Secondo le statistiche del governo di Nairobi nel 2022 ottantamila keniani e keniane sono andate a lavorare nei paesi del golfo Persico e del Medio Oriente. Per farlo hanno pagato tariffe che vanno dai 300 a 1.200 dollari statunitensi ad agenzie di reclutamento più o meno legali. Questo significa che hanno speso complessivamente almeno 24 milioni di dollari. Una volta impiegati nel Golfo, i lavoratori mandano a casa una parte dei loro guadagni. Nei primi otto mesi del 2022 le loro rimesse dall’Arabia Saudita hanno portato all’economia keniana 187 milioni di dollari. Nello stesso anno le rimesse totali della diaspora keniana hanno superato i quattro miliardi di dollari.

Percezione negativa

Si stima che attualmente fino a trecentomila cittadini keniani lavorino negli stati del Golfo con contratti temporanei: le donne sono impiegate come collaboratrici domestiche o addette alle pulizie; gli uomini come facchini, autisti, guardie di sicurezza e muratori. Non si sa quanti di loro lavorino in condizioni di schiavitù né quanti subiscano (soprattutto nel caso delle donne che lavorano in famiglia) percosse o stupri, ma da quanto emerge dal passaparola in Kenya, i datori di lavoro del Golfo sono ampiamente considerati razzisti e violenti. Alcune organizzazioni hanno anche denunciato la “svendita” delle collaboratrici a famiglie con un reddito più basso e che spesso “hanno una percezione più negativa delle persone nere”, cosa che si traduce in abusi più frequenti nei confronti delle lavoratrici.

Tra il 2019 e il 2021 sono stati rimpatriati dai paesi del Golfo 89 corpi di lavoratori keniani. Secondo i datori di lavoro erano morti per arresto cardiaco, suicidio o “nel sonno”. I gruppi della società civile keniana accusano il governo di non fare abbastanza per i loro concittadini. Chiedono inoltre controlli più severi sulle agenzie che “truffano la gente”.

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Questo articolo è uscito sul numero 1539 di Internazionale, a pagina 54. Compra questo numero | Abbonati