Di solito gli economisti concordano sul fatto che la concorrenza è una cosa buona e che i mercati con poche aziende in posizione dominante sono inefficienti. Forse dovremmo guardarci meglio allo specchio. Secondo uno studio recente i vincitori dei principali premi per l’economia, compreso il Nobel, hanno trascorso metà della loro carriera in sole otto università: Harvard (dove insegno io), Yale, Princeton, Stanford, Mit, l’università di Chicago, la Columbia e Berkeley (tutte negli Stati Uniti). Gli scienziati di discipline come la chimica, l’ingegneria e la medicina, invece, rappresentano un ventaglio molto più ampio di istituzioni. Applicando un indicatore usato nei casi di antitrust, gli autori dello studio – gli economisti Richard B. Freeman, Danxia Die, Hanzhe Zhang e Hanzhang Zhou – hanno dimostrato che i premi Nobel per l’economia sono quasi cinque volte più concentrati di quanto non lo siano quelli per la chimica, la fisica e la medicina. E, cosa ancora più preoccupante, dei diciotto settori esaminati quello dell’economia è l’unico in cui la concentrazione è in aumento. Questo è al tempo stesso causa ed effetto dei problemi: la nostra professione è diventata autoreferenziale e ossessionata dal successo, e non fa abbastanza per avere un impatto positivo sulla realtà. Le persone pensano che gli economisti siano fuori dal mondo. Purtroppo non hanno tutti i torti.

La produzione accademica nelle scienze esatte è fatta di risultati sperimentali che possono essere valutati in modo oggettivo. In questi campi il merito di un’idea è legato più alle sue implicazioni pratiche che a quanto un autore sia considerato geniale. Il premio Nobel per la chimica del 2019, per esempio, è stato assegnato per lo sviluppo delle batterie agli ioni di litio, che hanno permesso l’uso diffuso di cellulari e computer portatili. L’economia, invece, ha più cose in comune con le scienze umanistiche, che non sono state incluse nella ricerca. Anche i vincitori dei principali premi in campo umanistico, come il Kluge, l’Holberg e il premio Rolf Schock per la filosofia, hanno trascorso gran parte delle loro carriere in modo sproporzionato nelle stesse otto istituzioni d’élite citate prima, anche se con uno schema apparentemente meno spudorato. Le discipline umanistiche sono in primo luogo interpretative, cioè cercano di comprendere e spiegare aspetti dell’esperienza umana. È un lavoro prezioso, ma molto più difficile da valutare in modo obiettivo. La sua natura soggettiva crea il cosiddetto “effetto alone”, cioè dare per scontato, per esempio, che un’opera scritta da uno studioso affermato sia automaticamente geniale. Il giudizio su questi lavori è inoltre più facilmente influenzabile da considerazioni di natura politica e ideologica. Nessuno si chiede se una batteria è progressista o conservatrice, deve funzionare e basta. La soggettività dei giudizi, combinata con l’effetto alone, spiega perché questi settori tendono a essere snob e autoreferenziali.

L’uso della matematica

Da tempo l’economia è infastidita dal rischio di essere associata a discipline “morbide” come la filosofia e la storia. Ecco perché per gran parte del novecento ha cercato di imitare le scienze “dure” (quelle che hanno risultati verificabili e ripetibili), facendosi più rigorosa dal punto di vista matematico. Questo tentativo però non ha funzionato: l’economia è sprofondata ancora di più nella teorizzazione esoterica e nel gergo da iniziati. Il problema non sta nell’uso della matematica in sé, che può portare immensi benefici nel mondo reale. I miglioramenti teorici che i premi Nobel Paul Milgrom e Robert Wilson hanno apportato alla progettazione delle aste, per esempio, ha contribuito a far risparmiare miliardi di dollari ai contribuenti statunitensi. Esempi simili, però, non sono comuni. In economia gli incentivi professionali tendono troppo spesso a premiare l’eleganza teorica invece della capacità di risolvere problemi reali.

La buona notizia è che negli ultimi anni il settore è diventato a poco a poco più empirico. Gli economisti dello sviluppo Abhijit Banerjee, Esther Duflo e Michael Kremer hanno condiviso il premio Nobel per l’economia nel 2019 “per il loro approccio sperimentale alla riduzione della povertà globale”. Il loro strumento preferito è l’esperimento controllato randomizzato, che offre risposte chiare e a volte sorprendenti sui modi più efficaci per migliorare la vita delle persone. In questo e in molti altri casi gli economisti possono determinare un impatto positivo attraverso la progettazione e la valutazione partecipata, contribuendo a migliorare quella che Duflo definisce “l’idraulica” dell’economia. La cattiva notizia è che la ricerca empirica è costosa. Ci vogliono centinaia di migliaia di dollari per assumere assistenti alla ricerca, condurre esperimenti e produrre e analizzare dati. Gli economisti dispongono di pochi soldi pubblici: negli Stati Uniti la principale fonte di finanziamenti federali è la National science foundation (Nsf), ma meno dell’1 per cento dei suoi fondi va agli economisti. Per questo solo poche università possono permettersi la ricerca empirica. Alla fine molti seguono il percorso ben collaudato di scrivere articoli raffinati dal punto di vista matematico, che possono servire a ottenere una cattedra ma hanno effetti scarsi sul mondo reale.

Tre cambiamenti renderebbero la professione dell’economista più democratica e utile. Innanzitutto, le università dovrebbero premiare la ricerca con valore pratico. Inoltre, ci vogliono più premi che valutino l’impatto pubblico degli studi. L’American economic association assegna ogni anno più di una decina di premi, ma nessuno valorizza gli economisti per il contributo dato alla società. E infine, si devono aumentare i finanziamenti per la ricerca e cambiare i criteri di assegnazione. I programmi della Nsf più importanti per gli economisti sono il Career award, un premio per i più giovani, e il Graduate research fellowship program, che finanzia gli studi di dottorato. Il 76 per cento degli economisti a cui è stato assegnato il Career award nell’ultimo decennio era legato a una delle otto università d’élite. Servono finanziamenti il cui criterio più importante siano gli effetti sul mondo reale. In questo modo l’economia potrebbe tornare a far funzionare meglio i mercati, i governi e la società. Forse a quel punto non la chiameremmo più la “scienza triste”. ◆ gim

David Deming è un economista della Harvard Kennedy school, negli Stati Uniti.

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Questo articolo è uscito sul numero 1584 di Internazionale, a pagina 104. Compra questo numero | Abbonati