che partiva dal piano terra, pezzi di schegge e bombe russe erano stati appesi al soffitto, creando una cupa installazione di acciaio arrugginito.

Si è avvicinata una guida. Si chiamava Svitlana. Indossava jeans attillati e un gilet arancione di pelliccia sintetica. Le abbiamo chiesto se potevamo vedere il resto del museo. Ci ha detto che era vuoto, che la maggior parte dei suoi ottocentomila pezzi era stata nascosta poco dopo l’invasione. Abbiamo chiesto se potevamo visitare comunque il museo. Ha chiamato il direttore, e dopo qualche minuto di intenso dialogo ha ottenuto il permesso di farci fare un giro.

“Ma il cassiere non è ancora arrivato”, ha detto. Ci ha chiesto di aspettare, così ci siamo seduti su una panchina nell’atrio, accanto a una coppia di donne ucraine sulla settantina. Erano avvolte in pesanti cappotti e portavano stivali di gomma.

Pochi minuti dopo Svitlana è tornata. “Mi dispiace”, ha detto. “C’è un attacco aereo. Dobbiamo scendere di sotto”. Ormai a Kiev gli allarmi aerei sono comunicati più spesso via telefono che con le sirene. L’abbiamo seguita nel seminterrato.

Là sotto un gruppo di anziani professori si stringeva in una stanza con la moquette usata per le visite dei bambini. Ci siamo seduti con Svitlana nel corridoio adiacente, illuminato e coperto di piastrelle grigie. Il corridoio non era riscaldato, quindi abbiamo tenuto i cappotti. Abbiamo chiesto quanto duravano di solito i raid aerei. “A volte mezz’ora, a volte un’ora”, ha detto.

Il suo nome completo era Svitlana Slatennikova. Aveva circa trent’anni, capelli biondi, il viso a forma di cuore e un modo di fare serio. Aveva le unghie dipinte di rosso, come la custodia del suo telefono. Curva in avanti su una panchina, ha aperto un’applicazione che permetteva di tracciare i missili russi in volo.

Ha schioccato la lingua. “Oh, è brutta”, ha detto.

Ormai la tecnologia è così avanzata che i cittadini ucraini possono sapere, più o meno in tempo reale, da dove vengono i missili russi e più o meno dove stanno andando. In quel caso settanta missili erano appena stati lanciati dalla Bielorussia verso luoghi sparsi in tutta l’Ucraina. L’ipotesi era che fossero diretti alle sottostazioni elettriche per mettere fuori uso la rete. L’ultima strategia di Putin era togliere l’elettricità agli ucraini in pieno inverno, nella speranza di far crollare il loro morale. Finora questa strategia non ha funzionato. “Io e i miei amici scherziamo su questo”, ha detto Svitlana. “A casa faccio tutte le faccende durante le ore in cui c’è la corrente”. Lei e suo marito, un medico che gestisce una clinica privata, hanno appena comprato un invertitore, che immagazzina energia quando la rete funziona. “Sono disposta a stare senza elettricità, ma non a far parte del mondo russo”.

È nata nel 1986, “l’anno di Černobyl”, ha detto. Lavora al museo da tredici anni, ma il suo compito è diventato più importante dal 2014. Quando i russi hanno invaso il Donbass e annesso la Crimea, gli ucraini hanno voluto saperne di più sulla loro storia di popolo indipendente dalla Russia. Poiché incontra tanti ucraini e turisti stranieri che hanno le idee confuse sulle storie diverse di Ucraina e Russia, Svitlana ha scritto e tradotto in inglese un documento intitolato “Ucraini contro russi. Perché non siamo popoli ‘fratelli’?”, in cui racconta nel dettaglio la storia dell’Ucraina. “Non siamo uguali”, dice. “Etnicamente siamo del tutto diversi dai russi”.

Per anni Svitlana ha guidato le visite al museo, ma subito dopo l’invasione del febbraio 2022 l’edificio è stato chiuso. Prima della guerra al museo lavoravano circa trecento persone, ma il 20 per cento del personale se n’è andato quando è cominciato il conflitto e non è più tornato. Ora di solito ci sono tra i cinquanta e i settanta dipendenti, dice, che devono svolgere la loro missione educativa senza la maggior parte dei beni del museo. “Al momento”, dice Svitlana, “facciamo solo conferenze, conferenze, conferenze”.

Nel frattempo Putin ha fatto ogni sforzo per cancellare l’identità ucraina. Le sue truppe hanno saccheggiato musei, bombardato biblioteche e centri culturali, e hanno somministrato agli ucraini russofoni delle regioni occupate una dieta costante di propaganda, affermando che gli ucraini sono russi e lo sono sempre stati. Prima dell’invasione del 2022, anche la madre di Svitlana aveva creduto ai messaggi che venivano da Mosca.

“Quando i russi hanno invaso il paese a febbraio”, racconta Svitlana, “mia madre ha detto: ‘Tra un mese faremo parte della Russia’. E io le ho detto: ‘Sei pazza’”.

Questo riflette il divario generazionale in Ucraina. Chi è cresciuto nell’era sovietica spesso è più ottimista riguardo al possibile controllo di Mosca, mentre chi è cresciuto dopo l’indipendenza dell’Ucraina, nel 1991, pensa che l’Europa, e non la Russia, sia il suo passato e il suo futuro. La fiera resistenza delle truppe ucraine e le atrocità commesse dai soldati russi hanno sorpreso molti anziani.

“Quando ha visto quanto sono selvaggi i russi”, ha detto Svitlana, “mia madre ha cambiato idea. Commettono questi crimini nel ventunesimo secolo? Ora non vuole più far parte della Russia”. Sua madre, come milioni di ucraini, parla russo e ucraino. Ora però molte persone preferiscono parlare ucraino, anche se sono cresciute parlando russo. Qualche giorno prima la nostra delegazione ha visitato una biblioteca di Černihiv che era stata colpita da un missile. Il secondo piano era in gran parte distrutto, ma al primo piano un gruppo di donne anziane si era riunito per un tè con i biscotti e una lezione di lingua ucraina.

Il telefono di Svitlana ha suonato di nuovo.

Una donna uccisa nella sua casa a Buča, 6 aprile 2022 (Daniel Bereh​ulak, The New York Times/Contrasto)

“Oh no, accidenti”, ha detto. Ora la sua app dava più dettagli. I missili erano diretti verso obiettivi in tutto il paese: a ovest verso Leopoli, Ternopil e Chmelnytskyj,a sud verso Kryvyj Rih e a nord verso Kiev.

Peter e io stavamo ricevendo messaggi da amici in Ucraina, che ci dicevano di andare in un posto sicuro. Nelle ultime settimane era pericoloso soprattutto trovarsi vicino a una sottostazione elettrica. Si poteva essere colpiti da un missile o, più probabilmente, dai frammenti di un missile abbattuto dalle difese aeree ucraine.

Ma i dipendenti del museo, mentre parlavamo con Svitlana nel seminterrato, andavano su e giù per le scale, apparentemente poco preoccupati dei missili in volo. Una donna delle pulizie era impegnata a lavare i bagni e non si era fermata un momento dall’inizio del raid.

Abbiamo sentito un rumore di passi sulle scale. È sceso un gruppo di persone, due adulti e un adolescente che indossava una felpa con il volto di Johnny Depp. Erano lì fuori ed erano entrati nel museo per rifugiarsi. Sono entrati nella stanza con la moquette e si sono seduti accanto a una lavagna con una cronologia della storia ucraina scritta a mano.

Su internet avevamo visto immagini di famiglie ammassate nella metropolitana di Kiev. Costruite in epoca sovietica in previsione di una guerra nucleare, le stazioni sono tra le più profonde al mondo, alcune arrivano a cento metri sotto il livello stradale. Ho chiesto a Svitlana se aveva bisogno di mettersi in contatto con suo marito e i suoi figli. No, ha detto. Aveva già ricevuto sul telefono la notizia che erano al sicuro. La scuola dei suoi figli aveva un seminterrato che usavano durante i bombardamenti. “Hanno cominciato a fare esercitazioni prima che iniziasse l’invasione”, ha detto. “Io non ero d’accordo. Pensavo che i bambini si sarebbero spaventati”. Come molti ucraini, Svitlana non pensava che l’invasione ci sarebbe stata davvero, anche quando centomila soldati russi si sono ammassati al confine.

Suo figlio ha dodici anni e sua figlia cinque, e ormai si sono abituati alle esercitazioni. All’inizio dell’invasione Svitlana li aveva portati a ovest per un paio di mesi, ma ora che i combattimenti si sono spostati sul fronte orientale preferisce restare a Kiev. A ogni vittoria ucraina, un numero crescente di abitanti è tornato in città dagli altri paesi europei e dall’ovest dell’Ucraina. “Non riesco a immaginare di vivere in Polonia. Di vivere in qualche palestra”, ha detto. Suo marito, come tutti gli uomini tra i diciotto e i sessant’anni, non potrebbe comunque lasciare il paese.

Svitlana ha controllato di nuovo il suo telefono. “Esplosioni segnalate a Vinnytsja”, ha detto. Era a sudovest di Kiev. Ha messo giù il telefono. Ha riso della strategia russa. Su Telegram aveva visto i talk show politici russi, quei programmi surreali in cui gli esperti parlano della guerra.

“Dicevano che devono continuare a colpire la rete elettrica, perché vogliono che gli ucraini si ribellino e rovescino il governo. Per sbarazzarsi di Zelenskyj. Vogliono un’altra Maidan”, ha detto, riferendosi al movimento ucraino del 2013-2014 che chiedeva rapporti più stretti con l’Unione europea. “È una follia. Non ci capiscono”.

L’adolescente con la felpa di Johnny Depp e i suoi genitori sono usciti dall’aula sistemandosi i cappotti. Hanno salito le scale e lasciato l’edificio. Il bombardamento era ancora in corso, ma di questi tempi gli ucraini non sono disposti a stare fermi a lungo.

Il seminterrato della scuola di Jahidne, 19 ottobre 2022. A sinistra della porta, i nomi delle persone uccise dai russi; a destra, quelli di altri morti, in molti casi per malattia (Brendan ​Hoffman, The New York Times/Contrasto)

Peter e io abbiamo ringraziato Svitlana e ce ne siamo andati verso le due, un’ora dopo l’inizio del raid. La giornata era limpida e fredda, e dopo un po’ i marciapiedi si sono riempiti. I negozi e i caffè erano aperti e non c’era praticamente alcun segno che Kiev fosse sotto attacco, mentre in realtà lo era.

Alla fine abbiamo scoperto che sessanta su più di settanta missili lanciati erano stati abbattuti dalle difese ucraine. La decina di missili che aveva raggiunto gli obiettivi aveva provocato blackout a Žytomyr, Sumy, Zaporižžja, Dnipro, Čerkasy e Charkiv. Era il sesto attacco su larga scala contro le infrastrutture dal 10 ottobre, e non sarebbe stato l’ultimo. Quattro civili erano morti, portando il totale delle vittime a oltre 6.500, tra cui più di quattrocento bambini.

Quando è arrivata la sera, siamo entrati nella stazione della metro più vicina e abbiamo preso la scala mobile. Ci muovevamo a velocità allarmante attraverso un tunnel di cemento, scendendo nelle viscere della terra mentre segni trionfali ci salutavano a destra e a sinistra: disegni di soldati ucraini fatti da bambini. Quando finalmente siamo arrivati alla banchina, ci aspettavamo che fosse deserta, o piena di famiglie che si riparavano dall’attacco, invece abbiamo visto decine di pendolari che tornavano a casa dal lavoro.

Poi, quando è arrivato il primo treno, un migliaio di ucraini è sceso come acqua che sgorga da una diga rotta. Scorrevano intorno a noi così velocemente che abbiamo dovuto appoggiare le spalle sulle ampie colonne di cemento della stazione. La gente di Kiev non era assolutamente intimorita.

Quando siamo tornati al livello della strada abbiamo trovato le luci della città accese. Dagli altoparlanti di un caffè vicino alla stazione usciva a tutto volume Santa Claus is coming to town. Sulla vetrina di un negozio c’era scritto a caratteri cubitali: “Il coraggio è il marchio degli ucraini”. Abbiamo controllato l’ora, avevamo venti minuti per attraversare la città. I nostri nuovi amici ucraini Anna e Andrij ci avevano invitato a cena in un famoso ristorante tataro. Quando è cominciato il raid aereo ci eravamo chiesti se la cena sarebbe stata annullata. Invece no. Quando siamo arrivati, il posto era pieno. Ci siamo seduti accanto ad Anna e Andrij negli ultimi posti liberi.

Non è abbastanza

Peter e io avevamo incontrato Anna Ščerbjak qualche giorno prima. Aveva promesso di mostrarci quel ristorante, Musafir, aperto da tatari fuggiti dalla Crimea. Ha 27 anni, i capelli scuri e gli occhi chiari. Con lei c’era il fidanzato, Andrij Fedotov, 32 anni, con i capelli neri ricci. Mentre la cameriera, in abito tradizionale tataro, ci dava i menù e versava acqua e vino, abbiamo parlato del raid aereo e di quanto fosse strano mangiare al ristorante poche ore dopo.

“In effetti è surreale”, ha detto Anna. “Lo dicevamo stamattina. Ci siamo svegliati senza elettricità e abbiamo detto: ‘Pazienza’. Non puoi lasciarti condizionare, altrimenti è la fine. Il modo in cui viviamo in questo momento, continuando a fare quello che stiamo facendo, è già un atto di sfida”.

Anna è andata al liceo negli Stati Uniti e ora sta facendo un dottorato in amministrazione aziendale all’università di Vienna, in Austria. Andrij ha appena finito un master in imprenditoria sociale in Bulgaria, seguendo tutte le lezioni in francese. Parla francese e tedesco, oltre che inglese, ucraino e russo. Anna parla ucraino, russo, mandarino, inglese e spagnolo. Sa spiegare in modo molto dettagliato le differenze tonali tra mandarino e cantonese – ha vissuto a Hong Kong per un periodo – e sa parlare con grande umorismo di come ha imparato lo spagnolo perché si era innamorata di un colombiano. Il suo inglese è quasi perfetto, con un accattivante accento del Midwest.

I negozi e i caffè erano aperti e non c’era alcun segno che Kiev fosse sotto attacco

Hanno vissuto in tutto il mondo e ora potrebbero vivere ovunque. Ma rimarranno a Kiev fino alla fine della guerra. Anna e Andrij sono l’esempio di una parte specifica della popolazione ucraina: ragazzi istruiti che hanno girato il mondo e che, come Svitlana, non hanno mai vissuto sotto il dominio russo e non lo accetteranno mai. Allo stesso tempo, i loro rapporti familiari con la Russia sono complicati. Estremamente complicati.

Gli antenati di Anna sono di etnia ucraina da molte generazioni, ma gli uomini della sua famiglia hanno vissuto spesso in Russia per lavoro. Quindi anche se le loro radici sono in Ucraina, si sono mossi avanti e indietro tra i due paesi per generazioni. La nonna di Anna, per esempio, è nata in Russia, ma si è trasferita in Ucraina dopo l’indipendenza nel 1991. A casa parla ancora russo, anche se i suoi figli e nipoti parlano ucraino. “Si considera di etnia russa”, ha detto Anna. “Il che, a giudicare dalla storia della nostra famiglia, non è vero. Ma non si trasferirebbe mai in Russia. Considera l’Ucraina la sua casa. So che è difficile da capire”. Sua nonna ora vive da sola in Ucraina, ed è esposta alla propaganda russa su internet. “Guarda YouTube”, ha detto Anna. Gli algoritmi la conducono in cunicoli di narrazioni filorusse. “Si chiede: ‘Perché l’Ucraina resiste? Perché provocare tutto questo casino? Zelenskyj non potrebbe negoziare qualcosa?’”.

Suo figlio, il padre di Anna, è nato in Ucraina e si considera ucraino, come Anna. Lui e Anna sono intransigenti riguardo ai russi che non hanno fatto nulla per fermare l’invasione, e attraverso il loro silenzio l’hanno implicitamente sostenuta. Anna ha un amico russo che studia al Massachusetts institute of technology, che ha protestato contro la guerra dagli Stati Uniti e pensa di non poter fare nient’altro.

“Non è abbastanza”, ha detto Anna scuotendo la testa. “Io rischio la vita stando qua. Non è abbastanza. Non dite che è Putin, che è il sistema. Ammettete che è la storia, che avete goduto dei vantaggi dell’imperialismo”.

Come Svitlana, Anna e Andrij appartengono a una generazione cresciuta durante la rinascita dell’identità ucraina. Nel 1997 Andrij era nella prima classe di studenti delle elementari che ha seguito le lezioni in ucraino e non in russo. I suoi genitori, cresciuti a Odessa sotto il regime sovietico, si sono sentiti liberati quando il muro di Berlino è caduto, e hanno cominciato a viaggiare. Hanno vissuto per un po’ in India, dove suo padre aveva degli affari e dove entrambi sono diventati buddisti. Andrij è cresciuto a Odessa dove si parlava ucraino a casa, russo per strada ed entrambe le lingue a scuola. Ma il buddismo non fa per lui.

“Il buddismo insegna a estraniarsi da ogni situazione”, ha detto, “a me piace essere dentro i problemi”. Ha preso il master in imprenditoria sociale con l’idea di costruire la società civile del suo paese. I suoi compagni di studio venivano da Canada, Benin, Senegal, Costa d’Avorio e Haiti. “Abbiamo imparato tanto l’uno dall’altro quanto dai corsi”, ha detto.

Ora Andrij lavora per la Giz, un’agenzia tedesca che sta cercando di far passare le piccole città di tutta l’Ucraina da un modello verticista di governo sovietico a uno più orizzontale, creando così una società civile capace di resistere alla colonizzazione. Quando nel 2022 è cominciata l’invasione, hanno dovuto fermarsi. I sindaci e gli altri amministratori locali che hanno aiutato nel corso degli anni sono stati subito presi di mira dai russi. Alcuni sono stati arrestati, altri uccisi. La maggior parte è fuggita a ovest.

Sono arrivati i nostri antipasti. La cucina della Crimea tatara ha riflessi mediterranei e balcanici: kebab, olive, melanzane, yogurt, hummus. Ho ordinato il piatto Gengis Khan, una montagna di agnello, manzo e pollo, decisamente troppo per una persona. Ho chiesto se volevano portare qualcosa a casa, ma Anna e Andrij sono vegetariani. O meglio, Anna lo è. Andrij ci sta provando.

Ho chiesto se avevano un cane. Non al momento, hanno risposto. Ma da quando è cominciata la guerra si sono presi cura di alcuni cani riportati dal fronte.

“C’è una battuta in proposito”, ha detto Anna, “non hai fatto il giornalista in Ucraina se non ti hanno chiesto di portare via un cane dalle zone di guerra”. I soldati trovano i cani per le strade o in case abbandonate – a volte ancora in gabbia – e cercano di affidarli ai giornalisti che tornano a Kiev.

Il ristorante ha cominciato a svuotarsi. Erano quasi le nove, e a Kiev alle undici scatta il coprifuoco. Il personale avrebbe dovuto pulire, chiudere e tornare a casa prima che la metro si fermasse. Quando abbiamo finito di cenare, abbiamo discusso di quello che succederà alla fine della guerra: ci potranno mai essere rapporti civili tra i due paesi? Anna ha scosso la testa. “Non riesco proprio a immaginarlo. Prima, quando andavo all’estero e sentivo parlare russo, pensavo: ‘Bene, abbiamo una lingua in comune. Non so da dove vieni – forse dal Kazakistan, forse dall’Ucraina – ma è già un punto di contatto’. Ora non lo è più. Ora quando mi chiedono se parlo russo, dico di no”.

Sotto la scuola

Le atrocità sono troppo recenti.

C’è una cittadina a due ore da Kiev che si chiama Jahidne. Prima dell’invasione ci vivevano circa quattrocento persone. È accanto alla strada principale che collega Kiev alle città del nord e alla Bielorussia. A causa di questa posizione strategica è diventata un obiettivo dei russi.

Il 3 marzo 2022 i soldati russi hanno circondato la città da tutti i lati. Hanno buttato giù le porte e portato gli abitanti nella scuola, dove sono stati tenuti in ostaggio. Trecentosessantacinque uomini, donne e bambini sono stati ammassati nel seminterrato dell’edificio e costretti a rimanere lì, senza riscaldamento né elettricità, per i successivi 28 giorni.

Devo dire che questa storia è già stata raccontata. I giornalisti sono stati in questa città. Durante il viaggio per Jahidne, qualcuno mi ha detto che la notizia era stata già “ripresa”. In una certa misura è vero. L’Associated Press e la Reuters hanno pubblicato articoli su quello che è successo lì. Ma le vittime di certi crimini di guerra non si accontentano di una manciata di resoconti. Sono disposte a mostrare ai visitatori cos’è successo, nella speranza che la storia diventi nota e che questo possa garantire che i colpevoli siano puniti. Quindi, anche se avete già sentito questa storia, vorrei raccontarla di nuovo.

In una gelida mattina, un uomo di nome Ivan Polguy ci aspettava davanti alla scuola elementare. Prima della guerra faceva il giardiniere lì. Era un uomo robusto di 62 anni, con le guance rosa, gli occhi azzurri e dei baffi da tricheco. Indossava un paio di jeans, stivali da lavoro e una giacca di pelle foderata di pecora. Faceva freddo e il suo fiato usciva in sbuffi grigiastri. Portava un cappello di lana nera calato sulla fronte, ma non aveva guanti.

L’invasione russa è cominciata il 24 febbraio, ma a Jahidne non si aspettavano di essere coinvolti nel conflitto. Pensavano che l’esercito russo avrebbe proseguito in direzione di Kiev. Invece la mattina del 3 marzo la città è stata scossa dal fuoco dell’artiglieria e dei carri armati.

Leopoli, 26 giugno 2022 (E​mile Ducke, The New York Times/Contrasto)

“Il cielo e la terra erano in fiamme”, ci ha detto Ivan. “Poi i soldati sono usciti dai boschi”. E ha indicato con la mano nuda i boschi a nord della città, grandi pini che quel giorno erano spolverati di neve.

Il telefono del giardiniere ha squillato. Aveva un suono dolce e tintinnante. Si è voltato per rispondere. Un gatto nero con le zampe bianche è passato correndo, per poi infilarsi sotto un’altalena arrugginita. L’uomo si è voltato verso di noi e ha proseguito.

Gli abitanti della città avevano tentato di fuggire, ha detto, ma i soldati russi avevano bloccato tutte le uscite. Quelli che avevano cercato di raggiungere la strada sono stati uccisi a colpi d’arma da fuoco. Poi i soldati sono andati di casa in casa, e hanno messo fuori uso auto e dispositivi di comunicazione.

“Hanno estratto le batterie e tagliato le gomme”, ha detto Ivan. “E hanno confiscato telefoni e computer”.

La maggior parte degli ucraini che vivevano a Jahidne è stata portata nel seminterrato della scuola elementare. I russi avevano dipinto la parola “bambini” sul muro per scoraggiare eventuali attacchi alle loro posizioni da parte dell’esercito ucraino. Hanno usato gli abitanti come scudi umani.

Nei giorni successivi i soldati hanno installato postazioni di artiglieria e stazioni di comunicazione, e hanno requisito la maggior parte delle case. Dormivano lì e portavano via ogni cosa di valore. Jahidne è stata usata come base per organizzare l’attacco a Černihiv, una città molto più grande e una tappa verso Kiev.

Gli ho chiesto quanti russi c’erano in città. “Non riesco nemmeno a immaginarne il numero”, ha detto.

Ci ha portato sul retro della scuola. Nel cortile c’era una grande trincea quadrata. I russi l’avevano scavata e si erano appostati lì per impedire a chiunque di lasciare l’edificio. Ora era piena di spazzatura e coperta di neve.

Avevano sentito la terra tremare sopra di loro. Poi era tornato tutto tranquillo

“Hanno messo anche cecchini sul tetto”, ha detto Ivan, indicando la sommità dell’edificio, una lunga struttura a tre piani di mattoni bianchi. Quasi tutte le finestre erano sbarrate con assi di legno. Poi ci ha condotto nel seminterrato.

La scala era buia e ingombra di pneumatici e vecchi vestiti che uscivano da scatole di cartone deformate. Siamo scesi in un corridoio stretto che collegava i quattro locali del seminterrato. Tre, solitamente usati come deposito, non erano altro che grotte di cemento. “L’intero seminterrato misura 195 metri quadrati”, ha detto Ivan. “Questo significa mezzo metro a persona”. C’era anche una cinquantina di bambini tra gli ostaggi.

Non c’era elettricità, né allora né adesso. Le nostre torce illuminavano le stanze umide. C’erano appendiabiti attaccati ai tubi dell’acqua sotto al soffitto. Durante l’occupazione erano stati appesi dei teli per separare le stanze e il corridoio. Quelli che stavano nelle stanze più piccole erano considerati fortunati. Avevano un po’ più di spazio e correvano meno il rischio di ammalarsi.

L’ultima stanza, grande come un’aula, era più rifinita, con il pavimento in linoleum e le pareti intonacate. La maggior parte degli ostaggi era stata rinchiusa lì: 136 adulti e 39 bambini. Ivan era con sua moglie e due figli. Ci ha mostrato quattro piccole sedie di metallo, una di fronte all’altra. Nessuno poteva muoversi. La maggior parte degli adulti non riusciva a sdraiarsi, non c’era abbastanza spazio. “Dormivamo in piedi”, ha detto.

Abbiamo puntato le nostre torce in giro per la stanza, illuminando oggetti spettrali immersi in una luce grigia. Sedie e tavoli minuscoli erano sparsi qua e là. C’erano alcuni letti per bambini dipinti di viola e verde. Il pavimento era coperto di libri da colorare, cartacce, brandelli di vestiti e detriti.

Prima che i russi li rinchiudessero nel seminterrato, gli ostaggi avevano preso quello che potevano da casa e dalla mensa della scuola. Avrebbero dovuto razionare e condividere quel cibo per tutto il mese successivo.

“A volte i russi davano ai bambini caramelle o biscotti e poi scattavano una foto”, ha detto Ivan: propaganda per lasciar intendere che gli ostaggi erano trattati bene.

I soldati più giovani alloggiavano al primo piano della scuola ed erano spesso ubriachi. “Scendevano e dicevano ai bambini che potevano giocare con le loro pistole. Gli davano delle granate e dicevano che potevano tenerle, purché non tirassero la spoletta”.

Il seminterrato era privo di aerazione e agli ostaggi non era permesso uscire per fare i loro bisogni. Ivan ha indicato un piccolo spazio delle dimensioni di un armadio fuori dalla stanza principale. “Abbiamo messo il secchio lì”, ha detto. Una volta ogni pochi giorni, un ostaggio era autorizzato a portarlo su per le scale e scaricarlo nella foresta.

Ma i russi non comunicavano bene tra loro, e gli ostaggi che svuotavano il secchio erano spesso presi di mira da altri soldati che li scambiavano per nemici. Poi rientravano rapidamente nel seminterrato, in cui l’odore di così tanti esseri umani ed escrementi era insopportabile. Le malattie erano frequenti. “Tutti erano malati”, ha detto. Gli ostaggi più anziani avevano cominciato a morire. “Avrebbero potuto vivere ancora per molti anni”, ha detto Ivan. “Ma quaggiù sono impazziti per primi.”

Quando qualcuno moriva, coprivano il corpo come meglio potevano, cercando di tenere i cadaveri lontani dai bambini. Ogni tanto gli ostaggi ricevevano il permesso di portare i corpi nella foresta per seppellirli. Gli uomini li trascinavano su per le scale e li mettevano in una carriola. Ne impilavano due o tre e li portavano tra gli alberi, dove scavavano tombe poco profonde nel terreno ghiacciato.

Anche in quei casi, i soldati russi sparavano contro di loro se non erano stati avvertiti che la sepoltura era autorizzata. Ivan ci ha mostrato un calendario scritto a mano sul muro di gesso. Ogni volta che qualcuno moriva, il suo nome era scritto accanto al giorno. Nel seminterrato erano morte dodici persone. Accanto al calendario, i bambini avevano disegnato fiori, cuori, un marziano.

“I soldati continuavano a dire che presto ci avrebbero spostato”, ha detto Ivan. “Sempre il giorno dopo, poi il giorno dopo ancora”.

Per ironia della sorte, era stato proprio il fallimento dell’attacco a Kiev a ritardare il rilascio degli ostaggi. Più tempo ci mettevano i russi ad avanzare verso sud, più a lungo la città era usata come base. “I soldati ci mostravano materiale di propaganda secondo il quale stavano vincendo”, ha detto. “Dicevano che Zelenskyj si era arreso, che avevano preso Kiev”.

Alla fine gli ostaggi avevano sentito la terra tremare sopra di loro. Poi era tornato tutto tranquillo. Si erano avventurati fuori dal seminterrato e avevano scoperto che i russi se n’erano andati.

Abbiamo seguito Ivan su per le scale e nel cortile ghiacciato. I suoi occhi erano rossi e umidi. Abbiamo parlato di responsabilità. Era ottimista sul fatto che i colpevoli, almeno alcuni di loro, sarebbero stati identificati e trovati.

Per la prima volta ha menzionato il fatto che i soldati che erano andati a Jahidne, avevano ucciso i civili, occupato le loro case e tenuto in ostaggio 365 persone erano tuvani.

Un murale attribuito a Banksy a Borodjanka, 14 novembre 2022 (Brendan ​Hoffman, The New York Times/Contrasto)

Come faceva a saperlo, gli abbiamo chiesto.

“Parlavano tuvano!”, ha detto, e tutti siamo scoppiati a ridere. Avevamo bisogno di quella risata liberatoria.

Poi, mentre eravamo lì fuori al freddo, l’orrore ci è apparso chiaro. Tuva è una regione della Russia al confine con la Mongolia, abitata da una minoranza etnica di circa duecentomila persone. La loro storia è strettamente legata alla Mongolia, ma per mille anni Tuva è stata sottomessa da una serie di potenze straniere: i khanati turchi, la Cina e infine la Russia. Il primo grande investimento che l’Unione Sovietica ha fatto a Tuva, negli anni sessanta e settanta, è stato aprire una serie di fabbriche di amianto.

Negli anni novanta Tuva ha cercato di staccarsi dalla Russia, e da allora ha mantenuto un rapporto teso con Mosca, complicato dal fatto che Sergei Šojgu, il ministro della difesa russo, è tuvano. In effetti per la gente di Tuva, dove il reddito annuo medio è di circa settemila euro, il più basso di tutta la Russia, entrare nell’esercito è considerato uno dei modi migliori per uscire dalla povertà. I tuvani sono considerati combattenti valorosi e sono spesso impiegati nelle missioni più rischiose, che non sarebbero mai affidate ai russi di Mosca o San Pietroburgo.

Perciò sono stati mandati a Jahidne.

Erano in gran parte giovani. Senza dubbio gli hanno detto che la conquista dell’Ucraina sarebbe stata una questione di giorni. Così hanno rinchiuso la popolazione di Jahidne nel seminterrato della scuola e saccheggiato la città. Quando l’invasione si è arenata a Černihiv, i soldati tuvani di stanza a Jahidne si sono trovati in difficoltà. Avevano bisogno dei civili come scudi umani, e com’era logico li hanno concentrati in un unico posto: la scuola. Ma non erano attrezzati per sfamare e prendersi cura di 365 ostaggi, soprattutto per un periodo molto più lungo del previsto.

Tutte le morti di Jahidne sono colpa di un solo uomo, Vladimir Putin. Ha mandato i soldati tuvani in Ucraina. Ha messo la popolazione di una colonia russa, Tuva, contro quella di un’ex colonia, l’Ucraina. Nella nebbia della guerra, persone innocenti sono state uccise da giovani ignoranti o sono morte a causa della loro incuria. E prima o poi questi giovani saranno processati per le crudeltà e gli errori commessi in una guerra non decisa da loro. Hanno partecipato all’invasione probabilmente pensando che il successo della loro unità in Ucraina potesse significare medaglie, promozioni e un lavoro sicuro. Sarebbero tornati a Tuva come eroi.

Ma non hanno ottenuto nulla.

Gli insegnanti trovano buoni impieghi in Europa, e non hanno bisogno di tornare

Alla fine di marzo, loro e tutti gli altri invasori russi sono stati espulsi dalle regioni intorno a Kiev, ed è toccato alla gente del posto ripulire e contare i morti.

Sulla lista nera

Mychajlyna Skoryk-Škarivska, la vicesindaca di Buča, ha fatto i conti.

“Per poter parlare di crimini di guerra”, ha detto, “è necessario almeno conoscere i nomi, le date e le cause della morte. Solo allora si può indagare”.

Mychajlyna è una donna energica e alla mano sulla quarantina, che ha accettato di accompagnarci a visitare i luoghi delle atrocità commesse a Buča, una città a circa trenta chilometri a nordovest di Kiev, che prima della guerra aveva 53mila abitanti. Ha i capelli corti giallo paglierino, e in quella fredda giornata di dicembre indossava un parka nero di Calvin Klein, jeans azzurri e scarpe da tennis bianche. Qualche volta ha viaggiato in furgone con noi. Altre volte ci ha seguito con la sua piccola auto coperta di ghiaccio.

Nel tentativo di occupare Kiev, ha detto, sono stati uccisi 1.300 civili, 460 dei quali a Buča. Quando l’avanzata russa si è arenata, la piccola città ha dovuto sopportare un peso sproporzionato.

“Hanno lasciato i morti per le strade”, ha detto. “Avevamo sentito parlare di questo genere di cose in Cecenia, ma siamo rimasti sorpresi di vederle qui”. È importante capire come gli ucraini, specialmente i più anziani, prevedevano che sarebbe andata l’invasione. Non si aspettavano atrocità. Non si aspettavano l’uccisione di civili. Mykhajlyna ce lo ha spiegato spassionatamente. Ci ha spiegato tutto in modo diretto, preciso e senza traccia d’emozione.

“Sapete, i rapporti tra il popolo ucraino e quello russo erano ancora forti”, ha detto, parlando degli innumerevoli ucraini che hanno familiari in Russia, hanno lavorato o vissuto lì . “Ma dopo la tragedia di Buča, tutto è cambiato. Non siamo più fratelli e sorelle”. Quattrocentodiciannove delle vittime civili sono state fucilate, torturate o picchiate a morte. Trentanove sono morte per cause naturali, ma anche questa definizione è incerta. Una donna di 34 anni, madre di tre figli, è morta per un attacco di cuore mentre si nascondeva sottoterra durante un bombardamento. Un’anziana è morta per arresto cardiaco quando ha visto i soldati uccidere la sorella.

Mychajlyna ha studiato tecnologia dell’informazione, non medicina legale. Ma il compito d’identificare i morti è toccato a lei.

“Abbiamo grosse difficoltà a identificare le vittime che sono state bruciate”, ha detto. “Scriviamo ‘persona sconosciuta’. Non capiamo neanche se si tratta di un uomo o di una donna. Sappiamo dalle testimonianze che una certa famiglia è stata uccisa, ma abbiamo bisogno di strumenti per dimostrarlo. Una cosa è saperlo dai testimoni, un’altra è dimostrarlo davanti a una corte internazionale e a dio”.

Mychajlyna è di Dnipro, nell’Ucraina orientale, ma quando si è sposata si è trasferita a Buča con suo marito, Serhij Škarivskyj. Nel 2014 lui era stato richiamato nell’esercito quando la Russia aveva invaso il Donbass. Era stato ucciso il 19 agosto 2014 da un cecchino. Ora lei sta crescendo suo figlio di sette anni, Hlib, da sola.

Si è candidata un paio di volte prima di essere eletta al consiglio comunale di Buča nel 2022. Quando è cominciata l’invasione, lei e la maggior parte dei funzionari eletti sono fuggiti a Kiev o più a ovest. Il 3 marzo ha portato il figlio in Transcarpazia, poi in Germania.

Molti dei politici locali che sono rimasti sono stati uccisi.

“Il sindaco di Hostomel è stato ucciso”, ha detto, “e anche i suoi due vice”.

Il sindaco di Buča, Anatolij Fedoruk, è stato più fortunato.

“Quando si sono presentati a casa sua ha detto che lui non era il sindaco, ma solo uno che si occupava della casa”, dice Mychajlyna. “Lo hanno lasciato andare. Ma avevano delle liste di persone che stavano cercando, e il suo nome era sulla lista. Molte persone attive nella regione erano state inserite dai russi in una lista nera. Andavano di casa in casa e le cercavano. Facevano spogliare gli uomini e controllavano se avevano il tatuaggio di una pistola”.

Il tatuaggio di una pistola poteva indicare che l’uomo era un militare, o che lo era stato, e quindi costituiva una minaccia per le forze d’occupazione.

“Potevano uccidere una persona solo a causa del tatuaggio. Erano molto ben addestrati a controllare i territori occupati”.

Soldati ucraini di ritorno dal fronte a Severodonetsk, 22 giugno 2022 (Emanuele Satolli, Contrasto)

Mychajlyna sapeva di essere sulla lista nera, perciò è fuggita. È tornata in aprile, dopo che Buča è stata liberata dall’esercito ucraino. Da allora ogni mese rientrano più persone e riaprono più attività. Durante l’invasione è stato creato un corridoio umanitario attraverso il quale i civili potevano fuggire. A Buča vivevano 75mila persone. Durante i combattimenti se n’erano andati tutti tranne 3.700. La maggior parte di loro erano anziani, e la maggior parte di quelli che sono tornati sono senza figli. Nella scuola di suo figlio il 40 per cento delle lezioni si svolge ancora su internet, e gli studenti partecipano da tutti i paesi europei in cui si sono rifugiati.

“È più facile crescere i bambini in Europa”, ha detto Mychajlyna. “Dobbiamo ripopolare questa zona, ma è difficile sotto i bombardamenti”.

È difficile anche far arrivare gli insegnanti e convincerli a restare.

“Alcuni professori di tecnologia dell’informazione, di lingue straniere e di storia non sono tornati”, ha detto. “Ma il problema più grande sono gli insegnanti di musica. Trovano buoni posti di lavoro in Germania, in Polonia, in Francia. Sono pagati di più, stanno tenendo concerti in Europa, quindi non hanno bisogno di tornare”.

Il rovescio della medaglia è che mentre una parte della cultura locale è scomparsa, sono arrivati esponenti della cultura internazionale.

“Prima dovevamo pagare un sacco di soldi per far venire le star qui a Buča”, ha detto. “Ora arrivano da sole, danno concerti gratuiti. Abbiamo meno artisti locali, e questo è un male, ma abbiamo anche l’attenzione di artisti importanti provenienti da tutto il mondo”.

Bono era stato lì a maggio.

“Ha suonato l’armonica nella nostra chiesa”, ha detto Mychajlyna.

Ci ha portato in un edificio blu con le finiture bianche su una strada trafficata. Somigliava a una chiesa di campagna, con colonne bianche e ampie finestre. La facciata era intatta, ma il resto era distrutto. Su una delle pareti rimaste in piedi erano dipinti dei girasoli sullo sfondo di un cielo punteggiato di nuvole bianche.

Come tra Irlanda e Regno Unito, i crimini non saranno mai dimenticati

“Era una casa della cultura sovietica”, ha detto Mychajlyna. “Era molto comune in Unione Sovietica averne una nelle zone industriali della città. Era molto bella, c’era una splendida sala concerti, molto frequentata”.

Ha provato ad aprire le porte della sala. C’erano alcune decine di fori di proiettile sul vetro, e sulle colonne di gesso bianco a sinistra e a destra c’erano le tracce dei colpi di mortaio. Le porte non si sono aperte.

“Sono chiuse a chiave”, ha detto, perplessa. Un altro funzionario locale che era con noi ha controllato sul telefono. La sala era stata chiusa il giorno prima: non era più sicuro camminare al suo interno. All’esterno era stato eretto uno striscione con la scritta “irpinhelp.com” e un codice Qr.

“È stata un campo di battaglia”, ha detto.

C’erano stati combattimenti lungo tutta quella strada. La fermata dell’autobus di fronte alla sala concerti era stata colpita da un centinaio di proiettili. Era successo dieci mesi prima. I lavori di restauro erano lenti e non erano tra le priorità delle amministrazioni locali, che dovevano pensare a mantenere le luci accese. Le attività più pratiche e redditizie – negozi, ristoranti, perfino palestre – erano state le prime a riaprire. Mychajlyna mi ha parlato di un ristorante tradizionale specializzato in boršč che ha riaperto di recente. “È stato un miracolo. Dopo ti ci porto”.

Queste attività prima o poi forniranno al fisco le entrate che consentiranno la ricostruzione delle istituzioni culturali. Nel frattempo le amministrazioni locali sperano che gli sponsor stranieri finanzino progetti di restauro come quello della sala concerti. Questo è il motivo del codice Qr.

Dall’altra parte della strada un enorme veicolo da costruzione stava abbattendo i resti di un condominio bombardato. Il rumore era assordante. Il traffico si muoveva rapidamente. È fondamentale osservare che in ogni momento, in ogni luogo lontano dal fronte, gli ucraini si spostavano più o meno come avrebbero fatto normalmente. Le auto sfrecciavano davanti alla sala bombardata e ai palazzi distrutti come avrebbero fatto davanti a un cantiere qualsiasi.

Siamo rimasti fuori, nel parcheggio, battendo i piedi per cercare di riscaldarci.

“Due giorni fa, quando tirava una brutta aria”, ha detto Mychajlyna, “abbiamo acceso il generatore. Volevo provare a lavorare e mio figlio cercava su internet cosa fare in caso di attacco nucleare. Ha sette anni. E non puoi tenerli al riparo da queste cose. Ne sentono parlare ovunque. E sono tutti pronti a combattere i russi. Aveva costruito un’arma, e mi ha detto: ‘Ti proteggerò io’”.

Aiuti indispensabili

Gli ucraini non perderanno questa guerra. Non nel senso che saranno inglobati dalla Russia, o che i russi si avvicineranno di nuovo a Kiev. L’unico punto interrogativo è quando finirà e come. Se gli ucraini fossero disposti a rinunciare al Donbass e alla Crimea, finirebbe molto presto. Ma non c’è nessuna possibilità che l’Ucraina li ceda. L’argomento è emerso in una cinquantina di conversazioni che ho avuto mentre ero lì, e non ho mai sentito nessuno esprimere un dubbio su questo. Non ci sarà nessun compromesso, non ci sarà pace fino al ripristino dei confini del 1991.

Un giorno sono andato all’ambasciata degli Stati Uniti a Kiev con la mia delegazione. Il viceambasciatore, Mark Stroh, ci ha accolti in una grande sala conferenze piena di finestre. Aveva i capelli neri corti e gli occhiali, indossava giacca e cravatta, era educato, efficiente e attento. Annuiva e prendeva appunti. Si è definito un “uomo del dopo conflitto”, avendo lavorato anche in Afghanistan e Siria. Si è scusato con gli ucraini che erano con noi perché non aveva ancora imparato la loro lingua.

Lui e il resto dello staff dell’ambasciata avevano lasciato il paese il 13 febbraio, undici giorni prima dell’invasione. Com’è stato ben documentato, l’intelligence statunitense era certa che la Russia avrebbe invaso l’Ucraina, mentre Zelenskyj aveva escluso questa possibilità, anche quando centomila soldati si erano ammassati al confine bielorusso. Stroh era tornato in Ucraina dopo che i russi erano stati respinti da Kiev. Non era stato sorpreso della resistenza ucraina, né del fatto che la Russia l’aveva sottovalutata.

“Le autocrazie sono lente a imparare”, ha detto.

Gran parte delle informazioni dell’intelligence russa sull’Ucraina risaliva all’era sovietica, ha detto, compresi molti dei suoi obiettivi. Ultimamente è stata distrutta una fabbrica di orologi perché i russi pensavano che producesse missili. Che raggiungano o meno i loro obiettivi, il loro scopo è fare danni. A dicembre i russi stavano usando l’inverno come un’arma e speravano di logorare sia gli ucraini sia la comunità internazionale.

“Pensano di poter spostare il traguardo”, ha detto Stroh. “Magari di liberarsi di qualche paese dell’Unione europea. Forse si stancheranno della guerra e dei rifugiati. Spetta ai paesi vicini fornire armi all’Ucraina” per accelerare la conclusione del conflitto.

Per gli ucraini che erano tornati, o che non se n’erano mai andati, gli Stati Uniti stavano cercando di garantire un accesso migliore a elettricità, riscaldamento, acqua e bancomat. Stroh voleva che queste cose essenziali fossero disponibili all’interno di quelle che chiamava “fortezze d’infrangibilità”, rafforzate contro gli attacchi missilistici. Gran parte del lavoro è fatto attraverso l’Usaid, l’agenzia statunitense per gli aiuti umanitari attualmente diretta da Samantha Power. A dicembre gli Stati Uniti avevano già fornito tredici miliardi di dollari di aiuti diretti che, tra le altre cose, erano serviti a pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici, compresi gli insegnanti e i lavoratori ospedalieri. Uno dei principali motivi per cui l’Ucraina sta funzionando così bene nel bel mezzo di una lotta per la sopravvivenza è questo sostegno. La sua valuta è stabile, gli stipendi sono pagati e l’economia è sorprendentemente robusta per una nazione sotto attacco. Ma quanto durerà? Molti ucraini ci hanno fatto questa domanda, così l’ho chiesto a Stroh.

Poliziotti ucraini a Cherson, 16 dicembre 2022 (David Guttenfel​der, The New York Times/Contrasto)

“Non riesco a immaginarlo”, ha detto.

Gli ho chiesto del sistema antimissile Patriot e, con mia grande sorpresa, si è sbottonato un po’. Sembrava che quel sistema sarebbe stato presto fornito all’esercito ucraino. Era un passo importante, e un elemento cruciale per difendere il paese dai bombardamenti russi. Pochi giorni dopo, questa decisione sarebbe stata annunciata ufficialmente, suscitando le proteste della Russia. Succedeva in una fase della guerra in cui ogni nuova arma occidentale aggiunta all’arsenale ucraino provocava una reazione furiosa del Cremlino e vaghe minacce di escalation: continuavano a insinuare di essere pronti a usare armi nucleari tattiche o scatenare la terza guerra mondiale, ma non hanno mai fatto nulla di simile. Invece hanno continuato a combattere per le strade e nelle trincee, e a lanciare missili contro obiettivi non militari in tutta l’Ucraina.

Ma questo non ha minimamente intaccato la determinazione degli ucraini.

Musica nel buio

Tornati a Kiev, la nostra ultima sera in Ucraina Peter e io siamo andati a un concerto a lume di candela. Avevo visto la pubblicità su un sito di eventi e avevo comprato i biglietti per dieci dollari. Il pubblico era molto più elegante di quanto sembrasse possibile. Le persone arrivavano, bevevano vino o tè nella hall e si riversavano nell’accogliente sala da concerto, in cui erano state disposte sul palco centinaia di lumini a forma di candela alimentati a batteria. Scattavano foto e poi cercavano i loro posti. Sembrava un rito festivo: dorato, riverente e misurato.

Il concerto prevedeva la partecipazione di una violinista e di una pianista che hanno suonato una decina di brani classici, ma ovviamente niente di russo. All’inizio della serata Peter aveva fatto un paragone con il Regno Unito e l’Irlanda. Come tra Regno Unito e Irlanda, tra Russia e Ucraina ci sono molti intrecci culturali, linguistici e personali, così tanti che le due nazioni non potrebbero mai essere considerate completamente separate o completamente diverse, ma questo non significa che non siano distinte. Non significa che le due ex colonie non possano essere indipendenti e sovrane. E come nel rapporto dell’Irlanda con il Regno Unito, i crimini del passato non sarebbero mai stati dimenticati dall’Ucraina. Sarebbero stati messi da parte in nome del commercio o dei legami familiari, ma ci sarebbe stata, per i secoli a venire, una rabbia appena repressa.

Al concerto un gruppo di ventenni in ultima fila faceva troppo rumore ed è stato zittito. Due probabili modelle davanti a noi, con i capelli raccolti, guardavano il concerto con occhi magistralmente truccati. Alcuni bambini erano sprofondati nelle poltrone, ma la maggior parte del pubblico sedeva dritta, applaudiva con convinzione e in seguito sarebbe tornata, attraverso la neve che scendeva dolcemente, alle sue case, che quella notte potevano o meno essere riscaldate. I loro volti non sembravano preoccupati.

Mentre tornavo in albergo mi sono fermato fuori dalla Zoloti vorota, una riproduzione della Porta aurea di Costantinopoli, dove un artista di strada stava suonando una canzone rock ucraina. La neve cadeva come cenere mentre lui suonava da solo nel cortile buio, e qualche pendolare diretto a casa camminava a passo svelto con le mani nelle tasche del cappotto. Ho messo qualche soldo nella custodia vuota della sua chitarra, in cui la neve che si scioglieva condivideva lo spazio con alcune banconote, monete e cd in vendita.

Mi sono spostato dall’altra parte della piazza e poco dopo si è avvicinato un uomo sulla trentina. Non portava né cappello né guanti. I suoi sottili capelli castani erano arruffati sulla fronte.

“Le piace questa musica?”, mi ha chiesto.

Ho risposto di sì.

Indossava un cappotto marrone chiaro e dei jeans. Aveva in mano una lattina di birra e puzzava come se ne avesse già bevute parecchie. Mi ha chiesto da dove venivo. Quando gliel’ho detto, ha fatto una smorfia.

“Ho studiato economia”, ha detto. “Il mio inglese… Ci provo”.

Mi ha detto di chiamarsi Stanislav.

Un altro uomo si è avvicinato. Stanislav lo ha mandato via sibilando qualcosa.

“Io sono di Mariupol”, ha detto. “Conosci Mariupol?”.

Gli ho risposto che avevo letto di Mariupol. Ho immaginato una fila dopo l’altra di palazzi anneriti dal fuoco. Pensavo che la città fosse deserta.

“I miei nonni sono a Mariupol”, ha detto. “Non vogliono andarsene. Li prego in ginocchio di venir via”, ha detto congiungendo le mai nude, “ma non vogliono. Dicono che quella è casa loro, bla, bla, bla”.

Il chitarrista ha finito la sua canzone ucraina e ha cominciato a suonare Last Christmas degli Wham!. Ho detto a Stanislav che dovevo andare, che quella notte avrei preso un treno per la Polonia.

“Quindi te ne vai?”, mi ha chiesto. Ha guardato il musicista e la sua custodia vuota. “Quindi te ne vai”.

Due soldati

Il treno partiva da Kiev alle undici. Quando Peter e io siamo arrivati allo scompartimento da quattro che ci era stato assegnato, abbiamo trovato due ragazzi che occupavano le cuccette inferiori. Erano soldati ucraini in uniforme, entrambi adolescenti. Ci hanno sorriso.

L’odore era insopportabile. Era chiaro che quei due non facevano la doccia da un po’ di tempo, e sembrava che avessero lottato tra loro poco prima che arrivassimo. Abbiamo gettato le nostre borse sulle cuccette superiori e ci siamo sistemati.

Il treno era vecchio, di epoca sovietica, ogni superficie era d’acciaio o dipinta color malva. Fuori la temperatura stava scendendo verso lo zero, ma mentre lasciavamo Kiev è partito il riscaldamento, trasformando la cuccetta in una sorta di grembo semovente: caldo e oscillante, impregnato di tanfo umano.

I soldati sotto di noi sedevano fianco a fianco su uno dei letti, ridacchiando mentre guardavano dei video sui loro telefoni. Erano fastidiosi e allo stesso tempo estremamente educati, ed ero contento che andassero in direzione opposta rispetto ai combattimenti. Hanno sbuffato e lottato ancora un po’, sembrava che non sarebbero mai stati tranquilli. Verso mezzanotte si sono sistemati nei loro letti, ma non si sono addormentati. Probabilmente stavano tornando a casa in licenza ed erano troppo felici per dormire. Peter stava già russando, e proprio mentre anch’io stavo per crollare, ho sentito il rumore di qualcosa che cadeva sul pavimento. Pochi secondi dopo il soldato sotto di me mi ha toccato la spalla. Il suo volto immacolato mi sorrideva. “Sue”, ha detto. Aveva recuperato un paio di monete che mi erano cadute dalla tasca. L’ho ringraziato e abbiamo ripreso entrambi i nostri posti. Dieci minuti dopo è successo di nuovo. Di nuovo ha raccolto le monete cadute, si è alzato e me le ha restituite. “Sue”, ha detto di nuovo. Questa volta ho preso tutto il contenuto delle mie tasche e l’ho infilato nello zaino.

Mi sono addormentato senza coperta. All’interno il clima era diventato tropicale, anche se il gelo copriva i finestrini e la velocità del treno sembrava insopportabile. Durante la notte ogni tanto una scossa o un rumore di ferraglia mi svegliava brevemente, e i due soldati erano sempre lì, sdraiati e svegli, finché a un tratto non c’erano più. Erano scesi in una stazione ghiacciata nell’oscurità ed erano salite due donne, una madre e una figlia adulta. Bisbigliavano allegramente, mentre ci svegliavamo nell’alba perlacea, sfrecciando inesorabilmente verso ovest. ◆ bt

Questo articolo

Dave Eggers è uno scrittore statunitense. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è The Every (Feltrinelli 2022). Eggers è stato in Ucraina con una delegazione dell’organizzazione per la libertà d’espressione Pen America. Una parte di questo articolo è uscita anche sul settimanale statunitense The New Yorker.


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Questo articolo è uscito sul numero 1500 di Internazionale, a pagina 46. Compra questo numero | Abbonati