Appena entrato in carica, a ottobre del 2022, il governo guidato dalla presidente del consiglio Giorgia Meloni ha subito mostrato le sue intenzioni, dando ad alcuni importanti ministeri dei nomi più ideologici. Un’antiabortista guida quello che prima era il ministero per le pari opportunità e la famiglia, e ora è per la famiglia, la natalità e le pari opportunità, sottolineando la volontà dell’esecutivo di far aumentare il numero di neonati italiani. Anche il ministero dello sviluppo economico ha cambiato nome: ora si chiama ministero delle imprese e del made in Italy, per sottolineare l’impegno a difendere la produzione italiana.
Quello dell’istruzione è diventato dell’istruzione e del merito. In una serie d’interventi il ministro Giuseppe Valditara ha detto che le scuole italiane in questi anni hanno promosso l’attivismo consapevole invece di preparare gli studenti a competere nel mercato del lavoro. In altri suoi interventi contestati Valditara si è schierato a favore di un rigore che valorizzi i talenti, incoraggiando i bambini a capire l’importanza del lavoro duro e a costruire il loro carattere attraverso una disciplina esemplare.
Questo nuovo fronte della guerra culturale in Italia non riguarda solo gli studenti, ma anche il desiderio di rendere i lavoratori più flessibili di fronte alle richieste dei datori di lavoro. Una delle decisioni più importanti prese finora dal nuovo governo è stata ridurre le indennità garantite a chi è disoccupato. Il reddito di cittadinanza, voluto fortemente nel 2019 dal Movimento 5 stelle, prevede il versamento di una cifra che può arrivare fino a 780 euro al mese. Attualmente sono poco più di un milione i nuclei familiari a riceverlo. Fratelli d’Italia (FdI) si è opposto a quella che considera “un’elemosina”.
Contro il reddito di cittadinanza
Con la legge di bilancio approvata lo scorso 29 dicembre, nel 2023 l’erogazione del reddito è sottoposta a maggiori condizioni. Nel 2024 l’aiuto sarà eliminato per chi può lavorare. Al centro di questa battaglia politica c’è la scarsa occupazione in Italia o, meglio, le presunte ragioni culturali del problema. Il dato ufficiale sulla disoccupazione (7,8 per cento) non è molto più alto rispetto alla media europea, ma lo è nettamente se si considerano solo i giovani. Il dato più significativo – tenuto conto di altre categorie come le donne che si occupano di assistenza, i dipendenti in congedo per malattia e le persone che non sono mai entrate nel mercato del lavoro regolare – è che solo il 60 per cento degli italiani in età lavorativa ha un’occupazione. In fondo alla classifica al pari della Grecia. Meloni sostiene che la sinistra, negli anni in cui è stata al governo, ha spinto i poveri ad accontentarsi dei sussidi. “Il lavoro ti può portare ovunque, mentre il reddito di cittadinanza ti mantiene dove sei”, ha detto.
Modello Ronald Reagan: rafforzare la propensione al lavoro esaltando il merito
Oltre agli inviti all’impegno e all’intraprendenza, però, la presidente del consiglio non ha presentato alcun piano credibile per creare posti di lavoro. Si è limitata a dire: “Ci è stato detto che la povertà si può abbattere e il lavoro si può creare con un decreto”, aggiungendo che “il lavoro lo creano le aziende con le loro capacità”. Secondo Meloni, spetta ai potenziali lavoratori accettare ciò che gli è offerto; senza aspettare il lavoro dei loro sogni, a spese dei contribuenti. Le modifiche al reddito di cittadinanza costringono ad accettare la prima offerta di un posto di lavoro “congruo”, la cui idoneità è giudicata in base alla distanza dal luogo di residenza e non alle qualifiche del lavoratore. “I laureati facciano anche i camerieri, non si può essere schizzinosi”, ha dichiarato il sottosegretario al lavoro Claudio Durigon.
I segni distintivi della destra
Tutto questo solleva diversi interrogativi sul presunto populismo del governo di estrema destra. Spesso Meloni e i suoi alleati sono stati definiti “sciovinisti del welfare”, ovvero sostenitori di una politica di estrema destra che offre assistenza sociale ai cittadini, soprattutto alle famiglie, ma nega i diritti degli immigrati e delle minoranze. Alcune dichiarazioni hanno evidenziato una simile concezione dello stato sociale, come la proposta di permettere alle donne che hanno molti figli di andare prima in pensione. Ma al di là di questa discriminazione, Fratelli d’Italia e gli altri partiti della coalizione seguono un programma che ha i segni più classici della destra, colpevolizzando le persone con redditi bassi per la loro condizione di povertà. Su un aspetto Meloni ha innegabilmente ragione: la ricerca del lavoro porta molti italiani “ovunque”, costringendoli a lasciare il mercato del lavoro in Italia per accettare un impiego all’estero. Il discorso vale in particolar modo per i laureati: l’Italia è penultima nella classifica dei paesi dell’Unione europea per numero di persone in possesso di una laurea e ultima per quanto riguarda il tasso di occupazione dei laureati.
Il ministro Valditara propone d’incoraggiare i giovani a seguire percorsi di studio scientifici. Tuttavia, gli stereotipi sui laureati in materie umanistiche che sarebbero “esigenti” e incapaci di guadagnare con la propria formazione nasconde la realtà di un mercato del lavoro in crisi che produce pochi impieghi allettanti. Oggi circa il 40 per cento dei lavoratori italiani guadagna meno di dieci euro all’ora. L’anno scorso un rapporto dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) ha rivelato che in Italia gli stipendi medi sono diminuiti del 2,9 per cento rispetto al 1990, mentre in Francia e Germania sono aumentati di circa il 30 per cento. L’Italia, inoltre, è uno dei pochi paesi ricchi a non avere un salario minimo, e i partiti al governo sono contrari a introdurne uno. A partire dal dopoguerra le condizioni lavorative in Italia sono state stabilite attraverso la contrattazione collettiva e legate a una “scala mobile” che ha mantenuto i redditi al riparo dall’inflazione. Tuttavia, negli anni ottanta l’abbandono di questo sistema, insieme a una diminuzione delle iscrizioni ai sindacati, ha spinto anche le sigle sindacali più riluttanti a sostenere l’idea di un salario minimo garantito, da combinare con la contrattazione collettiva.
Persone poco esperte
Le pessime condizioni lavorative in Italia affondano le loro radici in tre decenni di riduzione costante degli investimenti pubblici. L’Italia resta la seconda potenza manifatturiera d’Europa, ma il paese è dominato da piccole imprese che hanno una scarsa produttività e sono sottoposte a una costante pressione sui costi esercitata dalla Germania, prima potenza economica dell’eurozona. Di conseguenza l’Italia si affida di più a settori caratterizzati da retribuzioni basse e occupazioni precarie. Lo scorso dicembre la ministra del turismo Daniela Santanché, proprietaria di uno stabilimento balneare esclusivo, ha dichiarato che vorrebbe trasformare il turismo nella “prima azienda della nostra nazione”. Le misure per favorire la creazione di posti di lavoro annunciate dal governo Meloni, più che sugli investimenti nella formazione e nelle infrastrutture, sono incentrate soprattutto sul taglio delle tasse per i datori di lavoro che assumono nuovi dipendenti.
La guerra culturale scatenata dalla destra si basa su un modello, a volte di esplicita ispirazione reaganiana, che vorrebbe rafforzare la propensione al lavoro esaltando il valore del merito. Il termine “meritocrazia”, usato anche da centristi come l’ex presidente del consiglio Matteo Renzi e Carlo Calenda, che è stato ministro dello sviluppo economico nel governo Renzi, è evocato senza alcuna considerazione per la connotazione negativa che gli aveva dato il sociologo Michael Young. Questo approccio, tra l’altro, è platealmente smentito dal fatto che molti incarichi di governo siano stati affidati a persone senza esperienze adeguate. L’assegnazione dei posti di lavoro in base alle appartenenze ideologiche non è una novità in Italia, ma in molti hanno storto il naso quando il giornalista di destra Alessandro Giuli, ex militante del gruppo neofascista Meridiano zero, a novembre del 2022 è stato nominato presidente del museo di arte contemporanea Maxxi, a Roma. Negli ultimi tempi si è diffusa l’abitudine di definire il partito di Meloni con l’espressione “destra sociale”, che oltre a evocare il neofascista Movimento sociale italiano (Msi) lascia intendere che Fratelli d’Italia sia più vicino ai poveri rispetto ad altre formazioni conservatrici. Effettivamente alcuni leader storici dell’Msi avevano cercato di competere con la sinistra presentando idee economiche “antiborghesi”, ma la linea transclassista di FdI non fa alcun riferimento a queste dottrine. Al contrario, il modello basato sulla riduzione delle tasse e degli investimenti seguito da Fratelli d’Italia si fonda sulla concorrenza e sull’avanzamento personale. E lo stesso vale per l’esplicito impegno del partito a instillare la disciplina nei giovani. Questo meccanismo risulta evidente in proposte come quella di offrire crediti formativi ai giovani che decidano di sottoporsi a quaranta giorni di servizio militare. Il linguaggio usato dal governo a proposito del merito e della creazione di una “attitudine al lavoro” s’iscrive nel contesto della guerra culturale voluta dalla destra italiana, di cui fanno parte anche le battaglie sull’immigrazione e i diritti delle minoranze. Da una parte ci sono i cittadini comuni che lavorano duro, e dall’altra vari interessi che secondo la destra sfrutterebbero i contribuenti sempre più tartassati.
Meloni sostiene che il suo programma è sabotato da avversari faziosi e ideologici, decisi a ostacolare tutti gli italiani che vogliono andare avanti. Questo messaggio è stato amplificato a dicembre, quando un uomo di 27 anni ha pubblicato su Twitter alcune minacce nei confronti di Meloni e di sua figlia di sei anni, per evitare la cancellazione del reddito di cittadinanza. Anche se il profilo da cui erano partite le minacce aveva solo cinque follower, sul sito di Fratelli d’Italia sono state pubblicate ripetutamente le schermate dei messaggi. Inoltre, l’arresto del responsabile è stato annunciato sulle prime pagine dei quotidiani. Il giornalista di destra Alessandro Sallusti ha insinuato che sulle minacce ci fossero “le impronte” di Giuseppe Conte, leader del Movimento 5 stelle, che sostiene il reddito di cittadinanza.
La misura è stata introdotta nel 2019 dal primo governo guidato da Conte, accusato dai neoliberisti di offrire denaro in cambio di voti, soprattutto al sud, un’area storicamente meno sviluppata dal punto di vista economico. Le stesse voci hanno sottolineato ossessivamente gli sporadici casi in cui il reddito di cittadinanza è stato ricevuto illecitamente. Eppure un’analisi più attenta rivela che strumenti simili, adottati per alleviare gli effetti della disoccupazione, sono molto comuni in Europa. Per chi è in grado di lavorare, inoltre, il reddito è sempre stato condizionato alla ricerca di un lavoro o alla formazione. Alla maggior parte delle persone che ne usufruiscono è infatti richiesto di accettare una delle prime due offerte di lavoro. Oggi quasi un quinto di chi ha ricevuto il reddito di cittadinanza ha un impiego, ma con una retribuzione talmente bassa da rendere necessaria un’integrazione.
Poca razionalità
Condizioni di questo tipo avevano fatto raddoppiare il numero delle persone che avevano chiesto il reddito di cittadinanza durante i lockdown, prima che la cifra totale diminuisse rapidamente una volta ripresa l’attività economica. Ciò che l’Italia non ha mai avuto, e di cui ha bisogno oggi più che mai, sono delle politiche per la creazione di posti di lavoro ben retribuiti e socialmente utili. E invece il governo si limita a spingere gli italiani a impegnare tutte le loro energie nella competizione per i lavori precari già esistenti.
La guerra culturale costruita intorno al merito, ai fannulloni e a chi riceve il reddito di cittadinanza, accusati di giocare con il sistema, si basa sull’emotività più che su un piano razionale per sostenere l’economia italiana. Lo scontro è guidato da toni demagogici studiati apposta per fare presa su alcuni gruppi specifici, dalle piccole aziende definite “creatrici di occupazione” ai pensionati che hanno già lavorato abbastanza.
L’estrema destra ama sottolineare la distanza che separa la sinistra italiana dai lavoratori e dalle lavoratrici, emersa nuovamente alle elezioni dello scorso autunno. Ma le sue proposte non fanno nulla per ritrovare lo spirito della solidarietà sociale. Al contrario, la guerra culturale voluta da Meloni si combatte esclusivamente sul terreno di presunti privilegi e della colpevolizzazione dei poveri per le condizioni difficili in cui sono costretti a vivere. ◆ as
David Broder è uno storico britannico esperto di comunismo italiano e francese.
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Questo articolo è uscito sul numero 1497 di Internazionale, a pagina 32. Compra questo numero | Abbonati