Siamo abituati a pensare che la disinformazione russa possa prendere di mira, per esempio, il presidente ucraino Volodymyr Zelenskyj o le elezioni negli Stati Uniti. Sempre più spesso però campagne diffamatorie di dubbia provenienza colpiscono anche le grandi aziende occidentali. Non c’è da stupirsene, visto che si tratta di obiettivi potenzialmente più redditizi. La società di comunicazione Kekst ha rivelato che, nella prima metà del 2023, tra le cento principali aziende quotate alla borsa di Londra (quelle seguite dall’indice Ftse-100) 95 sono state spesso citate da mezzi d’informazione inaffidabili. Si tratta di un aumento del 35 per cento rispetto al 2022. Gli articoli pubblicati da questi mezzi d’informazione sono stati condivisi 348mila volte sui social network, generando dieci milioni di visualizzazioni. Alcuni potrebbero essere stati suggeriti da concorrenti sleali, altri sono frutto di un giornalismo di scarsa qualità, mentre non è ancora chiaro se ci sia anche la mano di paesi ostili.

Oggi la disinformazione si estende ben oltre i semplici bot sul social network X. Secondo la Kekst più di cento mezzi d’informazione inaffidabili (tra cui una rivista spiritualista, alcune testate note per la diffusione di propaganda russa e riviste di estrema destra statunitensi e indiane) parlano regolarmente delle aziende dell’Ftse-100.

Cosa s’intende con “inaffidabile”? La Kekst definisce così i mezzi d’informazione che pubblicano regolarmente contenuti falsi, non raccolgono né presentano le informazioni in modo responsabile, non correggono né chiariscono gli errori, mescolano notizie e opinioni, usano titoli ingannevoli, non rendono note informazioni sulla proprietà e i finanziamenti, non indicano i contenuti pubblicitari e non rivelano il nome dei loro giornalisti. In un’epoca di credulità e di quantità di contenuti senza fine è facile pubblicare articoli apparentemente plausibili che riescono a farsi strada tra gli utenti dei social network interessati all’argomento e pronti a condividere con entusiasmo le loro scoperte. “Non abbiamo osservato direttamente questa tendenza, ma vediamo come l’uso della disinformazione sia sfruttato per imporre resoconti ostili e ottenere un vantaggio sui mercati”, ha spiegato Simon Bergman, amministratore delegato della società di marketing Saatchi World Service. “Questo è vero in particolare per le organizzazioni finanziate da uno stato o che agiscono al di fuori del normale sistema di regole”.

Vantaggio iniziale

Il lasso di tempo tra la pubblicazione di inesattezze e il momento in cui l’azienda interessata se ne accorge è cruciale. E visto che le fonti più sospette non sono rilevate dal monitoraggio dei mezzi d’informazione tradizionali è difficile che un’azienda sia in grado di individuare subito le notizie false. Questo offre a chi diffonde disinformazione un importante vantaggio iniziale: quando un’azienda scopre il problema, è probabile che lo facciano anche i mercati; e poiché gli operatori di borsa reagiscono rapidamente, la società presa di mira può veder crollare le sue azioni.

“Molte capiscono di essere state colpite solo quando è troppo tardi”, dice Bergman. “Un atteggiamento intelligente nella comunicazione aziendale può servire fino a un certo punto. Molto dipende da cosa si sta cercando di proteggere: il prezzo delle azioni, la reputazione, la percezione in una fetta importante di opinione pubblica”.

Certo, la disinformazione commerciale non è un fenomeno nuovo. Qualche anno fa un falso appunto del dipartimento della difesa statunitense sembrava indicare che il piano di un’importante azienda produttrice di semiconduttori di acquisire una concorrente facesse temere per la sicurezza nazionale. Le azioni di entrambe le aziende crollarono. Manovre simili erano di solito opera di un concorrente. In un rapporto del 2021 la società di consulenza Pwc aveva spiegato quanto fosse facile ed economico realizzare una campagna di questo tipo: tra i 15 e i 45 dollari per creare un articolo da mille battute; 65 dollari per contattare direttamente una fonte che diffondesse il materiale; cento dollari per avere dieci commenti da postare su un determinato articolo; tra i 350 e i 550 dollari al mese per attività di social media marketing; 1.500 dollari per servizi di ottimizzazione sui motori di ricerca in modo da promuovere i post sui social network e gli articoli per un periodo di dieci o quindici giorni.

Considerando la straordinaria facilità di queste operazioni, era solo una questione di tempo prima che testate legate a qualche governo scoprissero che prendere di mira le aziende è un modo facile per danneggiare i paesi occidentali. “Per la Russia può essere un obiettivo comodo”, ha detto Janis Sarts, direttore dello Strategic communications centre of excellence della Nato a Riga, in Lettonia. “Naturalmente ne soffrono le aziende, ma non è quello l’obiettivo principale”.

Non esistono ancora prove del fatto che dietro l’aumento delle campagne di disinformazione contro le aziende ci sia la Russia o un altro paese (anche se si sa che un governo ostile ha alimentato le false scoperte che collegano il 5g al covid-19, provocando timori tra gli abitanti dei paesi occidentali e rallentando la diffusione della tecnologia). Tuttavia la loro diffusione suggerisce che non si tratta più di un’attività legata solo a concorrenti invidiosi.

Un crollo azionario dovuto alla disinformazione non dura molto, perché l’azienda colpita sarà in grado di avvertire rapidamente i mercati. Ma anche un crollo temporaneo è dannoso. E pensiamo alle conseguenze per la posizione finanziaria di un paese se dovessero essere colpite simultaneamente diverse grandi aziende. La borsa vacillerebbe e i mercati globali comincerebbero a mettere in dubbio la stabilità finanziaria del paese. Non è un suggerimento ai paesi ostili su come danneggiare le economie occidentali senza spendere troppi soldi: conoscono già la ricetta segreta.

Le aziende occidentali dovrebbero capire che si trovano sulla linea del fronte. I loro uffici di comunicazione dovrebbero cominciare a leggere tutte le testate sconosciute in cui non sono riportati i nomi dei giornalisti e i dettagli sulla proprietà. O, come dice Bergman, dovrebbero “monitorare in modo intelligente il mondo dell’informazione, con buoni strumenti tecnologici e persone che sanno cosa e dove cercare”. ◆ gim

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Questo articolo è uscito sul numero 1544 di Internazionale, a pagina 94. Compra questo numero | Abbonati