Il belga Ben Gijsemans fa un uso sottile della specificità della tavola a fumetti che consente al lettore una visione immediata e globale di una sequenza: ogni gesto o microevento personale o familiare cattura la sua attenzione, incollandolo ad analizzare ogni battito d’ali di una quotidianità apparentemente immobile. Aaron è un ventenne attraente e gentile ma timido, che vive con i genitori e sta completando gli studi. Nulla smuove la palude in cui vive, tranne la raccolta di fumetti di supereroi trash, che leggiamo a sprazzi. Al contempo, Gijsemans si rifa al segno grafico di Winsor McCay. All’inizio del novecento l’autore di Little Nemo creò Dream of a rarebit fiend, dove metteva alla berlina le ossessioni e le paure borghesi con modalità surrealiste, alla Buñuel prima del tempo, giocando sull’espressività dei volti e sul minimalismo dei movimenti insieme alla sottolineatura della ripetitività di gesti e situazioni, grazie al lavoro sulla sequenza nell’architettura della tavola. Il metafumetto è qui strumento d’interpretazione della realtà: Aaron è attratto, affascinato, intenerito, da un bambino che vede giocare e che diventa un’ossessione. E la sua condizione esistenziale, un inferno. Cosa fare? Quanto vuoto, quanto non detto, è espresso negli interstizi di questi superquadri, divisi per frammenti com’ è frammentato l’uomo postmoderno. Tutto è davvero grigio, ma molto intenso e umano.

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Questo articolo è uscito sul numero 1533 di Internazionale, a pagina 86. Compra questo numero | Abbonati