Si parla spesso dell’animalità altrui, ma molto poco della propria, come ha fatto invece magistralmente Felice Cimatti nel libro Filosofia dell’animalità (Laterza 2013). Per capire di cosa stiamo parlando, abbandoniamo la filosofia e spostiamoci nel mondo reale: cosa può significare per l’essere umano riprendere possesso della propria animalità, cioè di quella che Friedrich Nietzsche chiamava volontà di potenza? Da un po’ di tempo a Milano si svolge una volta al mese in una discoteca diversa una serata che si chiama Buka. Oltre ad assistere a una serie di meravigliose performance, si può spesso fare esperienza della dark room e davanti all’ingresso c’è sempre una lunga fila di ragazzi e ragazze in attesa di entrare. Una volta dentro, si colgono in un secondo tutti i limiti e le contraddizioni della nostra società proibizionista nei confronti dell’animalità: nella stanza buia le persone possono liberare il loro corpo da qualunque costruzione umana (con un’attenzione particolare alla sessualità). Essersi dimenticati di essere animali ha una strana conseguenza: da un lato, sembra essersi sviluppato una specie di iperumanismo, per cui non si può più dire o fare niente che non sia ascrivibile a un archetipico umano perfetto; dall’altro, le nostre vite sono attraversate da ogni genere di guerra e perversione. Forse, che lo si voglia o no, c’è più verità nel bisogno di animalità (anche se mal gestito) espresso nelle stanze oscure delle discoteche che nei libri di educazione civica. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1539 di Internazionale, a pagina 98. Compra questo numero | Abbonati