Sono giorni in cui si rischia di scivolare in facili dicotomie tra la memoria del passato e quella del presente: quando l’esercizio della violenza ci spaventa, ha poco senso stabilire se questa paura ci fa più male nella storia che non abbiamo vissuto o in quella che avviene in presa diretta. Mentre ci siamo, mentre abbiamo la possibilità di dire e fare, mentre guardiamo e non guardiamo. Le guerre, le cariche della polizia, la repressione del dissenso, l’aumento insidioso di una censura non imposta da nessuno ma che coltiviamo anche da soli, perché c’è un punto di flessione in cui rischia di diventare più comodo ed elegante fare così.

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Non c’è vera dicotomia tra queste memorie, ma quanto succede oggi richiede necessariamente più intervento, più decisione, più coraggio e più risposte: nella storia che non abbiamo vissuto siamo tutti più nobili. Sul fronte musicale delle cose, senza volerlo piegare all’attualità, c’è un disco materico e sincero che ci sposta nell’ancestrale e ci richiama con forza al disfacimento presente: Saracena di Cesare Basile (Viceversa Records). L’artista catanese sceglie dove dirigere l’ascolto con molta personalità e convinzione, e già di per sé è un gesto artistico bello. Va verso la lingua perduta impastata con quella di arrivo, in questo caso il dialetto siciliano, in otto brani cantati e strumentali che scorrono come un flusso continuo (passato e presente), in cui la Nakba inferta al popolo palestinese si nomina attraverso il suono, il peso e la concretezza degli oggetti che rimangono nelle case rotte. Un album sicuro, poetico. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1560 di Internazionale, a pagina 86. Compra questo numero | Abbonati