Nell’autunno del 1802
il naturalista tedesco Alexander von Hum­boldt arrivò a Callao, il principale porto del Perù, poco a ovest di Lima. Humboldt aveva programmato la sua visita in modo da farla coincidere con un transito di Mercurio, che progettava di osservare con un telescopio lungo un metro per determinare la longitudine di quella che sarebbe poi diventata la capitale del Perù indipendente. Installò i suoi strumenti in cima a un fortino sul lungomare e poi, con qualche giorno da trascorrere prima dell’evento, si mise a bighellonare sulle banchine. Un fortissimo fetore proveniente da barche cariche di quella che sembrava argilla giallastra accese la sua curiosità. Dagli abitanti del posto Humboldt venne a sapere che si trattava di escrementi di uccelli delle vicine isole Chincha, e che erano molto apprezzati dagli agricoltori della zona. Così decise di riportarsene un po’ a casa.

Un nuovo dilemma

Quando gli esseri umani inventarono l’agricoltura, circa diecimila anni fa, si trovarono di fronte a un dilemma. Per crescere, i raccolti hanno bisogno di nutrienti, ma poi la mietitura li rimuove, e così il suolo resta impoverito e inadatto a future coltivazioni. I primi agricoltori aggirarono l’ostacolo lasciando alcuni campi a maggese, spargendo sul terreno feci animali, comprese le proprie, e piantando legumi, che hanno proprietà ristorative. Ma non avevano la più pallida idea del perché queste pratiche funzionassero. Ai tempi di Humboldt, invece, gli eruditi di Parigi e Londra stavano cominciando a capire di cosa esattamente avessero bisogno i raccolti. Un chimico prussiano analizzò parte dell’argilla che Humboldt aveva portato con sé dal Perù e scoprì che conteneva alte concentrazioni di due nutrienti essenziali: azoto e fosforo. Quel materiale offriva una risposta al secolare problema dell’impoverimento del suolo.

Le persone con sinestesia che hanno imparato l’alfabeto latino a scuola sono propense a vedere rossa la sua prima lettera, cioè la a

Gli indigeni del Perù raccoglievano il guano delle isole Chincha da secoli (il termine “guano” deriva dal quechua wanu.) Ma quando gli europei decisero di sfruttare le isole (tardarono qualche decennio a causa delle guerre napoleoniche e delle campagne di Simón Bolívar), il governo peruviano zittì con decisione tutte le rivendicazioni dei nativi. Nel 1840 accettò di concedere il monopolio ad alcuni mercanti europei, e nei quindici anni successivi più di un milione di tonnellate di guano partirono dal Perù alla volta del Regno Unito. L’ingrato compito di raccoglierlo era svolto per lo più da cinesi che lavoravano in condizioni di semischiavitù.

A metà degli anni quaranta dell’ottocento, anche gli agricoltori statunitensi avevano sviluppato un’autentica passione per il guano e il fatto che il loro paese non fosse riuscito ad assicurarsi un approvvigionamento costante li faceva infuriare. Nel 1850 il presidente Millard Fillmore decise di correggere la situazione e dichiarò che il guano era “diventato un bene così apprezzato” che Washington doveva usare “tutti i mezzi adeguati in suo possesso” per ottenerlo. Nella primavera del 1856 William Henry Seward, un senatore di New York, propose quello che sarebbe diventato il Guano islands act: il progetto di legge, approvato quello stesso anno, incaricava i cittadini statunitensi di rivendicare per il loro paese qualunque “isola, roccia o scogliera” coperta di cacca “che non rientri nella legittima giurisdizione di un altro governo”. Seguì una corsa per accaparrarsi alcune delle più remote terre emerse del pianeta. Nel giro di tre anni gli Stati Uniti avanzavano diritti su quasi cinquanta isole, comprese quelle dell’atollo di Midway, nel nord del Pacifico. Il Baltimore American and Commercial Advertiser descrisse queste isole come “una nuova Eldorado” e dichiarò che, anche se non possedevano vero e proprio oro, avrebbero ricoperto “i campi incolti di questo paese con grano dorato”.

Le esportazioni di guano dal Perù raggiunsero il picco nel 1870. Poi crollarono. Gli escrementi esportati nelle fattorie europee rappresentavano la produzione di milioni di uccelli accumulata in centinaia di generazioni. Una volta imbarcata e spedita all’estero, gli uccelli rimasti – che spesso avevano visto distruggere le loro zone di nidificazione – non riuscivano a defecare abbastanza rapidamente da soddisfare la domanda. Gli Stati Uniti persero interesse per le isole deguanificate. Molte alla fine furono cedute ad altri paesi, e solo una manciata, come le Midway, sono ancora possedimenti statunitensi.

Ma la fine del boom si rivelò l’inizio di qualcosa di molto più grosso. I chimici individuarono altri depositi di azoto e fosforo che rimpiazzarono il guano. Quando queste fonti furono a loro volta esaurite, ne furono scoperte o, nel caso dell’azoto, inventate altre. Gli agricoltori oggi possono acquistare fertilizzanti con la stessa facilità con cui comprarono semi o aratri. Il risultato è un mondo che affoga nei nutrienti. Ma questo ha creato un nuovo dilemma: come alimentare il pianeta senza avvelenarlo?

Il più lungo nastro trasportatore del mondo parte dalla città di Bou Craa e corre per più di cento chilometri attraverso il Sahara Occidentale fino alla città portuale di El Marsa, in Algeria. La regione è così piatta e desolata che il nastro è visibile addirittura dallo spazio. Secondo la Nasa, “ha attirato spesso l’attenzione degli astronauti in un paesaggio quasi totalmente privo di peculiarità”. Il nastro trasporta rocce ricche di fosforo estratte a Bou Craa e poi inviate dalla costa in luoghi come l’India e la Nuova Zelanda, dove sono trasformate in fertilizzanti. La miniera, e di fatto gran parte del Sahara Occidentale, sono controllate – a detta di molti illegalmente – dal Marocco, che possiede circa il 75 per cento delle riserve di fosforo conosciute del pianeta.

Miniere di fosfato nel Sahara, Marocco (Peter Turnley, Corbis/Vcg/Getty)

Lo status del Sahara Occidentale è una delle preoccupazioni che Dan Egan affronta nel suo libro The devil’s element: phosphorous and a world out of balance (L’elemento del diavolo: il fosforo e un mondo squilibrato). Egan è un giornalista che per molti anni si è occupato dei Grandi laghi per il Milwaukee Journal Sentinel. Sembra siano state le condizioni del lago Erie a fargli scoprire, in maniera indiretta, visto che nel mondo moderno tutto è collegato, la storia di Bou Craa. Egan cita Jeremy Grantham, l’investitore britannico secondo cui la morsa del Marocco sul fosforo “fa apparire l’Opec e l’Arabia Saudita degli insignificanti speculatori”. Cita anche Isaac Asimov, che una volta scrisse: “La vita può moltiplicarsi finché tutto il fosforo non sarà finito e a quel punto arriverà un arresto inesorabile che niente può scongiurare”.

Come osserva Egan, il fosforo è essenziale non solo per la resa dei raccolti, ma anche per la biologia di base. Il dna è tenuto insieme da quella che spesso è chiamata “una spina dorsale di fosfato” (fosforo più ossigeno); senza questa spina dorsale la doppia elica sarebbe un guazzabuglio. Il composto Atp fornisce alle cellule l’energia necessaria per svolgere tutte le loro funzioni, dal trasporto di ioni alla sintesi delle proteine; la P dell’acronimo significa “fosfato”. Nei vertebrati, le ossa sono fatte per lo più di fosfato di calcio, come lo smalto dei denti. Ciò che distingue il fosforo da altri elementi essenziali per la vita – il carbonio, poniamo, o l’azoto – è la sua relativa scarsità. L’atmosfera non ne contiene quasi per niente, e le rocce ricche di fosfato esistono solo in quantità limitate in certe formazioni geologiche. La Cina detiene la seconda riserva più grande del mondo – meno di un decimo di quella del Marocco – e l’Algeria la terza.

Dai primi anni sessanta del secolo scorso e dall’inizio della rivoluzione verde, il consumo globale di fertilizzanti al fosforo è più che quadruplicato. Quanto dureranno le riserve mondiali, considerando questa tendenza, è una questione dibattuta. Con la continua crescita della popolazione del pianeta – che ha recentemente raggiunto gli otto miliardi e si prevede arrivi a nove miliardi tra quindici anni – sempre più persone dovranno essere sfamate. Allo stesso tempo, man mano che viene estratto il minerale, probabilmente occorrerà lavorare molta più roccia solo per mantenere stabile la produzione di fertilizzanti. Alcuni ricercatori sostengono che “il picco del fosforo” (il punto di produzione massima oltre il quale il fosforo estratto può solo diminuire) potrebbe essere raggiunto entro il prossimo decennio. Altri ritengono che la cornice temporale sia piuttosto di secoli.

Per alimentarsi gli Stati Uniti dovranno dipendere da altri paesi

Egan non crede che il mondo resterà a corto di fosforo nel prossimo futuro, però è convinto che gli Stati Uniti siano “particolarmente vulnerabili”. Il paese sta rapidamente divorando le sue riserve interne, già di per sé non così rilevanti (gran parte del fosforo si trova nella Florida centrale, una regione dove l’attività mineraria deve competere con la costruzione di complessi residenziali). Quando queste riserve saranno esaurite, potenzialmente entro i prossimi trent’anni, per alimentarsi gli Stati Uniti dovranno dipendere da altri paesi, in particolare dal Marocco. È una situazione che sembra andare benissimo a Rabat. Il Marocco s’impadronì di vaste aree del Sahara Occidentale nel 1975, quando la Spagna, che aveva governato la regione per circa un secolo, rinunciò a controllarla. L’invasione, scrive Egan, fu soprattutto “una mossa commerciale”. Il Marocco aveva enormi miniere di fosforo, e non voleva la concorrenza di Bou Craa. Decine di migliaia di abitanti di quei territori fuggirono; la maggior parte riparò in Algeria, dove i figli e i figli dei figli vivono ancora nei campi profughi. Nel novembre 2020 il Fronte Polisario, un gruppo che combatte per l’indipendenza del Sahara Occidentale, dichiarava di voler mettere fine al cessate il fuoco negoziato dalle Nazioni Unite. Un mese dopo Donald Trump, in uno dei suoi ultimi atti da presidente, annunciava che gli Stati Uniti avrebbero riconosciuto la sovranità del Marocco sulla regione. La decisione è stata criticata come una violazione del diritto internazionale, e molti funzionari statunitensi hanno chiesto al successore di Trump, Joe Biden, di annullarla. Ma per ora non l’ha fatto.

Un fosco presagio

Il 1 settembre 2018 un ragazzo di nome Abraham Duarte è stato fermato per eccesso di velocità nella città di Cape Coral, nella Florida sudoccidentale. È saltato fuori dall’auto ed è scappato. Davanti a lui c’erano alcuni condomini che si affacciavano su un canale. Duarte ha corso intorno ai palazzi e si è gettato in acqua. Quando la polizia l’ha raggiunto, Duarte aveva grosse difficoltà a nuotare. “Aiuto!”, ha gridato. “Muoio!”. Uno dei poliziotti è sembrato comprensivo. “Devi uscire da quella roba,” gli ha detto. “Sul serio, potrebbe ucciderti.” Duarte ha raggiunto a fatica la riva, attraversando un banco di fanghiglia verde così densa che l’acqua pareva solida. Ha cominciato ad avere conati di vomito. I poliziotti lo hanno tirato fuori e lo hanno ammanettato. Tra le tante azioni sconsiderate di quel giorno, Duarte si era tuffato in una fioritura di alghe tossiche. Le immagini dell’incidente diffuse dal dipartimento di polizia di Cape Coral sono diventate virali. Ma la storia, che Egan racconta in dettaglio nel suo libro, è “più di un meme”, afferma. “È un fosco presagio”.

In un’azienda agricola, l’uso del fosforo fa aumentare la resa dei raccolti. Ma il minerale favorisce la crescita delle piante anche quando raggiunge laghi, torrenti e canali. Purtroppo, gli organismi acquatici che tendono a svilupparsi di più sono quelli che nessuno vorrebbe vedersi intorno. E così il problema del fosforo ha due facce: da un lato la penuria e dall’altro l’eccesso. In una fioritura di alghe tossiche, minuscoli organismi fotosintetici si riproducono in modo esplosivo e poi rilasciano sostanze chimiche che, oltre alla nausea, possono provocare danni al cervello e al fegato. E quando le alghe muoiono in massa si scatena un nuovo inferno: la loro decomposizione succhia l’ossigeno dall’acqua creando zone morte dove quasi niente riesce a sopravvivere.

Al centro del problema dell’eccesso di fosforo in Florida si trova il lago Okeechobee, che riceve fino a mille tonnellate di fosforo all’anno – circa dieci volte quello che, secondo i biologi, è in grado di assorbire – soprattutto dai deflussi agricoli. Nell’estate del 2018, più o meno nel periodo del tuffo di Duarte, il 90 per cento della superficie dell’Okeechobee era coperta di fanghiglia tossica. L’acqua del lago, attraverso i fiumi Caloosahatchee e St. Lucie, ha fatto ammalare tanta di quella gente che il governatore della Florida, Rick Scott, ha dichiarato lo stato d’emergenza. Quell’estate Egan ha visitato la zona sperando di poter fare un viaggio in barca lungo il Caloosahatchee, ma la sua guida, l’ecologo John Cassani, si è rifiutato di accompagnarlo perché era troppo pericoloso. “È un casino totale”, gli ha detto.

Le fioriture di alghe nocive affliggono anche il lago Erie. Per lo più interferiscono con la pesca e il turismo – una fanghiglia densa e fetida non è certo un’attrattiva per i visitatori –, ma nel 2014 parte delle tossine è finita nella rete idrica pubblica di Toledo, nell’Ohio. La città è stata costretta a vietare ai 400mila abitanti della zona di bere l’acqua, e il governatore, John Kasich, ha attivato la guardia nazionale.

Il 60 per cento del fosforo che espelliamo è contenuto nella nostra pipì

I problemi del lago Erie hanno origine dagli allevamenti intensivi che costellano lo spartiacque del fiume Maumee, nell’Ohio nordoccidentale. In questi allevamenti milioni di mucche e maiali passano il tempo trasformando soia e granturco fertilizzati con il fosforo in letame carico di fosforo, che in gran parte fuoriesce dagli allevamenti e finisce nell’acqua. Per citare Egan, il Maumee attualmente funziona “come una siringa” che pompa migliaia di tonnellate di fosforo all’anno nelle propaggini occidentali del lago Erie.

Tra gli altri bacini che negli ultimi tempi hanno conosciuto fioriture di alghe nocive ci sono il lago Superiore, il Champlain, il Tahoe, il Winnebago e il Seneca. Di fatto, scrive Egan, “oggi una mappa dei laghi e dei fiumi statunitensi che soffrono di improvvise esplosioni di alghe verde-blu assomiglia, beh, a una mappa degli Stati Uniti”. E la situazione non è molto migliore altrove. Qualche anno fa i ricercatori di Stanford e della Nasa hanno analizzato trent’anni di immagini satellitari per valutare le condizioni di una settantina di grandi laghi in tutto il mondo, compreso il Bajkal, il Nicaragua e il Vittoria. Hanno riscontrato che in questi bacini “l’intensità massima della fioritura estiva” era aumentata di due terzi.

Nel frattempo, si stanno espandendo anche le zone morte negli oceani. Queste zone (ogni estate se ne forma una di grandi dimensioni nel golfo del Messico) sono a loro volta prodotte da nutrienti finiti in acqua. Gli scienziati avvertono che il problema potrà solo peggiorare, visto che i carichi di nutrienti continuano a crescere e la temperatura degli oceani aumenta (e l’acqua calda contiene meno ossigeno di quella fredda).Tre ricercatori britannici hanno ipotizzato che “se i nostri discendenti saranno insensibili” al problema, gli esseri umani potrebbero produrre “un’anossia globale duratura e su larga scala” – vale a dire una zona morta marina ampia quanto il pianeta. Secondo Stephen Porder, professore di ecologia alla Brown University e autore di Elemental: how five elements changed Earth’s past and will shape our future (Elementare: come cinque elementi hanno cambiato il passato della Terra e determineranno il nostro futuro), in uscita per la Princeton University Press, le conseguenze sarebbero così catastrofiche da essere inimmaginabili.

Qualche tempo fa, ho caricato una tanica di urina nel bagagliaio della macchina e sono partita – con prudenza – per Brattleboro, in Vermont. Parte della pipì era mia, il resto di mio marito. A Brattleboro, ho superato la stazione di trasferenza rifiuti della contea e mi sono fermata davanti a un lungo edificio basso simile a un capannone che ospita il Rich Earth institute. L’obiettivo dell’istituto è “un mondo con acqua pulita e un suolo fertile ottenuto recuperando i nutrienti dal nostro corpo”, e per questo promuove una pratica nota come separazione dell’urina o, per usare un termine più orecchiabile, pipiciclo. Quando sono arrivata, ho chiesto di usare il bagno. Arthur Davis, che dirige il Programma di recupero dei nutrienti dell’urina di Rich Earth, mi ha spiegato che la toilette era dotata di quattro tipi di tazze per separare l’urina. “Abbiamo un’ampia scelta”, ha detto. “Accomodati”.

Anche le persone, come gli animali da allevamento, espellono fosforo. Ogni anno, miliardi di chili di fosforo entrano nell’intestino collettivo dell’umanità. La maggior parte ne esce sotto forma di urina. “Il 60 per cento circa del fosforo che espelliamo è contenuto nella nostra pipì”, mi ha detto Davis. Il Rich Earth Institute ha arruolato volontari in tutta Brattleboro, che consegnano le loro donazioni in depositi appositamente progettati o, in alcuni casi, pagano perché la loro pipì sia ritirata a domicilio. Dopo essere stata pastorizzata, l’urina viene distribuita agli agricoltori locali. Il pipiciclo può ridurre il quantitativo di fertilizzante tradizionale acquistato dagli agricoltori (l’urina contiene non solo fosforo ma anche grandi quantità di azoto e potassio). Allo stesso tempo, evita che i nutrienti finiscano nel sistema fognario e quindi, si spera, nei corsi d’acqua del Vermont. “Non esiste un ‘via per sempre’ quando si tratta di nutrienti”, dice Davis. “Li mettiamo comunque da qualche parte. Perciò possiamo scegliere di creare sistemi in cui siano riciclati in modo utile, oppure finiranno nel lago Champlain e causeranno tutti quei problemi”.

Davis ha organizzato un incontro con un paio di volontari nella città di Rockingham, poco a nord di Brattleboro. Prende un contenitore che è appoggiato sotto una delle tazze per separare l’urina, io ci verso la pipì che ho portato da casa e ci mettiamo in marcia. I pipiciclatori, Laurel Green e Steve Crofter, ci aspettano al deposito di Rockingham, insieme a qualche tanica della loro produzione. “Pratico quello che piscio”, dice Green quando le chiedo perché partecipa all’attività dell’istituto. Un cartello fuori dal deposito dice: “Aiutaci a far sì che questo programma defluisca con successo”. Crofter infila un tubo collegato a una pompa nelle sue taniche e in quelle di Green, che si svuotano rapidamente. Davis spiega che la pipì viene aspirata in un serbatoio. Quando è pieno, l’istituto porta via il contenuto. Il Rich Earth institute lavora annualmente circa 50mila litri di urina, che è veramente un sacco di pipì da portare in giro e, allo stesso tempo, appena un goccio nel proverbiale mare. In un anno, gli abitanti della città di New York producono circa 4,5 miliardi di litri di pipì; quelli di Shanghai quasi 14.

Nel capitolo finale di The devil’s element, Egan cerca i possibili modi per affrontare le due facce della questione fosforo. Il pipiciclo ha via libera, e così le tecniche per estrarre il fosforo dalle acque reflue che passano negli impianti di depurazione. Anche il letame, sostiene Egan, potrebbe essere raccolto in modo più efficace per i suoi nutrienti, così avremmo meno fosforo nei laghi e nei fiumi e più fosforo per le coltivazioni dell’anno successivo. “I potenziali benefici di una migliore gestione del letame sono sbalorditivi”, scrive. A un certo punto, Egan consulta Jim Elser, professore di ecologia dell’Università del Montana e direttore del gruppo Sustainable phosphorous alliance (Alleanza per il fosforo sostenibile). Elser gli dice che se tutto il letame del pianeta fosse riciclato – bovini, maiali e polli ne producono circa quattro miliardi di tonnellate all’anno – la domanda di fosforo estratto dalla roccia si potrebbe dimezzare. Ovviamente, anche nello scenario migliore il problema sarebbe risolto solo a metà.

Anche Elser ha scritto un libro, Phosphorus: past and future (Oxford University Press 2020), insieme a un pedologo britannico, Phil Haygarth. Parlando dell’espansione delle zone morte e del rischio di anossia degli oceani, i due ricercatori hanno coniato il termine fosfogeddon, un’apocalisse del fosforo. Per affrontare seriamente il problema, dicono, non basterà riciclare i nutrienti, ma occorrerà trasformare l’agricoltura globale da cima a fondo. Volendo guardare al lato positivo, Elser e Haygarth hanno molte idee su come farlo. Le varietà di raccolti che hanno alimentato la rivoluzione verde tendono a richiedere molti “input”, ma si potrebbero creare nuove varietà che usano il fosforo con maggiore efficienza, almeno in teoria. Negli Stati Uniti circa il 10 per cento di tutti i fertilizzanti è usato per il mais da convertire in biocombustibile. In termini di emissioni di anidride carbonica, i biocombustibili basati sul mais sono probabilmente peggiori della benzina: sbarazzarsene sarebbe quindi un grande beneficio sia per il clima sia per i corsi d’acqua. Globalmente, si calcola che un terzo di tutto il cibo venga gettato via. Ridurre lo spreco alimentare significherebbe ridurre il bisogno di fosforo nelle stesse proporzioni.

Costi a lungo termine

“È chiaro che non esiste una bacchetta magica, una ‘pallottola d’argento’”, osservano Elser e Haygarth. “Occorrerà una ‘mitragliata d’argento’ per centrare tutti i bersagli”. Quanto è probabile che il mondo si mobiliti in tempo per questa mitragliata? “Non vogliamo indorare la pillola”, scrivono Elser e Haygarth. “Molti di quelli che si occupano di qualità dell’acqua e gestione del fosforo pensano che ci stiamo dirigendo verso l’apocalisse del fosforo. Siamo rassegnati al fatto che i nostri figli e nipoti ne pagheranno le conseguenze”.

Quando Humboldt trasportò il suo sacco di escrementi in Europa, probabilmente non aveva idea di cosa sarebbe successo: la distruzione delle isole del guano, il nastro trasportatore di Bou Craa, la guerra nel Sahara Occidentale, le zone morte nell’acqua e, potenzialmente, il fosfogeddon. Questo è il rischio che comportano le innovazioni. Le soluzioni a breve termine spesso hanno costi a lungo termine. Ma quando i costi sono evidenti è già troppo tardi per invertire la rotta. In questo senso, il problema del mondo con il fosforo somiglia a quello dell’anidride carbonica, della plastica, dell’uso delle falde acquifere, dell’erosione del suolo e dell’azoto. La strada imboccata dall’umanità può condurci alla rovina, e per ora nessuno ha trovato una retromarcia che funzioni. ◆ gc

Da sapere
Nelle mani del Marocco
Principali riserve di fosfati nel mondo, miliardi di tonnellate, 2019 (Fonte: Blackwell et al./The Guardian)

Elizabeth Kolbert è una giornalista statunitense che ha vinto il premio Pulitzer nel 2015. Il suo ultimo libro è Sotto un cielo bianco bianco. La natura del futuro (Einaudi 2022).

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Questo articolo è uscito sul numero 1519 di Internazionale, a pagina 58. Compra questo numero | Abbonati