All’inizio erano un rivolo, ma presto le voci sugli stupri sono diventate un fiume in piena. In Sudan si è diffusa la paura. Dal 15 aprile 2023 il paese è sconvolto da violenti combattimenti. Da un lato ci sono i miliziani delle Forze di supporto rapido (Rsf), un corpo paramilitare dalla storia particolarmente violenta, che negli ultimi decenni ha visto aumentare il suo potere. Dall’altro le forze armate sudanesi, che erano state alleate delle Rsf ma ora hanno ingaggiato contro di loro una battaglia all’ultimo sangue. Presi tra i due schieramenti, ci sono milioni di sudanesi, in particolare donne. Le sopravvissute agli stupri e le loro famiglie sono intrappolate in vari modi, fra i traumi e le infrastrutture in macerie lasciati dai combattimenti.

Le Rsf avevano le loro basi nei quartieri di alcune città e hanno esteso il loro controllo ad altre aree, mettendo in fuga i residenti, racconta Mohamed Salah di Emergency lawyers, un gruppo nato per fornire assistenza legale gratuita agli attivisti e ai manifestanti per la democrazia, che oggi documenta le violazioni dei diritti umani e coordina gli aiuti alle vittime. Ma ci sono anche persone, aggiunge Salah, che non vogliono o non possono andarsene.

La storia di Husna

Come molti abitanti di Khartoum, l’architetta Husna (nome di fantasia) è rimasta nel suo quartiere nel nord della capitale finché la situazione non è diventata troppo pericolosa. Il giorno in cui ha provato a scappare i combattenti delle Rsf si sono stabiliti vicino a dove viveva.

“Quando è scoppiata la guerra ero sposata da pochi mesi”, racconta. La maggior parte dei suoi familiari era già andata via dalla capitale, ma suo marito era a Omdurman, la città gemella dall’altra parte del fiume Nilo, e lei aveva deciso di aspettarlo. Anche se i miliziani erano in abiti civili, dice Husna, li aveva riconosciuti dal modo in cui parlavano e da come si comportavano.

“Avevano catturato alcune ragazze sudsudanesi in un altro palazzo, ma il capo delle truppe mi teneva separata da loro. Continuava a chiamarmi ‘sorella’: ‘Tu sei mia sorella, sei una ragazza araba, sei al sicuro’. Poi di punto in bianco mi ha dato della bugiarda dicendo che io non ero del posto e mi ha chiesto chi ero realmente. Ha detto ai suoi compagni di stare alla larga da me, che ero una di loro”.

Un giorno i paramilitari hanno portato Husna e le altre donne in un edificio vicino, lo stesso dove viveva la sorella di Husna. Mentre le sudsudanesi sono state portate in un appartamento, il capo delle Rsf ha ordinato a Husna di mostrargli dove abitava la sorella. “Ho una richiesta”, le ha detto. “Se rispondi sì, bene. Se rispondi no, non è un problema”. Poi le ha puntato il fucile contro: “Voglio venire a letto con te. Te l’ho chiesto e ora lo farai. Dov’è la camera da letto?”.

Husna ricorda di averlo implorato di lasciarla andare. “Non hai detto che ero una sorella? Faresti una cosa del genere a tua sorella?”, gli ha chiesto.

La psicologa sudanese Sulaima Ishaq el Khalifa, specializzata in casi di violenza sessuale. Khartoum, 2020 (Nariman El-Mofty, Ap/Lapresse)

A un tratto un miliziano è entrato nell’appartamento e ha detto che le ragazze sudsudanesi gridavano, e loro non sapevano cosa fare. “Falle stare zitte e vattene”, gli ha risposto il capo. “Che nessuno venga qui”.

Husna aveva capito che almeno non avrebbe subìto uno stupro di gruppo. “Ho pregato. Avevo con me il mio rosario e ho continuato a pregare”.

Quando i miliziani sono andati via, Husna è corsa da un’amica. “Non riuscivo a smettere di singhiozzare e piangere. Le ho raccontato cos’era successo e lei mi ha portato in bagno, mi ha lavato con acqua salata, ha messo i miei vestiti sporchi in un sacchetto, mi ha dato del paracetamolo e mi ha fatto un altro bagno”.

Un’altra persona le ha trovato un kit per raccogliere le prove dello stupro e l’unità del governo sudanese per la lotta alla violenza sulle donne (Cvaw) l’ha aiutata a procurarsi la pillola del giorno dopo. “Continuo a rivivere tutto nella mia testa. Non riesco a stare sola. Ho sempre bisogno di qualcuno con me per sentirmi bene, al sicuro”, confida Husna. “Mio marito è stato una roccia. Gli ho raccontato tutto. Lui mi consola e mi dice: ‘Non è colpa tua, ne uscirai più forte. Ne usciremo più forti’”.

All’inizio del conflitto le voci sugli stupri non riguardavano le donne sudanesi. Sembrava che una straniera fosse stata violentata nel suo appartamento in un quartiere di lusso. Circolavano storie su uomini delle Rsf che, entrati in una casa, avevano lasciato stare le donne che ci vivevano perché al piano di sopra c’erano delle habashiyat, un termine spregiativo usato per indicare le persone etiopi ed eritree. La distinzione è stata abbandonata quasi subito, con l’emergere delle prime testimonianze. Molti attivisti concordano sul fatto che gli stupri registrati sono solo una minima parte di quelli commessi. A oggi in tutto il paese sono stati denunciati più di cinquanta casi di violenze sessuali, anche contro minori, rifugiate dall’Etiopia e dal Sud Sudan, donne di più di cinquant’anni, donne incinte e sfollate interne.

Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite definisce lo stupro “il crimine di guerra più antico, il più taciuto e il meno condannato”, non circoscritto a un paese o a un’etnia. Può essere ordinato dai vertici di un esercito o incoraggiato all’interno di gruppi di soldati fuori controllo.

I corpi delle donne sono “diventati parte del campo di battaglia”, mentre lo stigma sociale “impedisce di chiedere aiuto”

I dati dell’Onu mostrano che le violenze sessuali aumentano molto durante i conflitti e nei periodi successivi, anche se le cifre sono sempre approssimative. Si calcola che durante il genocidio in Ruanda del 1994 furono violentate tra le 250mila e le 500mila donne e ragazze, e che dal 1996 almeno altre 200mila sono state stuprate nella Repubblica Democratica del Congo.

Gli unici dettagli

Secondo gli attivisti e gli esperti intervistati, oggi anche in Sudan la violenza sessuale si sta trasformando in un’arma.“Per com’è strutturato e per quello che fa, non credo che un esercito possa comportarsi in modo etico”, afferma Hilina Berhanu Degefa, esperta etiope di diritti delle donne e uguaglianza di genere. Tra le motivazioni che spingono i soldati a ricorrere agli stupri ci sono l’arroganza che deriva dal poter infliggere una violenza senza limiti, l’incitamento dei propri compagni e la convinzione che prendere di mira le donne sia un modo per umiliare e negare la virilità dei combattenti nemici.

Z, una ricercatrice in diritti umani esperta di Sudan che aiuta le sopravvissute, ha raccolto la testimonianza di una donna della zona di Sharg el Nil, a est di Khartoum, che “ha dovuto ascoltare le grida delle vicine mentre venivano violentate dalle Rsf man mano che salivano i piani del suo palazzo”.

Questa donna divorziata di circa trent’anni viveva da sola con i figli, riferisce Z: “Dal terzo piano sentiva le due ragazze del piano di sotto urlare: ‘Non ci toccate!’. Lei ha chiuso a chiave l’appartamento sperando che lo credessero vuoto. Ma i miliziani si sono divisi in gruppi, uno per piano, e sono entrati anche in casa sua. Ha provato a chiudersi in camera da letto, ma loro hanno sfondato la porta. Li ha supplicati di risparmiarla”.

Quando era ormai ovvio che non l’avrebbero fatto, continua Z, la donna ha detto al miliziano delle Rsf: “‘Se stai per stuprarmi allora chiudi la porta, non lasciare che gli altri ci guardino”. Stava cercando di evitare uno stupro di gruppo. Sono gli unici dettagli che la donna ha voluto condividere. È successo nella prima settimana di conflitto, non ricorda precisamente quando.

Salah di Emergency lawyers dice che molte violenze sessuali sono opera dalle Rsf, “che usano le armi per intimidire, e sono sempre in gruppo”. Parla di un video arrivato alla sua organizzazione in cui si vedono alcuni soldati sparare per aria o fare la guardia mentre altri violentano delle donne.

Ci sono segnalazioni, meno numerose, di stupri commessi dall’esercito. “Lo stupro è usato come arma da entrambe le parti. Le notizie che riceviamo sono solo la punta dell’iceberg”, dice Z. “Anche i soldati dell’esercito sono coinvolti, soprattutto i militari arruolati di recente. Nelle aree da Damazin a Omdurman abbiamo ricevuto un picco di segnalazioni”.

Le donne sudanesi a volte sono chiamate candace o kandaka, dal titolo conferito a una serie di regine dell’antico regno di Kush. La seconda di queste otto grandi regine, Amanirenas, guidò una campagna militare intorno al 26 aC per impedire ai romani di occupare il suo territorio.

Nel 2018 le donne sudanesi sono state in prima linea nelle proteste contro il dittatore Omar al Bashir. La loro fierezza gli è valsa una venerazione pari a quella dovuta alle candace che lottavano per il loro popolo. Più della metà delle famiglie sudanesi sono guidate da una figura femminile forte, perché i mariti sono andati all’estero per lavorare, sono stati uccisi o sono spariti nei conflitti. Al tempo stesso ci si aspetta che le sudanesi si conformino ai modelli tradizionali, e siano esempi di castità, che gli uomini della famiglia devono salvaguardare.

Simboli complessi

Z spiega che i corpi delle donne sono “diventati parte del campo di battaglia”, mentre lo stigma sociale “impedisce a molte di chiedere aiuto. Questo causa traumi psicologici a loro e alle famiglie. Abbiamo a che fare con una comunità musulmana conservatrice, nella quale i corpi femminili sono simbolo di onore e purezza. Il simbolismo è molto complicato”.

Degefa spiega che il valore sessuale di una donna è legato a “quanto è ‘pura’ e ‘pulita’. Gli uomini in divisa usano la violenza sessuale per rafforzare gerarchie di genere radicate, che collocano le donne, di qualunque etnia o religione, al livello più basso della società”.

Secondo Mohammed Abubaker, medico e fondatore dell’organizzazione filantropica Fill-a-heart, la violenza sessuale fa parte della strategia delle Rsf fin dalla loro prima comparsa in Darfur vent’anni fa. “Usano questi metodi per piegare le popolazioni e imporsi come dominatori”, dice, aggiungendo che nello scontro con le forze armate sudanesi le Rsf non sono riuscite a raggiungere quest’obiettivo.

Hiba Sharief, una dei responsabili del Sudan crisis program, afferma che lo stupro “è semplicemente una cosa che viene ‘insegnata’ ai miliziani delle Rsf”. Li descrive come “combattenti prezzolati con l’ordine di scatenare il caos e distruggere le fondamenta del Sudan”, precisando che molti di loro sono originari della Repubblica Centrafricana, del Ciad, del Mali e del Niger.

Lo stigma sociale e familiare causato dalle violenze sessuali torna spesso nelle conversazioni con i medici. Ma forse qualcosa sta cambiando, dice Z. Alcune vittime, come per esempio due donne di Ombada, una località a ovest di Khartoum, non sono andate in ospedale per paura dei pregiudizi, ma almeno hanno chiesto aiuto e cure mediche. Z aggiunge che nelle chat di quartiere ci sono uomini che hanno denunciato apertamente le violenze contro le donne delle loro famiglie e che hanno scritto dei messaggi per sapere cosa potevano fare per aiutarle, visto che le cure non erano accessibili.

Fare rete

Durante la guerra in Darfur, finita ufficialmente nel 2020, alcune organizzazioni umanitarie internazionali e locali avevano aperto dei centri per affrontare la crisi causata da diciassette anni di conflitto. Quando quest’anno sono scoppiati i combattimenti, quelle organizzazioni hanno allontanato il personale perché le loro strutture sanitarie venivano sistematicamente distrutte. Secondo l’unità sudanese dell’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (Ocha) nel luglio scorso l’80 per cento degli ospedali sudanesi non era operativo.

La carenza di servizi per le sopravvissute alle violenze sessuali è stata colmata dalle iniziative coraggiose e creative di alcune reti civiche. Amira (nome di fantasia), che ha poco più di vent’anni ed è impiegata in una banca a Nyala, racconta che le notizie degli stupri vengono condivise sulle chat, insieme alle informazioni sulle farmacie e sugli ambulatori che offrono aiuto.

“Ci affidiamo ai gruppi WhatsApp”, spiega. “La copertura dei cellulari e della rete internet è molto scarsa, perciò è difficile sapere esattamente cosa sta succedendo, ma sequestri e stupri dilagano. Non è una novità in Darfur, ci siamo già passate”.

Ma’ab Salah Labib, una psicologa che lavora come volontaria con organizzazioni locali e internazionali fornendo supporto online o al telefono, afferma che la sua associazione si è occupata di violenze sessuali compiute a Khartoum Nord e a Omdurman, quattro giorni dopo lo scoppio delle ostilità. “Molti stupri sono avvenuti davanti alle famiglie delle ragazze. Alcune di loro erano minorenni. I casi sono tantissimi”.

Proprio come con la guerra in Etiopia, si alimenterà lo stereotipo secondo cui le donne africane sono “vittime dell’indifferenza”

All’inizio di maggio Labib seguiva già tredici casi. I combattimenti impediscono ai volontari di raggiungere le sopravvissute, afferma, e le sedute in presenza sono impossibili nelle aree occupate dalle Rsf. “C’erano degli specialisti in alcuni ospedali ai quali passavamo dei casi, ma oggi quegli ospedali non funzionano più. Possiamo solo consigliare cosa fare, dove andare, che medicine prendere”, osserva.

I legan (i comitati di emergenza e resistenza) di quartiere si sono fatti avanti. Questi gruppi civili di base, nati con la rivoluzione del 2019, documentano le violazioni dei diritti umani e forniscono assistenza sanitaria, aiuti alimentari e logistici, in un paese in cui molti dei servizi di base sono al collasso.

“I legan sono una forza importante, i loro appartenenti rischiano la vita per aiutare chi ne ha bisogno, soprattutto le donne che hanno subìto uno stupro”, racconta Z. Per molti, dentro e fuori dal Sudan, le organizzazioni locali sono anche la principale fonte d’informazioni.

Sharief spiega che il gruppo da lei coordinato mette in contatto le vittime di violenze sessuali con organizzazioni come la Sudanese-American physicians association (Associazione dei medici sudanesi-americani), che può fornire consulenze a distanza. Ma la maggior parte delle sopravvissute non riceve cure entro le prime 72 ore, una finestra cruciale per “evitare le gravidanze e le malattie sessualmente trasmissibili”, dice Sulaima Ishaq el Khalifa del Cvaw. “Poi, se riusciamo e se ne abbiamo la possibilità, forniamo le terapie antiretrovirali e contro l’epatite”.

Z aggiunge che se le donne si rifiutano di essere visitate da un medico in ospedale prima di ricevere farmaci e il kit per la raccolta di prove, cosa che spesso succede, sono indirizzate a farmacie e a studi privati per sottoporsi a visite di controllo. A causa di questo sistema frammentario le donne che hanno bisogno di un intervento chirurgico e di un supporto psicologico potrebbero non averlo, con tutti i rischi fisici e mentali associati, tra cui il “possibile suicidio”, sostiene Z.

I kit per la raccolta di prove non sono facili da reperire e, anche se nel paese ci sarebbero i farmaci necessari, spiega Sharief, spesso non sono accessibili. L’ong Medici senza frontiere (Msf) aveva i kit e i farmaci necessari per almeno duecento pazienti, ma il suo magazzino a Khartoum è stato saccheggiato.

“Ci stiamo concentrando sulla riapertura di alcuni ospedali, per alleviare un po’ la pressione”, afferma Abubaker di Fill-a-heart. Ma il sistema sanitario non è risparmiato dalla guerra: i medici subiscono minacce e campagne diffamatorie di entrambe le parti, cosa che gli impedisce di curare tutti i pazienti allo stesso modo e costringe molti di loro a nascondersi.

Lo sforzo di documentare

“Inizialmente eravamo tutti sconvolti, quindi ci è voluto un po’ per cominciare a valutare e registrare le violenze”, afferma Salah di Emergency lawyers.

Lo stigma e il blocco causato dal trauma, così come il mancato accesso alle cure, complicano il lavoro di documentazione e denuncia. Alcuni operatori sanitari condividono sui social network linee guida o i contatti di chi può aiutare.

Honey (nome di fantasia), studente di medicina al quinto anno, racconta di come lei, sua madre, sua sorella e sua nonna a casa dormissero rannicchiate nella stessa stanza per confortarsi a vicenda. Dopo cinque giorni di combattimenti, una notte hanno sentito delle urla. Al buio per la mancanza di elettricità, i suoni si percepivano più nettamente.

“Poi ci sono stati gli spari, per interrompere quelle urla. Il silenzio durava qualche secondo, poi le grida ricominciavano. Poi di nuovo spari. Le urla non si fermavano, e non c’era nulla che potessimo fare. Pregavamo che fosse una rapina, ma sapevamo che non era così”, dice. “Mia madre si è messa a leggere il Corano. Mia sorella piangeva e respirava con difficoltà. È stata la notte più lunga e spaventosa della mia vita”.

La mattina dopo Honey è andata al negozio all’angolo e ha chiesto al commerciante cos’era successo la notte prima. Sperava le dicesse che era stato solo un saccheggio. “Ma lui ha risposto: ‘Le figlie di Tizio e Caio sono state violentate’”.

“Continuo a pensare: Sarei dovuta andare ad aiutarle? Cosa potevo fare?”, si chiede.

Degefa sostiene che lo stupro come arma di guerra non è una priorità per la comunità internazionale e “non sarà parte di un futuro programma di riconciliazione nazionale”. Proprio come nella guerra in Etiopia, alimenterà lo stereotipo secondo cui le donne nere, soprattutto le africane, sono “vittime dell’indifferenza”. Inoltre, afferma, a livello internazionale si tende a pensare che questa forma di violenza vada affrontata dai singoli paesi.

“Stanno succedendo tante cose ma non abbiamo informazioni: non c’è la polizia, non ci sono prove né nomi”, dice El Khalifa. Cita le violenze sessuali durante la guerra in Darfur o i resoconti del 2019 secondo cui i miliziani delle Rsf avrebbero stuprato decine di donne che partecipavano a un sit-in pacifico a Khartoum. In entrambi i casi “i colpevoli non sono mai stati giudicati”.

Husna racconta: “Ho avuto le mestruazioni quattro giorni dopo lo stupro e non sono mai stata così felice. È stato il più grande sollievo che abbia mai provato”. La donna aspetta il momento in cui sarà di nuovo insieme al marito, per poi dirigersi con lui verso un’altra città in Sudan e rifarsi una vita.

“Sto bene, ho il sostegno di mio marito e averlo al mio fianco mi ha aiutato molto. Ha alleviato questa terribile esperienza. Appena riuscirà a lasciare Khartoum lo raggiungerò”. ◆ fdl

Da sapere
Occhi puntati sul Darfur

“Quattro mesi di combattimenti hanno devastato il Sudan”, scrive il sito The New Humanitarian. “Più di quattro milioni di persone hanno dovuto abbandonare le proprie case e tra queste un milione è scappato all’estero. Un numero imprecisato di civili e combattenti è stato ucciso. Molti cadaveri sono stati nascosti in fosse comuni dopo attacchi che sempre più spesso sono a sfondo etnico. Stupri e violenze sessuali dilagano, soprattutto nella regione occidentale del Darfur. Anche se il conflitto tra l’esercito sudanese e le Forze di supporto rapido (Rsf) è a uno stallo, lo stop dei commerci, dei lavori agricoli e delle operazioni umanitarie causa nuove vittime. Più del 40 per cento dei sudanesi deve fare i conti con ‘alti livelli’ d’insicurezza alimentare e si prevede che entro settembre 1,5 milioni di bambini saranno colpiti dalla crisi alimentare. I colloqui di pace sono fermi e i fondi per gli aiuti umanitari coprono solo il 25 per cento delle necessità”.

“Quando, a metà aprile, sono scoppiati i primi scontri a Khartoum, l’orrore immediato per le sofferenze dei civili è stato oscurato da un timore più grande: che il conflitto potesse diffondersi nel resto del paese, scatenando un nuovo ciclo di violenze etniche in Darfur”, scrive il Guardian. “Questi timori si sono avverati. ‘Non siamo sull’orlo di una catastrofe, ci siamo già dentro’, ha detto il procuratore capo della Corte penale internazionale, Karim Khan. Secondo i resoconti delle organizzazioni per i diritti umani, le Rsf e le milizie arabe loro alleate stanno prendendo di mira la minoranza masalit. A giugno il governatore del Darfur occidentale, Khamis Abdallah Abbakar, è stato assassinato dopo aver criticato pubblicamente le Rsf. Nel giro di poche ore centinaia di adulti e bambini sono stati uccisi mentre cercavano di abbandonare la città. A differenza della violenza di vent’anni fa, in cui morirono trecentomila persone, questa volta la catena di comando è meno chiara. Inoltre, le tensioni tra le popolazioni non arabe e quelle arabe non sono mai state risolte. Oggi sono state acuite dalla crisi climatica e si sono riaccese”. ◆


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Questo articolo è uscito sul numero 1527 di Internazionale, a pagina 50. Compra questo numero | Abbonati