Poche settimane prima che la Russia invadesse l’Ucraina, il primo ministro ungherese Viktor Orbán aveva incontrato il presidente russo Vladimir Putin a Mosca. Mentre i colloqui di Putin con i leader occidentali erano stati tesi e conflittuali, l’atmosfera in questo caso era stata quasi gioviale. Il governo di Orbán, accusato di mettere a rischio la democrazia e lo stato di diritto nel suo paese, era nel pieno di uno scontro con il resto dell’Unione europea. “Sono tempi difficili, ma siamo in ottima compagnia”, ha dichiarato Orbán nella conferenza stampa congiunta, strappando una risata a Putin. L’ungherese, che è il leader europeo in carica da più tempo, si era vantato dei suoi numerosi incontri con Putin. “E non ho intenzione di andarmene”, ha aggiunto ridacchiando. “Confido che potremo lavorare insieme ancora molti anni”.

La previsione di Orbán è stata confermata il 3 aprile. Il partito Fidesz, da lui guidato, ha vinto le elezioni e ha raccolto i benefici di un sistema elettorale e dell’informazione ormai così profondamente sbilanciato a favore di Orbán che il centro studi statunitense Freedom house considera l’Ungheria un paese “parzialmente libero”. Il voto ungherese e il dominio esercitato da Orbán ci ricordano che lo stile politico dell’uomo forte – strettamente associato a Putin – ha seguaci in tutto il mondo, anche nelle democrazie consolidate dell’occidente.

Il presidente russo Vladimir Putin, a sinistra del tavolo, e il premier ungherese Viktor Orbán, a destra, a Budapest, in Ungheria, il 30 ottobre 2019. (Kremlin Press Office/Anadolu Agency/Getty Images)

Dal 2000 l’ascesa dei leader autoritari è diventata una caratteristica fondamentale della politica mondiale. In capitali come Mosca, Pechino, Delhi, Ankara, Budapest, Manila, Washington, Riyadh e Brasilia, sono andati al potere sedicenti “uomini forti” (finora tutti uomini, per l’appunto).

Di solito sono nazionalisti e conservatori, e mostrano scarsa tolleranza per le minoranze, il dissenso o gli interessi degli stranieri. In patria sostengono di difendere i comuni cittadini dalle élite “globalizzate”. All’estero si atteggiano a incarnazione delle loro nazioni. E, ovunque vadano, incoraggiano il culto della personalità. Ci si chiede se la catastrofe dell’invasione russa dell’Ucraina possa screditare definitivamente lo stile politico autoritario. Ma questa speranza va bilanciata con la consapevolezza che tale tendenza si è radicata profondamente negli ultimi vent’anni. L’epoca dell’uomo forte è cominciata il 31 dicembre 1999, quando Vladimir Putin è diventato presidente della Russia. Il fatto che abbia preso il potere all’inizio del ventunesimo secolo è estremamente simbolico: Putin è diventato l’archetipo di un nuovo modello di politica mondiale. Nell’arco di vent’anni il leader russo è stato d’ispirazione a una generazione di leader autoritari che ammiravano il suo nazionalismo, la sua audacia, la sua retorica violenta e il suo disprezzo del “politicamente corretto”.

Nel 2003 Recep Tayyip Erdoğan era primo ministro della Turchia (oggi è presidente). L’ho incontrato per la prima volta l’anno dopo, a una conferenza stampa a Bruxelles, in Belgio, dove si trovava per sostenere l’ingresso del suo paese nell’Unione europea. Alla domanda se fosse preoccupato da chi si opponeva al piano, ha dato una risposta che ben si adattava alle sensibilità progressiste occidentali: “Se l’Unione europea ha deciso di essere un club cristiano piuttosto che uno fondato su valori condivisi è meglio che lo dica subito”.

Diciott’anni dopo l’idea che Erdoğan condivida un insieme di valori progressisti con l’Europa risulta assurda sia in Turchia sia a Bruxelles. Con il passare del tempo il presidente turco ha adottato una retorica sempre più autoritaria e violentemente antioccidentale. Ha incarcerato giornalisti e oppositori politici, e oggi amministra il suo paese da un nuovo enorme palazzo presidenziale costruito per lui ad Ankara.

Rassicuranti solo a parole

La stessa disillusione l’ha provocata la traiettoria politica del presidente cinese Xi Jinping. Quando l’ho incontrato nella Grande sala del popolo a Pechino nel 2013, il suo messaggio al piccolo gruppo di visitatori occidentali è stato volutamente rassicurante. Parlando con calma, davanti a un dipinto della Grande muraglia, Xi ha proclamato: “Il ragionamento in base al quale i paesi forti cercano sempre di ottenere l’egemonia non si applica alla Cina”.

Ma, nel giro di un anno, Pechino ha cominciato a costruire basi militari nelle acque contese del mar Cinese meridionale. In patria Xi ha incoraggiato il culto della personalità di Xi dada, lo zio Xi, al posto di un modello di guida collettiva. La svolta verso l’autoritarismo si è consolidata con l’abolizione dei limiti ai mandati presidenziali nel 2018, che potenzialmente gli permetterebbe di governare a vita.

Il rifiuto di lasciare il potere è una costante dello stile politico degli uomini forti. Putin ed Erdoğan hanno cambiato la costituzione dei loro paesi pur di restare al comando. L’ex presidente statunitense Donald Trump ha “scherzato” più volte sul fatto che anche gli Stati Uniti avrebbero dovuto cambiare la costituzione per permettergli di governare oltre i due mandati. Il suo rifiuto di accettare il risultato delle elezioni è all’origine dell’assalto al Campidoglio compiuto dai suoi sostenitori il 6 gennaio 2021.

Museo del Partito comunista cinese, Pechino, 16 dicembre 2021 (Andrea Verdelli, Getty Images)

Gli autocrati al potere hanno bisogno di essere considerati indispensabili. Il loro obiettivo è convincere i cittadini che solo loro possono salvare la nazione. La distinzione tra lo stato e il leader scompare progressivamente, facendo così sembrare inconcepibile la sostituzione dell’uomo forte con un comune mortale.

Su tutti i manifesti

Anche l’India ha preso questa strada nel 2014, quando Narendra Modi, leader del partito nazionalista indù Bharatiya janata party (Bjp), è stato eletto primo ministro. Come Putin, Modi ha coltivato un’immagine virile, vantandosi delle dimensioni del suo torace e minacciando di usare la violenza contro i nemici dell’India. Durante la campagna elettorale del 2019, alla fine della quale è stato rieletto, ha assicurato agli elettori che “quando votate il loto, non state semplicemente schiacciando un pulsante su una macchina elettorale, ma premendo un grilletto contro i terroristi”. Il loto è il simbolo del Bjp. I sostenitori di Modi non accettano le critiche a questo tipo di retorica: secondo loro sono frutto dell’eccessiva preoccupazione dei progressisti. Una volta Subrahmanyam Jaishankar, ministro degli esteri indiano, mi ha detto con fermezza che chi critica Modi, in patria e all’estero, non capisce la profondità del suo rapporto con gli indiani che vivono fuori da New Delhi.

Come Xi, Putin ed Erdoğan, anche Modi ha incoraggiato il culto della personalità. Le campagne elettorali del Bjp si sono incentrate su slogan che attribuiscono saggezza, forza e fermezza morale al leader. Secondo Ramachandra Guha, un importante storico indiano, “dal maggio 2014 le grandi risorse dello stato sono state usate per fare in modo che ogni programma, ogni pubblicità, ogni manifesto avesse il volto del primo ministro. Modi è l’India, l’India è Modi”.

Un tempo si pensava che questo stile politico non appartenesse alle democrazie occidentali. Ma l’uomo forte ha trionfato anche negli Stati Uniti con l’elezione di Trump, che aveva parlato di “carneficina statunitense” (a proposito della povertà e della violenza diffuse nelle città del paese), proclamando alla convention del Partito repubblicano nel 2016 che solo lui era in grado di aggiustare le cose: “Only I can fix it”.

Grazie al potere economico e culturale unico di cui godono gli Stati Uniti, l’ascesa di Trump è riuscita a cambiare l’atmosfera politica mondiale, rafforzando e legittimando lo stile autoritario e dando origine a un’ondata di imitatori. Lo stesso Trump ammirava gli altri autocrati al comando e apprezzava la loro compagnia. Prima di un vertice con il leader nordcoreano Kim Jong-un, uno stretto collaboratore di Trump mi aveva confidato con un sorriso leggermente imbarazzato: “Al presidente piace trattare faccia a faccia con i leader autoritari”. E, in effetti, la prima visita all’estero di Trump è stata in Arabia Saudita. Lì ha legato con il principe ereditario Mohammed bin Salman, detto Mbs, il leader di fatto del paese.

Il principe è stato accolto in parte dell’occidente come il riformatore dalle maniere forti di cui l’Arabia Saudita aveva bisogno. Questo, però, succedeva prima dell’omicidio del giornalista dissidente Jamal Khashoggi, che ha sconvolto molti ammiratori occidentali di Mbs. Poco tempo dopo, a un vertice del G20, un sorridente Putin ha dato il cinque e una stretta di mano al principe saudita: un’immagine che ha sintetizzato l’illegalità e l’impunità che caratterizzano l’era degli autocrati.

Il risultato di questa tendenza internazionale a una personalizzazione della politica è un confine non più chiaro tra mondo autoritario e democratico. Tradizionalmente i presidenti degli Stati Uniti hanno tracciato una distinzione sostanziale tra “il mondo libero” (guidato dagli Stati Uniti) e i paesi non democratici. Ma Trump ha fatto sbiadire questa distinzione. Quando, nel 2015, gli è stato fatto notare che Putin (da lui appena lodato) aveva ucciso giornalisti e oppositori politici, Trump ha risposto: “Penso che anche il nostro paese uccida un sacco di persone”. Al giornalista Bob Woodward ha detto che come presidente andava “d’accordo con Erdoğan. Più sono duri e cattivi, più ci capiamo”.

La cancellazione di una chiara distinzione tra leadership democratica e autoritaria è stata per decenni l’obiettivo chiave degli uomini forti. All’inizio del lungo governo di Putin in Russia, ho incontrato il suo portavoce Dmitrij Peskov al Cremlino. Il salvaschermo sul suo computer mostrava una serie di citazioni dal romanzo 1984 di George Orwell: “La guerra è pace”, “La libertà è schiavitù”, eccetera. Quando gli ho chiesto di alcuni atti di repressione ordinati da Putin all’epoca, mi ha risposto sorridendo: “Tutti i sistemi politici sono imperfetti”.

Serbia
Al fianco di Putin

Il 3 aprile in Serbia si sono tenute le elezioni legislative e presidenziali. Si è votato anche per rinnovare i consigli comunali di 14 città, tra cui Belgrado. Il presidente Aleksandar Vučić – che è stato primo ministro dal 2014 al 2017, quando è stato eletto alla presidenza, e da anni è accusato di guidare il paese con metodi sempre più autoritari – è stato confermato capo dello stato con il 60 per cento dei voti. La sua formazione (Partito progressista serbo, Sns, populista e conservatore) si è affermata anche a livello locale, ma ha perso la maggioranza assoluta in parlamento, dove nella prossima legislatura avrà 120 seggi su 250, invece dei 188 precedenti. In parlamento sono entrati anche alcuni nuovi partiti, tra cui la formazione verde e di sinistra Moramo (Dobbiamo). Secondo diversi analisti, queste forze possono rappresentare una speranza per il rinnovamento del sistema politico serbo. Intanto, subito dopo la vittoria, Vučić ha ricevuto le congratulazioni del presidente russo Vladimir Putin, che si è augurato anche un “rafforzamento della partnership strategica tra i due paesi”.

“Per la Serbia”, scrive il sito Peščanik, “il regime di Vučić è paragonabile al diluvio universale di biblica memoria. Ma visto che lo subiamo da quasi dieci anni, alla fine stiamo imparando a nuotare. E oggi c’è spazio anche per un po’ di ottimismo: con il loro ingresso in parlamento, i partiti e i movimenti dell’opposizione potranno accedere ai finanziamenti pubblici. Con queste risorse potranno consolidare le loro organizzazioni e prepararsi al meglio per le prossime elezioni”.

Più pessimista la lettura del quotidiano Danas: “Cosa bisogna fare ora, mia cara Serbia? Ribellarsi, ribellarsi e ancora ribellarsi contro il grottesco sistema di potere di Vučić. Questo vorrebbe la legge della ragione. Dopo queste elezioni, che sono state manipolate fin dall’inizio, tutti i partiti che hanno ricevuto migliaia di voti dai cittadini devono invitare i loro elettori a scendere in piazza con una precisa richiesta: le dimissioni del governo criminale dell’Sns e la formazione di un esecutivo ad interim per salvare il paese”. ◆


Le dichiarazioni di Trump hanno solo confermato quello che Russia e Cina pensavano da tempo. Ecco finalmente un presidente statunitense disposto ad ammetterlo: “anche noi mentiamo, anche noi uccidiamo, i nostri mezzi d’informazione non sono liberi, le nostre elezioni truccate, i nostri tribunali disonesti”.

I leader autoritari al potere spesso giustificano la spietatezza con cui agiscono sostenendo che il loro paese si trova in una crisi così profonda da non potersi più permettere di rispettare le leggi. Inoltre, fanno leva sulla paura che una maggioranza dominante stia per essere spodestata, e che per questo soffrirà enormi danni culturali ed economici.

Il Bjp di Modi ha messo in guardia dal “jihad dell’amore”, un presunto complotto della popolazione di religione musulmana per indebolire la maggioranza indù attraverso i matrimoni misti. Orbán ha sostenuto che l’arrivo in massa dei migranti minacciava la sopravvivenza del popolo ungherese. Le previsioni secondo cui negli Stati Uniti i bianchi non saranno più la maggioranza entro il 2045 hanno contribuito ad alimentare le tensioni sociali e razziali che hanno favorito l’ascesa di Trump.

La tendenza a “fare i duri” con gli stranieri o con gruppi minoritari, come migranti o musulmani, contribuisce al fascino degli uomini forti. L’atteggiamento virile li porta anche a promuovere idee tradizionaliste come quelle legate alla forza maschile, e a disprezzare il femminismo e i diritti delle persone lgbt.

Putin ha coltivato con successo il sostegno dei conservatori in occidente, denunciando regolarmente gli eccessi del “politicamente corretto”, soprattutto per quanto riguarda i diritti dei gay e il femminismo. Quando nel 2019 ho chiesto a Konstantin Malofeev, uno degli ideologi del putinismo, qual era secondo lui l’essenza del liberalismo occidentale ha risposto: “L’assenza di frontiere tra i paesi e di distinzioni tra uomini e donne”.

Ma probabilmente il denominatore comune più profondo è il nazionalismo nostalgico. In modi diversi quasi tutti i leader autoritari usano varianti del famoso slogan di Trump “Make America great again”. La promessa del presidente Xi di un “grande rinnovamento del popolo cinese” è essenzialmente quella di rendere di nuovo grande la Cina, riportandola alla posizione di primo piano che aveva quando era conosciuta come regno di mezzo.

Modi guida un movimento nazionalista che solletica l’orgoglio indù, invocando un passato glorioso, talvolta mitizzato, che precede gli imperi britannico e moghul. Orbán ha parlato di riconquistare i territori che l’Ungheria ha perso dopo la prima guerra mondiale. Erdoğan s’ispira alle glorie dell’impero ottomano, crollato nel 1922.

Nostalgie pericolose

Tuttavia, la più pericolosa espressione del nazionalismo nostalgico è quella di Putin. L’invasione dell’Ucraina è stata il culmine logico di molti dei peggiori aspetti dell’autoritarismo: l’appello a una presunta emergenza nazionale che giustifica un’azione radicale; la venerazione della forza e della violenza; il disprezzo per il liberalismo e la legge; e un governo incentrato sul culto della personalità, che esclude le critiche e le opinioni contrarie.

Dal momento che Putin è stato l’archetipo di molti leader dal pugno di ferro, le conseguenze del suo successo o del suo fallimento si avvertiranno in tutto il mondo. La risposta occidentale all’invasione russa è stata più rapida e forte di quanto il Cremlino avesse probabilmente previsto. Questo, insieme alle difficoltà militari russe, ha rafforzato la speranza che Putin e lo stile autoritario da lui rappresentato possano essere screditati dalla guerra in Ucraina.

Sono speranze legittime. Ma bisogna sottolineare che molti leader di questa “internazionale degli uomini forti” sono rimasti neutrali sulla guerra, rifiutandosi di condannare Putin e di adottare sanzioni. Tra loro ci sono Modi, il presidente brasiliano Jair Bolsonaro, il principe ereditario saudita e lo stesso Trump. Oggi l’alleato più importante di Putin è Xi Jinping, che il presidente russo aveva incontrato a Pechino poche settimane prima dell’invasione dell’Ucraina.

L’ungherese Orbán ha accettato le sanzioni europee contro la Russia. Ma allo stesso tempo è stato accusato da Iryna Vereščuk, la vicepremier ucraina, di bloccare le forniture di armi al suo paese e di avere una posizione “apertamente filorussa”. Vereščuk ha perfino ipotizzato che Orbán potrebbe avere delle mire sul territorio ucraino e starebbe “sognando silenziosamente la Transcarpazia”.

Queste paure sottolineano il forte legame tra l’autoritarismo e la violenza, la conquista e l’anarchia internazionale. L’era degli uomini forti degli anni trenta ha visto Mussolini, Franco, Stalin e Hitler far precipitare le loro nazioni e il mondo nella guerra. Putin sta ripetendo questo schema sanguinario. L’invasione dell’Ucraina ha spinto Stati Uniti e Unione europea a reagire. L’esortazione del presidente statunitense Joe Biden – “Per l’amor di Dio, quest’uomo non può rimanere al potere” – è stata molto criticata, ma riflette la convinzione che nel mondo sia ancora in corso una lotta tra dittatura e democrazia.

Ci sono buone ragioni per credere che il mondo liberaldemocratico alla fine prevarrà. Il governo dell’uomo forte è un modello imperfetto per natura. Non affronta il problema della successione al potere e non ha quel sistema di pesi e contrappesi che permette alle democrazie di liberarsi di politiche e leader fallimentari. Più a lungo un autocrate resta al potere, più è probabile che soccomba alla paranoia o alla megalomania. La decisione di attaccare l’Ucraina ne è un esempio. Ma è difficile allontanare dal potere gli uomini forti. E ci saranno ancora caos e sofferenze prima di poter archiviare definitivamente quest’epoca. ◆ff

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1455 di Internazionale, a pagina 42. Compra questo numero | Abbonati