La sapiente leggerezza con cui Alessandro Bilotta avvolge le sue narrazioni maschera l’angosciata domanda esistenziale e metafisica che si tinge spesso di una dimensione surreale, prossima all’assurdo. Come nella sua serie-capolavoro Mercurio Loi, ambientata nella Roma papalina dei moti carbonari, o come qui, dove tutto si fa pop con in più il gusto rétro inscindibile da una sorta di psichedelia. Il tutto acuito dall’eleganza compositiva e dal notevole senso dello spazio dei disegni di Francesco Ripoli. Come negli altri episodi (non sequenziali) potremmo essere in un arco di tempo che va dalla dolce vita degli anni sessanta al mondo di oggi, passando per il riflusso degli anni ottanta. Una Roma da universo parallelo. La logica è trash, anche se lucente, l’Italietta è più che mai vacua e l’arte oltre il ridicolo, come in fondo esprime il titolo del capitolo, pomposamente altisonante: La vita appesa ai chiodi delle opere immortali. Dopo la Merda d’artista, ecco lo stupro d’artista. Ma nel carosello continuo di aperitivi l’infelicità cova, in particolare nello stupratore, abominio delle caverne che pare la caricatura di un Ligabue. Ma non cova nell’algido e anaffettivo protagonista, il paparazzo Alceste Santacroce. Scivolare sulla notizia come sulla vita, è il suo modo per non interrogarsi sul senso profondo delle cose. L’immaturità perenne è tutt’uno con un allegro (o cupo) cinismo. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1539 di Internazionale, a pagina 91. Compra questo numero | Abbonati