Nei primi mesi del 2023 alcuni intellettuali cinesi si aspettavano che il presidente Xi Jinping sarebbe stato costretto a sospendere o ad abbandonare alcuni aspetti importanti della sua decennale marcia verso la centralizzazione. Nel corso dell’anno precedente avevano visto il governo passare da una crisi all’altra. In primo luogo, il Partito comunista cinese aveva ostinatamente mantenuto la sua politica “zero covid”, con lunghi lockdown in alcune delle più grandi città, anche se la maggior parte degli altri paesi aveva da tempo messo fine ai rigidi e inefficaci controlli a favore di vaccini all’avanguardia.

L’inflessibilità del governo alla fine ha innescato una reazione violenta: a novembre del 2022 sono scoppiate proteste a Chengdu, Guangzhou, Shanghai e Pechino, un fenomeno sorprendente nella Cina di Xi. Poi, all’inizio di dicembre, è stata improvvisamente abbandonata la strategia zero covid senza vaccinare più gli anziani né fare scorte di farmaci. Nel giro di poche settimane il virus è dilagato tra la popolazione e, anche se non ci sono dati ufficiali affidabili, secondo molti analisti indipendenti può aver causato più di un milione di morti. Nel frattempo il paese aveva perso gran parte di quella crescita dinamica che per decenni ha consentito al partito di rimanere al potere.

Date le numerose pressioni, molti intellettuali cinesi pensavano che Xi Jinping sarebbe stato costretto ad allentare il suo rigido controllo sull’economia e sulla società. Anche se di recente era stato nominato per la terza volta segretario generale e presidente del partito – un evento senza precedenti – e sembrava destinato a governare a vita, la sfiducia dell’opinione pubblica era più alta che in qualsiasi altro momento dei suoi dieci anni al potere. Quando i più importanti leader cinesi del ventesimo secolo, Mao Zedong e Deng Xiaoping, avevano incontrato degli ostacoli, avevano adattato il loro approccio alla situazione. Sicuramente lo avrebbero fatto anche Xi e i suoi più stretti consiglieri. “Pensavo che avrebbero cambiato rotta”, mi ha detto a maggio a Pechino il direttore di una delle riviste economiche cinesi più influenti. “Non solo sul covid, ma su molti altri temi, come la battaglia contro le imprese private e il duro trattamento riservato a certi gruppi sociali”.

Ma non è successo. Anche se le misure contro il covid non sono più in vigore, Pechino è rimasta aggrappata a una strategia che vuole più intervento dello stato nella vita dei cinesi. Decine di ragazzi che lo scorso autunno hanno manifestato sono stati arrestati e condannati a lunghe pene detentive. La libertà d’espressione è più limitata che mai. Le attività comunitarie e i gruppi sociali sono strettamente regolati e sorvegliati dalle autorità. E per quanto riguarda gli stranieri, la detenzione arbitraria di alcuni imprenditori e i provvedimenti nei confronti delle società di consulenza hanno suscitato – per la prima volta in decenni – la sensazione di correre un rischio con qualsiasi tipo di affare.

Gli stessi errori

Da più di un anno gli economisti sostengono che la Cina sta entrando in un periodo di rallentamento della crescita. Per spiegarne i motivi hanno citato i cambiamenti demografici, il debito pubblico e la minore produttività, oltre che la mancanza di riforme orientate al mercato. Alcuni dicono che la Cina è arrivata al suo picco, sostenendo che la traiettoria economica del paese ha già raggiunto o raggiungerà presto il suo apice e potrebbe non superare mai in modo significativo quella degli Stati Uniti.

Questo vuol dire che, se solo modificasse la sua gestione economica, Pechino potrebbe mitigare le conseguenze peggiori ed evitare un declino pericoloso. Ma quest’analisi non tiene conto del fatto che i problemi economici rientrano in un più ampio processo di fossilizzazione politica e di irrigidimento ideologico. È difficile che chiunque abbia osservato da vicino il paese negli ultimi decenni, non abbia colto i segni di una nuova stasi, quella che i cinesi chiamano neijuan. Il termine, spesso tradotto come “involuzione”, indica un ripiegamento su se stessi che impedisce veri progressi.

Il governo cinese ha creato il suo universo di app e software per smartphone, un’impresa titanica con l’obiettivo di isolare i cinesi invece di farli comunicare con il mondo esterno. I gruppi religiosi che una volta avevano avuto una relativa autonomia — anche quelli sostenuti dallo stato — devono ora fare i conti con pesanti restrizioni. Le università e i centri di ricerca, tra cui molti con ambizioni globali, sono sempre più spesso tagliati fuori dai circuiti internazionali. E le piccole ma un tempo fiorenti comunità di scrittori, intellettuali, artisti e critici indipendenti sono state spinte a lavorare in clandestinità, proprio come quelle sovietiche del novecento.

Difficilmente gli effetti più profondi di questa chiusura si sentiranno da un giorno all’altro. La società cinese è piena di persone creative, colte e dinamiche, e il governo è ancora gestito da una burocrazia molto competente. Da quando è arrivato al potere nel 2012 Xi Jinping ha realizzato alcune imprese notevoli, tra cui il completamento di una rete ferroviaria nazionale ad alta velocità, il raggiungimento di una posizione dominante nelle tecnologie per le energie rinnovabili e la formazione di uno degli eserciti più all’avanguardia del mondo. Eppure il neijuan ormai tocca tutti gli aspetti della vita cinese, e il paese è più isolato e stagnante di quanto sia mai stato da quando Deng Xiaoping inaugurò l’epoca delle riforme, alla fine degli anni settanta.

Nei mesi successivi alla fine delle restrizioni per il covid-19, giornalisti stranieri, esperti di politica internazionale e studiosi hanno cominciato a tornare in Cina per valutare il futuro del governo, dell’economia e dei rapporti con l’estero. Molti si sono concentrati sulle élite della capitale e hanno collegato l’isolamento e il rallentamento economico agli attriti tra Washington e Pechino o agli effetti della pandemia. Incontrando persone provenienti da regioni e classi sociali diverse, tuttavia, emerge un’altra visione. La scorsa primavera ho parlato per settimane con alcuni importanti intellettuali, come il direttore del giornale economico più autorevole del paese. Ma ho deciso di trascorrere la maggior parte del mio tempo con molti altri cinesi – medici, imprenditori, autisti di autobus, falegnami, suore e studenti – che conosco da anni. Le loro esperienze, insieme alle tendenze più generali della società civile e del governo, fanno pensare che i leader comunisti abbiano cominciato a sacrificare il progresso tecnologico, e perfino il sostegno popolare, a favore della stabilità. La scommessa di Xi sembra questa: per resistere alle pressioni di un mondo incerto bisogna ripiegarsi su se stessi e farcela da soli. Ma in questo modo potrebbe invece ripetere gli errori dei suoi predecessori del blocco orientale nei decenni centrali della guerra fredda.

Sessione di aerobica all’aperto, Jiamusi 3 luglio 2023  (Jade Gao, Afp/Getty)

L’ossessione delle autorità per il controllo sembra danneggiare soprattutto gli intellettuali o i professionisti che vivono nelle città. Ed è vero che l’aumento delle restrizioni imposte alla società civile ha portato alla chiusura di riviste, alla fuga di artisti e all’emigrazione di centinaia di migliaia di persone della classe media. Ma la stretta sta avendo un effetto profondo anche sulla gente comune. Prendiamo per esempio l’esperienza dei partecipanti a un pellegrinaggio annuale verso una montagna sacra vicino a Pechino. Negli anni sessanta i fanatici di Mao distrussero molti dei templi originali ma, alla fine degli anni ottanta, i fedeli, appartenenti soprattutto alla classe operaia, raccolsero fondi per ricostruirli e per più di trent’anni hanno celebrato l’evento di quindici giorni in gran parte autogestito e autofinanziato. Negli ultimi vent’anni le autorità hanno incoraggiato questa tradizione, che rientra nella cultura popolare dei cinesi han (l’etnia maggioritaria), considerandola un utile contrappeso a religioni come il cristianesimo, giudicate estranee e soggette a influenze esterne.

Le autorità hanno favorito una copertura positiva del rito sui mezzi d’informazione, permettendogli di crescere rapidamente, fino a diventare una delle più grandi feste religiose del paese, capace di attirare centinaia di migliaia di persone. Ma ora che la sponsorizza lo stato ha assunto anche la supervisione. Negli ultimi dieci anni sono state imposte regole ai luoghi di culto, chiudendo quelli non autorizzati, vietando ai minori di partecipare alle funzioni e perfino di fare sventolare la bandiera nazionale sui luoghi.

Nel caso della montagna sacra vicino a Pechino, il governo ha trasferito la gestione del complesso a un’azienda statale, che ha schierato guardie di sicurezza private e polizia in uniforme per pattugliare i santuari e ha riempito la montagna di propaganda politica. Vicino alla cima, accanto a un santuario dedicato alla dea buddista della misericordia, c’è un gigantesco manifesto decorato con falci e martelli. Un cartello riporta il giuramento di fedeltà dei nuovi iscritti al partito. E un altro ancora annuncia a caratteri enormi: “Il partito è nel mio cuore. Seguirò sempre la sua linea”.

In seguito a questa evidente politicizzazione, il numero di partecipanti è diminuito, e per diversi giorni la scorsa primavera non si è visto un pellegrino. Molte persone che frequentano il tempio o ci lavorano sono molto patriottiche e sostengono la linea del partito su parecchie questioni. Se provate a citare gli Stati Uniti, la guerra in Ucraina o una possibile invasione di Taiwan, diranno appassionatamente che gli americani cercano di contenere la Cina, che l’attacco della Russia all’Ucraina è colpa di Washington e che Taiwan deve riunirsi alla Cina o sarà invasa. Ma sono anche preoccupati dal rallentamento dell’economia, dalla gestione della pandemia e dalle “sessioni di studio” politiche nei luoghi di lavoro. Ora anche i conducenti di autobus devono ascoltare lezioni sul “pensiero di Xi Jinping” e scaricare sul telefono app per studiare l’ideologia del partito. Osservando una squadra di poliziotti, un manager che lavora sulla montagna dagli anni novanta ha espresso la sua disapprovazione per come è cambiato il pellegrinaggio. “Oggi”, ha detto, “in Cina non puoi fare nulla senza preoccuparti della sicurezza nazionale”.

Tai chi tra le piante di loto, Qianxinan, 22 luglio 2023 (CFOTO/Future Publishing/Getty)

Briglie alla ricerca

Ancora più importante è l’onnipresenza dello stato nella vita intellettuale del paese. I leader cinesi hanno sempre guardato alle università con un po’ di sospetto, mandando segretari di partito a sorvegliarle e circondandole di muri. Tuttavia, per decenni, gli atenei hanno anche ospitato intellettuali liberi e raramente le loro porte sono state chiuse ai visitatori. Da quando Xi Jinping è arrivato al potere, invece, queste libertà sono gradualmente sparite. Nel 2012 il governo ha cominciato a imporre divieti sull’insegnamento di temi come la libertà dell’informazione, l’indipendenza dei giudici, la promozione della società civile e l’indagine storica indipendente. Poi, con l’inizio della pandemia, ha allargato la sorveglianza e aggiunto nuove misure di sicurezza che da allora sono diventate permanenti, trasformando le università in fortezze.

Un giorno dello scorso maggio ho organizzato un incontro con un professore e quattro dei suoi studenti laureati all’università Minzu, un campus verdeggiante nella zona occidentale di Pechino istituito per formare nuovi leader tra le 55 minoranze etniche riconosciute, comprese quelle tibetane, uigure e mongole. Prima della pandemia, di solito ci vedevamo alla mensa universitaria o in un bar. Ora i visitatori che entrano nel campus sono ripresi da una telecamera montata su un tornello in modo che le autorità sappiano esattamente chi sono. Il professore ha quindi suggerito di vederci in un ristorante mongolo, dove abbiamo chiesto una saletta privata per evitare di essere intercettati.

“Forse è meglio non far sapere che ci stiamo incontrando”, ha detto il professore, che non è certo un dissidente. È un acceso sostenitore dell’unificazione con Taiwan e ha studiato le radici culturali condivise delle società cinese e taiwanese. Con l’aiuto delle autorità locali, ha ricostruito un tradizionale luogo d’incontro per gli appartenenti a un clan della sua città natale nel sudest della Cina. In passato ha anche viaggiato molto e collaborato con università straniere, e ora sta lavorando a un libro su un movimento religioso nato in Cina negli anni venti del novecento. Negli ultimi dieci anni, tuttavia, il governo ha progressivamente ostacolato gran parte delle sue ricerche. Ora per partecipare alle conferenze all’estero ha bisogno di un permesso e deve sottoporre a controllo i suoi scritti prima di mandarli in stampa. Il suo nuovo libro non può essere pubblicato in Cina perché la religione, anche quella di un secolo fa, è considerata un tema sensibile. E le autorità statali hanno talmente boicottato la sua rivista di antropologia che ha dovuto rinunciare all’incarico di direttore. Negli ultimi tre anni, sui dodici numeri realizzati, solo uno ha superato la censura.

Oggi visitare la Cina significa entrare in un universo parallelo di applicazioni e siti che controllano la vita quotidiana

Altre preoccupazioni

Fuori delle università i limiti di ciò che può essere pubblicato sono altrettanto ristretti. Nel primo decennio di questo secolo, per esempio, un intellettuale che conosco ha scritto diversi libri importanti sulla vecchia Pechino. Anche se Xi è considerato un paladino della città vecchia della capitale, oggi lo scrittore evita di parlarne e gli editori non intendono ristampare i suoi primi lavori, perché denunciano la corruzione endemica che è alla base della distruzione delle aree storiche. È tornato quindi a temi apparentemente neutri e apolitici, pur continuando indirettamente a criticare la situazione attuale. Il suo nuovo progetto riguarda la storia di Pechino del tredicesimo secolo, l’epoca di Gengis Khan, descritta come un periodo aperto e multiculturale, in implicito contrasto con l’oggi. “È più facile scrivere dei mongoli”, ha detto. “La maggior parte dei censori non capisce i parallelismi”.

La gente comune ha invece una serie di preoccupazioni diverse, principalmente legate all’economia e alla pandemia. Durante il primo trimestre del 2023 è stato a malapena raggiunto l’obiettivo di crescita del 5 per cento, e solo con una pesante spesa pubblica. Il tasso di disoccupazione giovanile è superiore al 20 per cento e molti si chiedono come faranno i loro figli a sposarsi se non possono comprare un appartamento. I dati del secondo trimestre del 2023 sono stati leggermente migliori, ma solo rispetto allo stesso periodo del 2022, quando l’economia è stata quasi bloccata dai lockdown. Vari indicatori mostrano crescenti difficoltà in una serie di settori, e molti cinesi hanno la sensazione di essere in recessione. Un gruppo di produttori tessili di Wenzhou, nella provincia dello Zhejiang, mi ha detto che quest’anno in tutta la Cina le vendite sono diminuite del 20 per cento, costringendoli a licenziare molte persone. Pensano che l’economia si riprenderà, ma anche che gli anni della crescita frenetica sono finiti. “Siamo in un’epoca più incerta”, ha detto uno di loro.

Molti imprenditori sottolineano il forte calo dei turisti stranieri. Questo crollo è in parte dovuto alle restrizioni di viaggio imposte dal covid, che sono state allentate solo di recente, ma è anche un riflesso di quanto sia diventato difficile spostarsi nel paese. Oggi visitare la Cina significa entrare in un universo parallelo di applicazioni e siti web che controllano la vita quotidiana. Per chiamare un taxi, comprare un biglietto del treno o qualsiasi altra cosa, gli stranieri devono prima comprare un telefono cinese, app cinesi e spesso una carta di credito cinese. Ora alcune app supportano anche carte di credito straniere, ma non tutti i commercianti le accettano. Anche una semplice visita a un sito turistico richiede la scansione di un codice qr su un’app cinese e la compilazione di un modulo in cinese.

Da un lato sono scocciature banali, ma sono anche sintomo che il governo sembra quasi non accorgersi di quanto la sua sempre maggiore centralizzazione stia isolando il paese. Anche la gestione della pandemia – dalle chiusure durate mesi alla diffusione incontrollata del virus quando le rigide misure sono state revocate – ha lasciato cicatrici profonde. Nonostante gran parte della copertura internazionale si sia concentrata sui lockdown nelle grandi città come Shanghai, le aree rurali sono state particolarmente colpite dalla successiva ondata di infezioni. Fuori dai centri urbani i servizi sanitari sono spesso inadeguati e quando le autorità hanno improvvisamente cominciato a ignorare il covid, molte persone si sono ammalate. Un medico che lavora al pronto soccorso di un distretto rurale vicino a Pechino ha detto di essere rimasto sbalordito dal numero di anziani che sono morti nelle settimane successive alla revoca dei controlli. “Ci è stato detto che era normale che gli anziani morissero”, ha detto. “Ma non dovremmo essere una civiltà particolarmente rispettosa degli anziani? Ero così arrabbiato. Credo di esserlo ancora”.

La danza del leone in una scuola a Chengde, 6 maggio 2023 (CFOTO/Future Publishing/Getty)

Nelle élite più vicine al governo di solito si minimizzano queste preoccupazioni. A maggio i redattori della Beijing Cultural Review, una pubblicazione molto diffusa, mi hanno detto che la gestione della pandemia forse era stata un po’ troppo severa e che le autorità avevano sottovalutato il danno economico causato dalla politica zero covid. Ma ora che avevano invertito la rotta, l’economia si sarebbe ripresa. “Forse ci vorranno tre anni”, mi ha detto uno di loro. “Ma succederà, e la gente dimenticherà”.

Non è necessariamente una visione troppo ottimistica. Durante i suoi quasi 75 anni al potere, il Partito comunista ha resistito a una serie di crisi gravi: la grande carestia del 1958-1961 e la rivoluzione culturale del 1966-1976, che insieme provocarono decine di milioni di morti; il massacro di piazza Tiananmen del 1989, quando il governo scatenò l’esercito contro pacifici manifestanti mentre il mondo stava a guardare; la repressione del Falun gong del 1999-2001, durante la quale le autorità uccisero più di cento manifestanti e ne mandarono migliaia nei campi di lavoro; e il terremoto del Sichuan del 2008, in cui sono morte più di sessantamila persone, soprattutto a causa di edifici scadenti, in particolare le scuole.

Questi eventi hanno messo in ginocchio il paese e hanno spinto qualcuno a chiedersi se i leader cinesi continueranno a non subirne le conseguenze. Soprattutto negli ultimi quarant’anni, il controllo del partito sui mezzi d’informazione e la sua capacità di mantenere una crescita rapida gli hanno permesso di soffocare in poco tempo le critiche.

Nel 2001 la Cina ha aderito all’Organizzazione mondiale del commercio e, sotto una leadership tecnocratica, che ha incoraggiato gli investimenti esteri e l’impresa privata, il paese ha avuto una crescita economica a due cifre. È possibile che questi mezzi funzionino ancora. Come ha osservato l’astrofisico e dissidente cinese Fang Lizhi nel 1990: “Circa una volta ogni decennio la storia viene completamente cancellata dalla memoria della società cinese”. Quindi, se l’economia tornerà a crescere, le crisi attuali potrebbero essere dimenticate, trasformando l’epoca successiva alla pandemia in una piccola parentesi nel controllo relativamente stabile del partito sulla Cina nell’ultimo mezzo secolo. O almeno questa potrebbe essere la valutazione del governo, il che spiegherebbe perché non ha cambiato rotta nonostante gli ultimi eventi.

Ma queste ipotesi confortanti non tengono conto di un’importante lezione del passato: il partito è sopravvissuto anche perché si è adattato e ha sperimentato. Dopo la morte di Mao, per esempio, gli anziani riuniti intorno a Deng si resero conto che il partito era di fronte a una crisi di legittimità. Perciò introdussero alcune riforme di mercato e allentarono la presa sulla società. La stessa cosa successe dopo il massacro di piazza Tiananmen del 1989 e il crollo dell’Unione Sovietica del 1991. Deng e i suoi successori cominciarono a pensare che la mancanza di crescita economica fosse alla base di entrambi quegli eventi e introdussero riforme che trasformarono la Cina in una superpotenza economica emergente.

Fine dell’autocritica

Questo autoritarismo in grado di adattarsi può essere attribuito in parte a una generazione di leader che vedevano la Repubblica popolare come un’opera in divenire da migliorare continuamente, piuttosto che come un sistema politico da mantenere a tutti i costi. Uomini come Deng avevano contribuito a fondare il nuovo paese nel 1949, ma sapevano che era soggetto a crisi che avrebbero imposto qualche correzione. Dopo gli anni di Mao, si resero anche conto che il loro dominio era precario. La rinuncia al controllo politico totale era stata avviata, ma molte altre cose erano ancora in discussione. Oggi è sconvolgente leggere i documenti politici dell’epoca di Deng. Una direttiva del partito del 1982 consentiva esplicitamente pratiche religiose che ora si tende a vietare, come le celebrazioni in casa e i battesimi. I movimenti religiosi dovevano essere trattati con delicatezza perché lo stato aveva “usato misure così violente contro la religione da costringerli alla clandestinità”, afferma il documento.

Oggi non ci sono quasi più segni di un simile atteggiamento autocritico. Anche se è difficile per gli osservatori esterni conoscere il funzionamento interno dell’attuale leadership, l’inversione di marcia rispetto alla politica zero covid è in linea con l’approccio generale di Xi. Nei decenni passati, se si verificavano incidenti o disastri che danneggiavano l’immagine del partito, i leader andavano sul posto per dimostrare il loro interesse, seguendo più o meno il copione delle loro controparti occidentali in situazioni simili. Xi viaggia spesso in giro per la Cina, ma raramente per esprimere cordoglio e meno che mai per riconoscere implicitamente le responsabilità del governo. Visita le comunità locali soprattutto per esortarle a rispettare la dottrina del partito e la sua politica. Questo alimenta tra molti cinesi l’impressione di una leadership lontana, che tollera pochi punti di vista critici, evita il dibattito interno e non si sente obbligata a giustificare le sue scelte.

Molti di quelli che vivono in questa epoca di neijuan si chiedono soprattutto quanto durerà. Anche se il Partito comunista cinese di oggi è diverso da quelli di altri paesi del passato, alcuni intellettuali cinesi vedono ampi parallelismi tra l’isolamento voluto dal governo e l’atmosfera soffocante nel blocco orientale al culmine della guerra fredda. Un paragone suggestivo che fanno è quello con il muro di Berlino. All’inizio, nel 1961, questo simbolo dell’oppressione comunista consisteva in rotoli di filo spinato che attraversavano le strade. Solo gradualmente assunse la forma di una serie quasi impenetrabile di barriere di cemento controllate da una rete di torri di guardia e fari. Fin dall’inizio sembrava dimostrare il fallimento intrinseco della Germania Est nel costruire un posto in cui fosse desiderabile vivere, e a molti sembrò un tentativo anacronistico di rinchiudere le persone nel loro paese.

I governanti cinesi sembrano costruire e perfezionare la loro versione del muro di Berlino del ventunesimo secolo

Eppure ebbe un notevole successo, permettendo al regime di stabilizzarsi e sopravvivere per altri trent’anni. Il muro non poté salvare la Germania Est, ma fece guadagnare tempo ai suoi leader. Ora i governanti cinesi sembrano costruire e perfezionare la loro versione del muro di Berlino del ventunesimo secolo. Anche se decine di migliaia di cittadini sono in carcere o agli arresti domiciliari per le loro opinioni, questo muro non è fisico. Il potere statale è esercitato attraverso un sistema totalizzante di censura della libertà di espressione su internet, in tv, nei libri di testo, nei film, nelle mostre e perfino nei videogiochi, in modo da creare una narrazione storica condivisa che faccia sembrare il partito essenziale per la sopravvivenza del paese.

Questa strategia oggi include anche l’idea che la Cina dovrebbe costruire da sé tutte le tecnologie fondamentali, rifiutando i vantaggi della globalizzazione. Questo sforzo equivale a una forma più sottile di controllo, che dà ai cittadini l’illusione della libertà, mentre li allontana da tutto ciò che potrebbe mettere in discussione il regime. Ma come il muro vero e proprio della Germania Est, quello cinese ha lo scopo di evitare una sfida esistenziale. La Cina era già entrata in crisi nei vent’anni prima che Xi Jinping ne prendesse il timone, mentre le nuove tecnologie contribuivano a promuovere il primo movimento nazionale contro il partito.

La fonte del dissenso non era un’organizzazione con partecipanti e statuti, ma una libera alleanza di intellettuali critici, vittime di abusi del partito e cittadini comuni scontenti delle loro condizioni di vita. La critica al governo monopartitico cominciava ad apparire sui mezzi d’informazione, online, sulle riviste clandestine e nei documentari. Leader come Hu Jintao e Wen Jiabao dovevano reagire. In un primo momento lo fecero consentendo che i problemi nazionali fossero discussi pubblicamene e talvolta introducendo le riforme necessarie. Nel 2003, per esempio, quando la morte di uno studente che era stato picchiato dalla polizia causò una protesta nazionale, Wen annunciò un’immediata modifica delle norme che regolavano la custodia cautelare.

Ma temendo che un eccessivo controllo esercitato dai cittadini potesse mettere in discussione l’autorità del partito, i suoi leader ricorsero ben presto a nuovi metodi di sorveglianza. La svolta sarebbe arrivata più tardi, nel 2008, dopo la fine delle Olimpiadi di Pechino e quando i riflettori del mondo sulla Cina si erano ormai spenti. Il governo arrestò lo scrittore dissidente e futuro premio Nobel per la pace Liu Xiaobo e introdusse un maggiore controllo sui social network. Xi ha accelerato questa tendenza e l’ha sistematizzata. Poi, per finire, nel 2021 ha dato il via alla riscrittura della storia ufficiale del partito, minimizzando l’importanza di fallimenti come la rivoluzione culturale e glorificando le proprie politiche. Usando gli strumenti dell’epoca digitale, Xi ha trasformato il muro cinese da un insieme di norme e regolamenti a un apparato raffinato e potente.

Come nella Germania Est, questa tattica ha avuto successo, almeno finora. Molte persone hanno interiorizzato la nuova versione della storia del partito. In questo racconto, i suoi leader hanno salvato la Cina dalla dominazione straniera e l’hanno resa forte e potente, e quindi solo il partito, pur con qualche difetto, può guidare il popolo verso il futuro. Questa convinzione, tuttavia, deve essere sostenuta da un’efficiente gestione delle numerose sfide del paese. Riuscirci è stato relativamente facile in 45 anni di crescita economica straordinariamente duratura, che ha permesso ai cittadini di mettere da parte le loro obiezioni sulla lunga mano dello stato-partito. Come nella maggior parte delle nazioni, è difficile organizzarsi contro un regime che crea rapidi miglioramenti al tenore di vita della popolazione. Negli stati comunisti dell’Europa orientale la diffusa crescita dell’immediato secondo dopoguerra diminuì negli anni settanta, e questo spinse molti a rivolgersi a dissidenti e critici per avere spiegazioni sulla nuova realtà. La stessa cosa potrebbe succedere in una Cina che sta entrando in un periodo di stagnazione a lungo termine simile?

Ben attrezzati

Le differenze tra la Cina di Xi Jinping e il blocco dell’Europa orientale degli anni sessanta e settanta sono molte. In quegli anni i paesi dell’area sovietica vivevano in uno stato di privazione, con file per comprare il pane e lunghe liste d’attesa per acquistare un’auto. Oggi in Cina non esistono situazioni simili, ma nella sua ricerca di un controllo assoluto il governo ha spinto il paese a seguire un percorso di crescita più lento e ha creato sacche d’insoddisfazione sempre più grandi. I detrattori del regime sottolineano che le restrizioni di Pechino sull’informazione molto probabilmente hanno creato le condizioni che hanno portato alla crisi del covid-19. Alla fine del 2019 le autorità locali hanno messo a tacere i primi allarmi sul virus perché temevano che le cattive notizie avrebbero avuto ricadute negative su di loro. Quel silenzio ha permesso al virus di prendere piede e di diffondersi in tutto il mondo.

Mentre tiene questi e altri problemi provocati dal governo lontano dagli occhi dell’opinione pubblica, la censura taglia fuori alcuni dei cittadini più brillanti dalla scena globale e dalle ultime ricerche. Queste barriere alla conoscenza si autoalimentano e possono solo danneggiare la Cina. Se anche gli Stati Uniti per i microchip più avanzati e altre tecnologie dipendono da altri stati, come i Paesi Bassi e Taiwan, viene da chiedersi se la Cina possa davvero farcela da sola, come sembrano credere i suoi leader.

Il partito può controllare e usare l’informazione come un’arma, ma anche i dissidenti sono sorprendentemente ben attrezzati. Aiutati dalla tecnologia, sono molto più abili rispetto ai loro colleghi dell’epoca sovietica. Tra le élite istruite cinesi, molti insistono a opporsi alla versione della realtà del regime. Anche se vietate, le reti private virtuali (vpn), che consentono agli utenti di aggirare i controlli su internet, sono ormai molto diffuse. I registi indipendenti lavorano a nuovi documentari e gli editori di riviste samizdat (autoproduzioni clandestine) pubblicano ancora numeri che distribuiscono attraverso pdf, email e chiavette usb.

Da sapere
Andamento deludente
Variazione annuale del pil cinese, percentuale (Fonte: Istituto nazionale di statistica della Cina/Le Monde)

Sono sforzi ben lontani dalle proteste di piazza e da altre forme di opposizione pubblica che attirano l’attenzione dei mezzi d’informazione, ma sono cruciali per stabilire e mantenere le reti interpersonali che rappresentano una sfida a lungo termine per il regime.

Il gioco dell’attesa

A maggio sono andato a trovare il direttore di una rivista clandestina in una zona relativamente periferica a sud di Pechino. Pubblica un quindicinale con articoli di professori universitari di tutto il paese, che spesso usano pseudonimi. I loro testi mettono in discussione la versione del partito sui momenti critici della sua storia, rendendo noti dettagli che sono stati insabbiati. Parte del lavoro è ora svolto da laureati cinesi che vivono all’estero. Questo modello di pubblicazione digitale clandestina è stato adottato lo scorso anno anche dai manifestanti, che hanno usato le vpn per caricare video su Twitter, YouTube e altri siti vietati.

Queste piattaforme online funzionano come magazzini dove i cinesi possono accedere a informazioni che lo stato cerca di nascondere. In questo caso il direttore commissiona gli articoli, li lavora e li invia all’estero per sicurezza. Anche la grafica della rivista è curata all’estero, e volontari fuori e dentro il paese inviano ogni numero via email a migliaia di intellettuali in tutta la Cina. I redattori fanno parte di una comunità in crescita che documenta sistematicamente il malgoverno del partito, dalle carestie passate alla pandemia. Anche se iniziative simili normalmente raggiungono solo poche decine di migliaia di persone, quando il governo sbaglia possono avere una maggiore diffusione.

Durante il covid-19, per esempio, il numero dei lettori è aumentato. In tempi diversi questa ricerca della verità sarebbe potuta sembrare donchisciottesca, ma ora comincia a sembrare vitale agli occhi di molti cinesi. Man mano che si diffondono queste reti anonime e informali aprono un nuovo fronte nella lotta del partito contro l’opposizione, per controllare la quale ora non basta più incarcerare i dissidenti.

Sono stato un paio d’ore con il direttore nel suo giardino, sotto i graticci d’uva che usa per fare il vino. Il cielo era di un azzurro intenso e il sole era forte. Le cicale coprivano i rumori di fondo. Per un po’ abbiamo avuto la sensazione di poter essere ovunque, perfino in Francia, un posto che il direttore ha avuto il piacere di visitare. Pubblica la rivista da più di dieci anni e ora ha affidato la maggior parte del lavoro a colleghi più giovani in Cina e all’estero. Era rilassato e fiducioso. “Non si può fare nulla alla luce del sole qui”, ha detto. “Ma noi continuiamo a lavorare e ad aspettare. Noi abbiamo tempo. Loro no”. ◆ bt

Ian Johnson è un esperto di Cina del centro studi statunitense Council on foreign relations. Per vent’anni è stato corrispondente da Pechino di vari quotidiani americani. Nel 2001 ha vinto il premio Pulitzer per i suoi reportage.

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Questo articolo è uscito sul numero 1527 di Internazionale, a pagina 42. Compra questo numero | Abbonati