Il mercato dell’oro è un cimitero di macerie e cadaveri sbranati dai cani. La sede della tv di stato è diventata un luogo di tortura. L’archivio cinematografico nazionale è stato sventrato durante una battaglia, e i suoi tesori ingialliscono al sole. I colpi d’artiglieria sorvolano il fiume Nilo e vanno ad abbattersi su abitazioni e ospedali. C’è chi seppellisce i morti davanti alla porta di casa. E chi marcia in gruppi ordinati, per andare a unirsi alle milizie cittadine. In un silenzioso reparto per pazienti malnutriti, neonati affamati lottano per la sopravvivenza. A intervalli di pochi giorni ne muore uno.

Khartoum, la capitale del Sudan e una delle più grandi città africane, è ridotta a un campo di battaglia incenerito. La lotta per il potere tra due generali rivali ha trascinato il paese in una guerra civile, che ha scatenato una delle peggiori crisi umanitarie del mondo.

Fonte: The New York Times

Secondo le stime dell’amministrazione statunitense, circa 150mila persone sono morte dal 15 aprile 2023, il giorno in cui è scoppiato il conflitto. Altri nove milioni hanno dovuto abbandonare le loro case, in quella che secondo le Nazioni Unite è la più grave crisi di rifugiati e sfollati del mondo. Funzionari internazionali avvertono che la carestia potrebbe uccidere centinaia di migliaia di bambini nei prossimi mesi e, se non s’interverrà, potrebbe raggiungere i livelli della carestia che ci fu in Etiopia negli anni ottanta.

Il caos è alimentato dal fatto che il Sudan è diventato un terreno di gioco per potenze straniere come gli Emirati Arabi Uniti, l’Iran, la Russia e perfino le forze speciali ucraine. Nel loro miscuglio d’interessi contrastanti, contribuiscono a riversare armi e combattenti nel conflitto, forse sperando di accaparrarsi le spoglie: l’oro sudanese, per esempio, o un affaccio sul mar Rosso.

La tragedia più grande è che le cose non dovevano necessariamente andare così, dice Samawal Ahmed mentre si fa strada in quel che resta di un famoso mercato, tra le gioiellerie saccheggiate e i rottami di un carro armato.

Circa un anno fa, quando la guerra era ancora nelle prime settimane, un razzo è caduto sul suo appartamento e il laboratorio medico per cui lavorava ha chiuso definitivamente. Ora è a Khartoum per salvare il possibile. “Ho perso tutto”, dice mentre tiene in mano alcuni documenti che è riuscito a estrarre dalle macerie di casa sua: i certificati scolastici dei figli, le sue qualifiche professionali e un passaporto. Dall’altro lato della strada si vedono gli scheletri di tre combattenti abbandonati tra le rovine. “Mi si rivolta lo stomaco”, commenta Ahmed. “Tutto questo si poteva evitare”.

La guerra è scoppiata senza preavviso, quando la situazione di stallo che si era creata tra l’esercito sudanese e un potente gruppo paramilitare, le Forze di supporto rapido (Rsf), è degenerata in scontri a fuoco nelle strade di Khartoum. Pochi pensavano che sarebbe durata a lungo. Dall’indipendenza nel 1956, il Sudan ha vissuto più colpi di stato di qualunque altro paese africano. Anche i due rivali di oggi – l’esercito nazionale e un gruppo paramilitare che in precedenza rispondeva ai suoi ordini – si erano impadroniti del potere con un golpe nel 2021. Ma quando si è trattato d’integrare le Rsf nelle forze armate regolari, le due parti sono entrate in conflitto.

Quasi subito gli scontri si sono estesi al di fuori della capitale, a ondate che in breve tempo hanno investito il terzo paese più grande dell’Africa. I sudanesi sono sconvolti dal livello di distruzione raggiunto: nessuna delle parti sembra in grado di prevalere, e la guerra si sta trasformando in un devastante liberi tutti.

Un nuovo genocidio minaccia il Darfur, la regione che vent’anni fa fu sinonimo di crimini di guerra. Nella parte fertile del Sudan i terreni agricoli sono diventati campi di battaglia. Il sistema sanitario è a pezzi.

Il colonnello Taha è pessimista: la guerra non finirà in tempi brevi. “Il problema non si risolverà con le armi. Dobbiamo parlare di pace”

Una miriade di gruppi armati, tra cui estremisti islamici, mercenari stranieri e perfino ex manifestanti filodemocratici che hanno preso le armi, sono entrati nella mischia. I colloqui di pace guidati dagli Stati Uniti sono a un punto morto e il collasso dello stato sudanese rischia di trascinare con sé una regione instabile. Alcuni esperti pensano che sia solo questione di tempo prima che Ciad, Eritrea e Sud Sudan siano coinvolti.

Spesso relegato in secondo piano rispetto alle guerre a Gaza e in Ucraina, il conflitto in Sudan ha ramificazioni globali. L’Iran sostiene delle forze militari su entrambe le sponde del mar Rosso, perché era già alleato degli huthi nello Yemen e ora fornisce droni all’esercito sudanese. Gli europei temono un’ondata di profughi. Un recente studio dell’intelligence statunitense avverte che il paese potrebbe diventare un rifugio per “reti terroristiche e criminali”.

Per attraversare il Sudan, dove pochissimi giornalisti stranieri sono riusciti a mettere piede nell’ultimo anno, impieghiamo tre settimane. Siamo entrati da Port Sudan, la città diventata a tutti gli effetti la nuova capitale e dove ci sono circa 250mila sfollati. Abbiamo guidato sfidando tempeste di sabbia e decine di posti di blocco sorvegliati da combattenti nervosi. Destinazione Khartoum, dove tutto è cominciato.

Mentre ci avviciniamo alla capitale, tra il rimbombo dei colpi d’artiglieria, un aereo da guerra ci passa sopra la testa. Dall’altra parte del Nilo un pennacchio di fumo si solleva dalla più grande raffineria sudanese, al centro di una battaglia. Passiamo la notte in una casa abbandonata, dove un vicino ci racconta della bomba che ha ucciso sua sorella nella loro cucina di casa. È solo un angolo di un paese grande il triplo della Francia. Ma basta a farsi un’idea dei danni immensi subiti da una capitale che un tempo era considerata un gioiello sul Nilo.

Proiettili sul fiume

In una notte senza luna del novembre scorso il colonnello Osman Taha, ufficiale dell’esercito sudanese gravemente ferito, navigava sul Nilo, mentre proiettili e colpi di mortaio affondavano nell’acqua intorno alla sua imbarcazione. Gli altri soldati feriti, ricorda, stavano tutti rannicchiati sperando di scamparla. Molti sono morti. Il colonnello Taha è riuscito ad arrivare a riva. Cinque giorni dopo ha subìto l’amputazione della gamba destra. Ma anche all’ospedale non c’era tregua. I colpi di cannone sparati dalle Rsf dall’altra parte del fiume arrivavano a schiantarsi contro le mura dell’ospedale militare dov’era ricoverato. I pazienti spostavano i letti per evitare di essere colpiti.

Il Nilo è sempre stato un elemento caratterizzante di Khartoum. I suoi affluenti si uniscono nel centro della città, poi scorrono verso nord attraverso il deserto fino all’Egitto.

Oggi il grande fiume divide Khartoum anche militarmente, in tante linee del fronte. I cecchini sono appostati su uno degli argini, sotto un ponte che è stato distrutto dai combattimenti e ora è come accasciato dentro il fiume. I droni volano in picchiata sull’acqua, a caccia di bersagli. Un’isola nel centro del Nilo, dove un tempo si andava a fare pic­nic e a nuotare, è diventata una sorta di carcere a cielo aperto controllato dalle Rsf, ci raccontano i residenti.

“Attenti a dove mettete i piedi”, avverte la medica Manahil Mohamed accompagnandoci lungo una scala fiancheggiata da sacchi di sabbia fino al quarto piano dell’ospedale specialistico Aliaa, dove una schiera di finestre sfondate offre un panorama desolante.

Nella strada deserta in basso vediamo veicoli bruciati ammassati intorno al parlamento. In lontananza si staglia la sagoma scheletrica del centro di Khartoum: ministeri, hotel di lusso e grattacieli di vetro che un tempo svettavano sulla povertà della città, molti dei quali costruiti durante il boom petrolifero sudanese degli anni novanta, ora sono crivellati di colpi o anneriti dalle fiamme.

Tra questi c’è il vecchio palazzo della repubblica, dove nel 1885 i seguaci del Mahdi, un leader religioso, rovesciarono e decapitarono il governatore generale britannico Charles Gordon. Anche quello è andato in fumo.

Per molti versi la distruzione di Khartoum è un’amara resa dei conti della storia. Per più di cinquant’anni l’esercito sudanese ha combattuto guerre orribili nelle regioni periferiche del paese, servendosi di milizie spietate per soffocare le rivolte. Khartoum e i suoi abitanti erano rimasti al riparo dalle conseguenze delle guerre. Oggi la più potente creazione dell’esercito – le Forze di supporto rapido, eredi delle famigerate milizie janjawid che terrorizzarono il Darfur nei primi anni duemila – si ribella contro le forze armate ufficiali portando la devastazione nella capitale.

Secondo le stime delle Nazioni Unite, la metà dei nove milioni di abitanti dello stato di Khartoum è fuggita. L’aeroporto internazionale è chiuso, i jet che portano il segno dei proiettili sono abbandonati sulla pista. Quasi tutte le 1.060 filiali di banche della città sono state svaligiate; migliaia di auto sono state rubate (alcune sono state ritrovate in Niger, 2.400 chilometri a ovest) in una serie di saccheggi compiuti, prevalentemente ma non solo, dalle Rsf. “Com’è possibile che non sia rimasto nulla di una città così grande e così ricca?”, lamenta Mohamed Eldaw, banchiere. “Probabilmente è il più grande saccheggio della storia”.

All’ospedale Aliaa una triplice raffica di artiglieria infrange la calma. Nel timore dei cecchini, la dottoressa Mohamed ci esorta a tornare dentro. Per mesi sono piovuti sull’ospedale, che curava soprattutto soldati, colpi in grado di sfondare i muri, racconta. Senza elettricità, i medici operavano facendosi luce con i cellulari.

A febbraio è arrivato un po’ di sollievo quando l’esercito, armato di nuovi potenti droni iraniani, ha riconquistato questa parte della città (le Rsf, invece, usano droni forniti dagli Emirati Arabi Uniti).

Con l’avanzata dell’esercito è stato possibile trasferire in aereo a Port Sudan centinaia di soldati feriti. Nella città costiera sono ospitati nei reparti sovraffollati di un ospedale militare. Vediamo un uomo con gravi lesioni facciali causate da un attacco di droni. Le amputazioni sono all’ordine del giorno.

Tra i militari arrivati a Port Sudan, c’è il colonnello Osman Taha. Quando lo incontriamo, si siede sul letto per mostrarci alcuni video della sua ultima battaglia. Si vedono soldati esultanti che urlano e si abbracciano, pensando di aver vinto. Combattenti delle Rsf giacciono feriti nella polvere, presi a calci o insultati dai soldati. Poi l’inquadratura mostra il colonnello Taha, sudato fradicio, con gli occhi vitrei per la battaglia.

Ma ai soldati era sfuggito un cecchino delle Rsf nascosto tra i palazzi residenziali, che ha sparato alla gamba del colonnello. Quella notte, racconta Taha, gli operatori sanitari l’hanno trasferito in una fabbrica di munizioni vicino al Nilo, dove insieme ad altri si è imbarcato per la pericolosa traversata.

È pessimista: la guerra non finirà in tempi brevi.

“Il problema non si risolverà con le armi”, dice. “Dobbiamo parlare di pace”.

Nel reparto malnutrizione

Per Amna Amin guerra significa fame. Dopo che i combattenti delle Rsf hanno invaso il suo quartiere a Omdurman – uno dei tre centri urbani che compongono l’area metropolitana di Khartoum – Amin, 36 anni, non ha più saputo come sfamare i cinque figli.

Suo marito, un minatore d’oro nel lontano nord, è sparito. Lei ha perso il lavoro come addetta alle pulizie. I vicini hanno condiviso con lei quello che potevano, ma non era abbastanza. Poi sono arrivate altre due bocche da sfamare: Iman e Ayman, i gemelli nati a settembre. Nel giro di pochi mesi i due neonati hanno perso peso e sofferto di diarrea, un segno della malnutrizione. In preda al panico, Amin li ha presi, si è lanciata in una corsa disperata attraverso la linea del fronte, viaggiando su un carro trainato da un asino e su un minibus per raggiungere l’ospedale pediatrico di Buluk.

Nell’ospedale militare Bawarith di Port Sudan, 17 aprile 2024  (Ivor Prickett, The New York Times/Contrasto)

L’Onu non ha ancora dichiarato ufficialmente la carestia in Sudan, ma la maggior parte degli esperti pensa che sia già in corso in alcune aree del Darfur e a Khartoum. Più di 220mila bambini potrebbero morire nei prossimi mesi, avverte l’Onu. I responsabili delle organizzazioni umanitarie sostengono che entrambe le parti stiano usando la fame come arma di guerra.

L’esercito nega i visti, i permessi di viaggio e i nulla osta per attraversare le linee del fronte agli operatori umanitari. Le Rsf saccheggiano i camion e i magazzini degli aiuti. “Una delle situazioni più orribili del mondo rischia di aggravarsi enormemente”, ha dichiarato Tom Perriello, l’inviato degli Stati Uniti per il Sudan.

All’ospedale i medici sono riusciti a salvare i gemelli di Amin. Almeno per ora. Ogni giorno arrivano tanti altri bambini malnutriti e il sistema sanitario è allo stremo. La metà dei cinquanta ospedali di Khartoum è chiusa, molti sono stati gravemente danneggiati dai combattimenti, riferisce Sohail Albushra, un funzionario del ministero della sanità. Quelli ancora operativi sono vicini al collasso. L’ospedale Al Nau, vicino alla linea del fronte a Omdurman, accoglie ogni giorno centinaia di nuovi pazienti. Si dorme in due per letto.

I feriti raccontano di essersi spostati frettolosamente da un quartiere all’altro a mano a mano che la linea del fronte cambiava, incappando ogni volta in posti di blocco sorvegliati da combattenti che pretendono denaro, rubano telefoni e talvolta sparano. Huda Adil, trent’anni, è rimasta paralizzata dalla vita in giù dopo che alcuni miliziani delle Rsf hanno sparato contro l’autobus su cui viaggiava.

Amouna Elhadi è seduta al capezzale del figlio Hassan, 14 anni, colpito allo stomaco dai mustanfarin, come sono chiamati i nuovi gruppi di giovani che combattono al fianco dell’esercito.

Mujahid Abdulaziz, invece, sorride. Per dieci settimane ha cercato di farsi togliere un proiettile dalla gamba. Si trovava a un posto di blocco dopo un attacco di droni contro una stazione di rifornimento, in cui erano morti diversi miliziani delle Rsf. Il loro compagno di guardia al check-point ha sparato ad Abdulaziz, che spiega: “Era arrabbiato”.

Per lui, studente d’ingegneria di vent’anni, è stato l’inizio di un percorso tortuoso. In un ospedale gli hanno richiuso la ferita, ma senza estrarre il proiettile. Stessa cosa in un secondo ospedale. Abdulaziz ha attraversato tre volte il Nilo, aggirando la capitale a bordo di autobus, superando il deserto e una montagna. Infine, dopo un viaggio di più di 150 chilometri, che avrebbero potuto essere quindici, ha raggiunto l’ospedale Al Nau, dove i medici hanno finalmente estratto il proiettile.

Fino a poco tempo fa Abdulaziz pensava di avere davanti a sé un futuro entusiasmante. Nel 2019 ha partecipato alle proteste di massa che hanno rovesciato il presidente autoritario Omar al Bashir, da trent’anni a capo del paese. Due anni dopo è tornato in piazza per lanciare sassi contro la polizia antisommossa quando un colpo di stato militare ha fatto naufragare la speranza di avere finalmente un governo guidato da civili.

Alcuni di quei manifestanti oggi gestiscono le mense che costituiscono una delle poche forme di aiuto ancora disponibili. Abdulaziz, però, si sente sconfitto. Prima della guerra “sognavamo”, dice. “Oggi quelle speranze sono svanite”.

Mudassir Ibrahim, cinquant’anni, solleva la camicia per mostrare i lividi sulla schiena, le tracce della settimana in cui è stato prigioniero delle Rsf nella sede della radio e tv nazionale sudanese. I carcerieri lo picchiavano con bastoni di ferro e cavi elettrici. “È stato come morire mille volte”, confessa.

Arrivati a Omdurman, troviamo le prove delle sue affermazioni. Nel dipartimento finanziario della sede dell’emittente, corde e altri strumenti di contenzione pendono dai muri di stanze chiuse da sbarre. Sui pavimenti ci sono mucchi di escrementi secchi. Sulle pareti sudice sono scarabocchiati nomi, suppliche e stralci di poesie. “Le vostre lacrime bugiarde non servono a combattere l’ingiustizia”, si legge in una scritta.

Al cospetto del religioso sufi Elamin Omar (in verde), Omdurman, 25 aprile 2024 (Ivor Prickett, The New York Times/Contrasto)

“Amici per sempre”, dice un’altra, con sotto una lista di sei nomi.

La maggior parte del complesso è in rovina. L’edificio principale è stato incenerito dai bombardamenti aerei, mentre un archivio cinematografico risalente agli anni quaranta, uno dei più grandi dell’Africa, è stato sventrato dai colpi di arma da fuoco. Le Rsf si sono ritirate dall’altra parte del fiume, dicono i soldati.

Non ce ne andiamo

Anche mentre infuriavano i combattimenti, alcuni abitanti di Omdurman si sono rifiutati di andare via. “Siamo nati qui, siamo cresciuti qui, e moriremo qui”, dice Edward Fahmy, 73 anni, seduto nel cortile di una modesta casa nella città vecchia. Su ogni parete è appesa un’immagine di Gesù. Fahmy e la cugina, Janette Naeim, cinquant’anni, sono rimasti al loro posto anche sotto le bombe. Naeim è stata colpita da un proiettile vagante mentre andava a prendere l’acqua. Quando due parenti sono morti li hanno seppelliti di fronte all’ingresso di casa, raccontano mostrando due tumuli scavati da poco.

Entrambi cristiani ortodossi, Fahmy e Naeim sono una dimostrazione della diversità etnica e religiosa del Sudan, oscurata da trent’anni di rigido governo islamista. La guerra rischia di spazzare via anche questa ricchezza.

Nella chiesa copta ortodossa di Mar Mina alcuni raggi di luce polverosa penetrano attraverso i buchi del soffitto decorato da un affresco del Cristo, danneggiato durante i combattimenti. Un imprenditore locale, Andrews Hanna, racconta che il vescovo è fuggito dopo che i paramilitari delle Rsf hanno fatto irruzione a casa sua sparando e gridando: “Dove sono i dollari?”.

Quando Hanna è arrivato sul posto, un’ora dopo, il pavimento era sporco del sangue di un sacerdote che aveva protetto il vescovo dai colpi di fucile. In seguito la fabbrica dell’imprenditore è stata saccheggiata dalle Rsf, che hanno portato via ottomila moto e risciò. Alcune settimane dopo la sua famiglia è scappata.

“Amiamo questo paese. Il problema è che ha troppi eserciti”, dice Hanna.

Molte persone hanno trovato rifugio presso lo sceicco Elamin Omar, un carismatico leader religioso sufi che vive in questa parte della città. Per più di un anno ha ospitato circa mille persone in una delle sue proprietà. Le famiglie mangiavano da una cucina comunitaria e raccoglievano l’acqua dal Nilo, racconta il religioso, mostrandoci una moschea, una farmacia ben fornita e alcuni alloggi. I fedeli davano una mano a seppellire i morti e la sera eseguivano lo zikr, una danza rituale espressione della spiritualità sufi.

“Riempiva le nostre anime”, ricorda.

La mensa per i poveri è ancora attiva. Lo sceicco Elamin, un uomo imponente vestito con una tunica verde, spiega di aver pagato tutto di tasca sua. Oltre a essere a capo di un ordine sufi con ramificazioni a Londra, New York e Dubai, racconta di essere anche un imprenditore, proprietario di una miniera d’oro e di un’attività di esportazione di carne. Prima della guerra era stato criticato per il suo stile di vita sfarzoso, come quando aveva noleggiato un jet privato per andare ai Mondiali in Qatar nel 2022. Ma oggi la sua beneficenza è apprezzata.

“In quest’epoca di guerra è diventato la figura più popolare del paese. È indiscutibile”, afferma Suliman Baldo, un analista con una lunga esperienza sul Sudan. “Le persone hanno bisogno di aggrapparsi a qualcosa di positivo”.

Poco lontano dalla residenza del religioso, passiamo accanto a un gigantesco murale con la scritta “Libertà”, sfregiato da colpi d’arma da fuoco, un’eredità delle proteste del 2019. In fondo alla strada alcuni uomini si accalcano intorno a una pentola di lenticchie che borbotta sul fuoco, preparandosi a tornare alle loro case distrutte.

“Avremo un futuro bellissimo, se Dio lo vorrà”, dice Mahmoud Mustafa, un guidatore di risciò, stringendo tra le mani un contenitore di plastica pieno di cibo. Non batte ciglio al suono di un’altra raffica di artiglieria al di là del Nilo.

Una mattina presto centinaia di giovani donne vestite di nero marciano perfettamente all’unisono nel cortile di una scuola di Omdurman, le ultime reclute di un conflitto in rapida espansione.

La guerra è cominciata come una disputa tra due uomini: il capo dell’esercito sudanese, il generale Abdel Fattah al-Burhan, e il leader delle Forze di supporto rapido, il tenente generale Mohamed Hamdan Dagalo. Ma a partire dallo scorso autunno, quando una serie di vittorie delle Rsf ha scatenato un allarme diffuso, nuovi gruppi armati si sono uniti ai combattimenti, per lo più a sostenere l’esercito. Ne fanno parte ribelli dal Darfur, milizie su base etnica, islamisti un tempo fedeli all’ex presidente Al Bashir, e migliaia di giovani, uomini e donne, reclutati nelle strade del paese. Hanno imbracciato le armi anche i giovani sudanesi idealisti che anni fa rischiavano la vita per protestare contro la dittatura e poi contro l’esercito.

Non è chiaro se queste milizie decideranno le sorti della guerra o se invece la situazione sfuggirà a ogni controllo. L’esercito del Sudan è sprofondato in questo conflitto proprio perché aveva subappaltato l’uso della forza a un potente gruppo armato, le Rsf, che alla fine gli si è rivoltato contro. Ora, sostengono le voci critiche, l’esercito rischia di ripetere lo stesso errore. Anche alcuni comandanti militari sono preoccupati. A marzo il generale Shams al Din Kabbashi ha avvertito che, se le milizie non saranno tenute a bada, “il prossimo pericolo verrà da loro”.

Qualche giorno dopo l’ufficiale è stato rimproverato da un altro comandante, il generale Yasser al Atta, secondo il quale l’esercito “benedisce” le milizie popolari.

“Eventuali errori potranno essere corretti strada facendo”, ha detto Al Atta.

Siamo andati a frugare in un deposito di armi accanto a una base abbandonata delle Rsf. Era pieno di casse di legno sparse in giro. Tutti i possibili segni identificativi – numeri di serie o altri indizi che potessero far risalire a chi aveva fornito le armi – erano stati accuratamente rimossi. A quanto pare le potenze straniere che gettano benzina sul fuoco della guerra in Sudan stanno coprendo le loro tracce. Ma alcune rimangono. I funzionari statunitensi criticano sempre più apertamente gli Emirati Arabi Uniti, principale sponsor straniero della guerra. La monarchia ha interessi nel mercato dell’oro e nell’agricoltura in Sudan, e prima della guerra aveva firmato un accordo per costruire un porto da sei miliardi di dollari sul mar Rosso. Come ha riportato il New York Times, dallo scorso anno gli Emirati contrabbandano armi destinate alle Rsf attraverso una base in Ciad, violando l’embargo dell’Onu. L’Egitto, invece, sostiene l’esercito. Washington è preoccupata perché di recente Al Burhan si è rivolto all’Iran per ottenere droni e altre armi. La Russia sembra aver sostenuto entrambi gli schieramenti.

Secondo gli investigatori delle Nazioni Unite, all’inizio della guerra i mercenari della Wagner fornivano missili antiaerei alle Rsf. In seguito, i russi si sarebbero recati a Khartoum per addestrare i combattenti ad abbattere gli aerei da guerra dell’esercito sudanese. Oggi nella capitale rimangono una ventina di dipendenti della Wagner, per lo più reclute libiche e sudanesi. La presenza russa ha addirittura spinto l’Ucraina a schierare un piccolo contingente di forze speciali per contrastare il suo nemico all’estero, offrendo supporto all’esercito sudanese a Khartoum. Dopo la morte del fondatore della Wagner, Evgenij Prigožin, la posizione della Russia potrebbe essere cambiata. Dopo una visita dell’inviato russo per il Medio Oriente a Port Sudan in aprile, un alto generale sudanese ha dichiarato che il Sudan è pronto a consentire l’accesso di navi russe nei suoi porti in cambio di armi e munizioni.

Queste ingerenze straniere ostacolano la trattativa diplomatica guidata da sauditi e statunitensi per raggiungere un cessate il fuoco, ma voci critiche sostengono che anche questi sforzi per salvare il Sudan sono stati vergognosamente deboli. Il paese, avvertono, sta precipitando in un conflitto prolungato che potrebbe portare all’anarchia o alla creazione di feudi rivali, come in Somalia negli anni novanta o in Libia dopo il 2011. La guerra potrebbe facilmente propagarsi al di là dei confini. Sta già causando tensioni all’interno dei servizi di sicurezza del Ciad e ha bloccato le entrate petrolifere del Sud Sudan, fondamentali per la sua economia. Rischia inoltre di coinvolgere l’Etiopia, il secondo paese più popoloso dell’Africa. I funzionari sudanesi accusano l’Etiopia di sostenere le Rsf, mentre l’Eritrea, nemico storico dell’Etiopia, è schierata con l’esercito.

Alcune migliaia di ribelli originari del Tigrai, la regione dell’Etiopia al centro di una recente guerra civile, sarebbero dislocati in una base nel Sudan orientale: un altro ingrediente di una miscela esplosiva che minaccia di aprire un nuovo fronte nella guerra.

Alcuni sudanesi in esilio desiderano disperatamente che il mondo intervenga. Ma finora, dicono, ha solo peggiorato le cose. “È pura follia”, ha detto Ibrahim Elbadawi, ex ministro dell’economia che oggi vive al Cairo, chiedendo che intervenga una forza di pace dell’Onu.

“Il popolo del Sudan lo esige”, esorta. “Quando è troppo è troppo”. ◆ fdl

Guerra e fame

◆ “Il Sudan sta vivendo la più grande crisi della fame al mondo, ed è stata causata dagli esseri umani”, scrive l’esperto di relazioni internazionali Alex de Waal su Foreign Affairs. “Più della metà dei 45 milioni di sudanesi ha bisogno urgente di aiuti umanitari. A maggio le Nazioni Unite hanno lanciato l’allarme: 18 milioni di sudanesi soffrono la fame a livelli acuti, compresi 3,6 milioni di bambini gravemente malnutriti. La minaccia è maggiore nella regione occidentale del Darfur, dove i convogli umanitari non arrivano. Secondo alcune proiezioni, un quinto della popolazione del Sudan potrebbe morire di fame entro la fine dell’anno”.


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Questo articolo è uscito sul numero 1568 di Internazionale, a pagina 58. Compra questo numero | Abbonati