È ancora buio quando m’incammino su via Petrakjia, verso la facoltà di musica dell’università, disorientato e confuso dalla realtà del primo mattino a Sarajevo. Il campanile della cattedrale, giusto dietro l’angolo, suona le sei in punto. Dopo l’ultimo rintocco della campana, il suono irritante di una chiamata con vibrazione perfora la mia mente assonnata. Adesso che c’è? Prendo il telefono.

“Ehi, dove sei?”.

Sembra arrabbiata.

Guardo il telefono: sono le 6.02. Maledetta cattedrale. È possibile che stamattina non si è svegliato neanche Dio?

“Qual è il problema? Sono in ritardo solo di due minuti!”, dico, arrabbiandomi a mia volta. “Non siamo mica in Svizzera!”.

Proprio in quel momento la vedo in fondo alla strada, all’angolo tra Štadler e Pehlivanuša, com’eravamo d’accordo, accovacciata davanti alla sua auto. Anche lei mi ha visto. Entrambi mettiamo via i telefoni. “Sbrigati!”, grida.

A Rada non piace quando i passeggeri sono in ritardo, e non perché non sia paziente. Quando il suo lavoro lo richiede è disposta ad aspettare, anche per ore se necessario. Ma non oggi: ha una tabella di marcia serratissima. Alle 6.05, poco dopo Parkuša, dobbiamo prelevare un pacco. Alle 6.25, a Dobrinja, ci aspetta un ragazzo che deve andare a lavorare in un albergo sulla costa albanese. Alle 6.30, nel quartiere di Mojmilo, di fronte alla moschea Re Fahd – la più grande di Sarajevo, donata dall’Arabia Saudita – dobbiamo passare a prendere una dottoressa. È una donna robusta, e approfitta spesso di questo servizio. Poi andiamo a Pale: Ivana, una programmatrice, deve raggiungere Belgrado per una riunione di lavoro e una visita alla famiglia.

Rada sa che se io sono in ritardo di due, tre o cinque minuti, tutti gli altri dovranno aspettare almeno altrettanto o anche di più, se rimaniamo bloccati a un semaforo. E Rada detesta far aspettare i passeggeri. Anche chi aspetta i suoi passeggeri – e chi magari non aspetta loro, ma i pacchi che Rada porta con sé, spesso altrettanto importanti – odia aspettare. Soprattutto, Rada vuole raggiungere il fiume Drina e attraversare il confine prima che il traffico diventi insostenibile, cioè intorno alle 8.30. Se non ci riusciamo, tutte queste persone dovranno attendere molto di più.

“Lo capisci adesso, qual è il problema?”, mi chiede bruscamente, dopo avermi fatto un riepilogo dettagliato della situazione mentre sfrecciamo alla velocità della luce su una via Tito deserta, verso Marin Dvor.

Mi vergogno un po’.

“Ma che ci vuoi fare? Arriveremo”, dice. “Come stai? Che novità? Come sta tua madre?”.

Da quando ha cominciato a caricare passeggeri tra Sarajevo e Belgrado, vent’anni fa, Rada svolge un servizio di trasporto supplementare, lavorando all’interno di una rete postale informale. Porta tutto quello che le chiedono di consegnare, a condizione che sia lecito e che entri nell’auto. Nella maggior parte dei casi è così.

“Una volta, a Belgrado, è venuta da me una donna che aveva comprato tutto l’immaginabile. Entrava nei negozi e cominciava a riempire le sue borse: mi dia questo, mi dia quello. Si è presentata con due sacchi enormi e mi ha chiesto se c’era abbastanza spazio nel bagagliaio. Io ho dato un’occhiata, e in cima a un sacco c’era una busta gigante di popcorn. Va bene, signora, ho pensato tra me e me, ma c’è bisogno di portare pure i popcorn? A Sarajevo i popcorn ci sono! Ma che dovevo fare, mi ha detto che li doveva portare alla madre… Avremmo trovato lo spazio!”.

Questa volta Rada non è l’unica a fare consegne. Anche la mia borsa è piena di pacchi. Sto portando a un amico un cartone di sigarette Drina, una marca di Sarajevo, e la notte scorsa mi hanno affidato una busta con alcuni documenti (non so cosa siano né per chi, ma è importante che arrivino a Belgrado appena possibile) e un sacchetto pieno di una strana polvere dai grossi grani e dalla consistenza ruvida. L’uomo che mi ha dato il sacchetto mi ha detto il nome della sostanza ma non ho capito. Poi l’ha ripetuto. Io non ho capito lo stesso, ma ho deciso di far finta di sì. Adesso mi chiedo se è legale. Spero di sì, sembrava un tipo a posto. Anche la persona che ci ha messo in contatto per la consegna del pacco sembrava a posto. In ogni caso, è meglio non dire niente a Rada. Se c’è spazio per il popcorn, dev’esserci anche per la mia strana polvere.

Salto di trecento chilometri e di qualche mese: è un movimentato pomeriggio di primavera alla stazione degli autobus di Belgrado.

Avanzo a grandi falcate verso la biglietteria. I miei passi si accorciano; lo stretto corridoio tra gli sportelli e gli stalli brulica di passeggeri, valigie, grida, corse, sguardi confusi, baci e abbracci. In mezzo al trambusto, i miei occhi si posano sul vecchio orologio della stazione. Le lunghe lancette bianche segnano un orario rassicurante: sono le 15.49. Mi piace quando sono in anticipo, anche se solo di un minuto.

In quel momento squilla il telefono. “Dove sei?”. Non sembra arrabbiato ma capisco dalla voce che è arrivato prima di me, e in orario. Sto per rispondere che sono io a essere arrivato in anticipo, ma poi guardo il telefono. Sono le 15.52. Oddio.

C’incontriamo all’ingresso. Non ci siamo mai visti prima, ma ci riconosciamo facilmente. Ha in mano una grossa scatola con dentro un sintetizzatore, che devo consegnare a un amico comune. Prendo la scatola. “Ok, è tutto”, e ci separiamo. Sono il corriere di una missione importante e non ho tempo da perdere in convenevoli. Corro allo sportello e compro un biglietto.

Fuori, allo stallo numero 4, l’autobus per Pristina si sta riempiendo.

Ho cominciato il mio “lavoro” come corriere nell’autunno del 2020. Viaggiavo tra Belgrado e Pristina talmente spesso che la gente se n’è accorta.

Rada svolge un servizio di trasporto supplementare all’interno di una rete postale informale. Porta tutto quello che le chiedono di consegnare

Così, un giorno, ho ricevuto la chiamata di un amico che non sentivo da un po’ ma che in qualche modo era venuto a sapere dei miei spostamenti. Una famiglia di Pristina era andata in vacanza a Belgrado e quando era tornata si era accorta che la figlia aveva dimenticato là una bambola. Anche se sulla cartina del meteo della tv di stato serba Pristina fa parte della Serbia, per il servizio postale serbo la città non esiste, come tante altre zone del Kosovo dove i serbi non sono la maggioranza. I servizi di spedizione privati sono troppo cari. L’unico modo per far arrivare la bambola a Pristina era farsela portare da qualcuno.

“Potresti farlo tu? Non è urgente. Ma in realtà sì. È la sua bambola preferita”.

La volta dopo la richiesta è venuta dall’altra parte: “Ehi, lo vendono ancora il cognac Skanderbeg? Per favore procuramene due bottiglie, mi manca tanto!”. Poi, da Pristina: “Non è facile trovare le pellicole per le macchine fotografiche analogiche, e a Belgrado c’è un negozio dove non costano tanto. Me ne porti un po’?”. Qualche mese dopo, nella lista dei miei ordini figuravano dischi in vinile di gruppi new wave di Belgrado, un chilo di salsicce essiccate, le chiavi di un appartamento e i libri di Petrit Imami sulla storia comune di serbi e albanesi (fortunatamente, ma paradossalmente, a Belgrado sono andati esauriti).

È stato allora che ho cominciato a notare che quasi tutti gli scambi privati tra il Kosovo e la Serbia – tra familiari stretti, cugini e amici, tra chi se n’è andato, chi è scappato, chi è rimasto e chi è a metà strada – tutti questi scambi, dicevo, dipendono da tre autobus che si spostano giorno e notte tra Belgrado, Pristina e Prizen, e dal piccolo gruppo di persone che ci viaggia sopra.

Mentre gli autisti nelle loro candide camicie bianche caricano frettolosamente i bagagli, la mia attenzione è attirata da una vecchia signora vestita di nero che se ne sta in piedi vicino a un gigantesco borsone a scacchi. Non mi è chiaro come lo abbia portato fin qui. Aspetta pazientemente in fila. Mi sorride, credo di piacerle. Cominciamo a parlare.

“In che parte del Kosovo va?”.

“Non sto partendo, figliolo. Sto mandando delle cose alla mia famiglia”.

Sto per chiederle cosa sta mandando, ma basta uno sguardo all’enorme borsone per avere la risposta. È pieno di cibo preparato in casa meticolosamente imballato in scatole per il gelato e grossi barattoli di vetro. Vedo anche una vecchia confezione di plastica di una marca di formaggio di Sombor, avvolta in spessi elastici in modo che qualunque contenuto misterioso ci sia all’interno, forse un’insalata, non fuoriesca durante il viaggio.

Sua sorella vive con la famiglia a Gračanica, vicino a Pristina. Non li vede da quando è scoppiata la pandemia. Spera di andarli a trovare presto, magari il mese prossimo, quando avrà finito una serie di controlli medici.

“Manda spesso delle cose?”.

“Non tanto spesso. A casa hanno da mangiare, non è che non ce l’hanno. Però gli piace quando cucino per loro. Mia nipote ha festeggiato da poco il compleanno. Ecco, qui c’è la torta! Carico tutto sull’autobus, è comodo. Altrimenti sarebbe impossibile”.

Mi fermo un attimo a pensare come sarebbe spedire cibo fatto in casa all’ufficio postale. La faccia seria dell’impiegato allo sportello che mi guarda attraverso il vetro. Cosa c’è nella scatola? Una torta alle fragole e del sarma con costolette essiccate! In quanto tempo deve essere consegnato? Subito, altrimenti va a male, ha visto che caldo fa? Valore dichiarato? Inestimabile!

Dopo diversi viaggi e decine di conversazioni con gente che spedisce e riceve nei Balcani, scopro che il problema non è solo il cibo.

Zio Pera sta tornando a Lipjan; abita lì da più di sessant’anni. È andato in visita a Belgrado. Siamo seduti vicini sull’autobus. Quando siamo più o meno al casello di Bubanj Potok gli offro dei biscotti Plazma. In cambio, quando ci fermiamo per una sosta a una stazione di servizio nei pressi di Pojate, mi dà una sigaretta. Gli chiedo se spedisce o riceve qualcosa dalla Serbia per posta. Dice risolutamente di no.

“Con quelli non si sa mai! Due mesi fa mio figlio ha chiesto dei documenti per la macchina a un amico a Kraljevo. Ancora non sono arrivati”.

Zio Pera, chiaramente, non si fida delle istituzioni. E a giudicare dal numero di oggetti che viaggiano ogni giorno sull’autobus, non è il solo.

Seduto tra gli autisti, nella penombra di un bar chiamato malinconicamente Evropa, cerco di capire cosa sta spedendo la gente. I passeggeri stanno quasi tutti fuori, in attesa del segnale della partenza.

“Sta cercando di scoprire se trasportiamo droga?”, mi chiede brusco un tipo, mentre mi offre un pezzo di pollo appena tirato fuori dalla carta argentata.

Il pollo me l’ha offerto solo per cortesia. La domanda tradisce un’aperta diffidenza. Sei un giornalista che scrive di chi spedisce oggetti sull’autobus? E perché fare una cosa del genere? E cosa significa? Stanno spedendo cose interessanti? Che ci può essere di tanto interessante?

Davide Bonazzi

“Non ti preoccupare, non sono un poliziotto”, gli dico. Tiro fuori il tesserino da giornalista. Afrim si pulisce le dita e dà un’occhiata con sincera curiosità.

“Cosa spedisce la gente? Be’, un po’ di tutto. Soprattutto documenti”, dice Afrim. “Moduli per le pensioni qui a Belgrado, per chi ha lavorato in qualche azienda prima della guerra, o pratiche immobiliari, se qualcuno deve vendere una proprietà in Kosovo. Medicine. Qualcuno manda anche soldi. Telefoni cellulari, vestiti. Di tutto”.

“Vi capita di avere dei problemi?”, chiedo. Afrim mi guarda di traverso. Pensa di nuovo che sono un po­liziotto.

Interviene il suo collega Edin: “A volte succede che le persone non si presentano per ritirare la roba. O che ci chiedono di aspettarle da qualche altra parte. Ma perché diavolo dovrei aspettare?”.

“Che succede alla roba?”.

“La restituiamo all’agenzia e il mittente se la va a riprendere”.

“Capita che non la ritiri nessuno?”, chiedo, immaginandomi un magico negozio di antiquariato pieno di oggetti sparsi che i proprietari hanno dimenticato nel corso degli anni, ognuno con la sua storia, ordinaria e insolita allo stesso tempo. Sarebbe bellissimo!

Afrim interrompe brutalmente la mia fantasia. “No, mai. Vengono sempre. Forza, andiamo”.

Spedire pacchi con l’autobus o con il taxi, affidandoli all’autista, a un amico o a un conoscente, è una delle invenzioni sociali più funzionali dei Balcani. I tempi di spedizione coincidono con il viaggio. E in una regione dove i collegamenti ferroviari e aerei sono stati distrutti o semplicemente cancellati, è il modo più veloce per spedire e ricevere.

A occuparsi della consegna è una persona specifica: l’autista o un amico. Deve essere qualcuno che conoscete o che almeno avete incontrato, qualcuno a cui avete stretto la mano o con cui avete scambiato qualche parola. A quanto pare, in quei trenta o sessanta secondi si crea un livello di fiducia che è impossibile stabilire con gli impiegati delle poste, nascosti dietro gli sportelli con le loro foto promozionali di camioncini gialli che arrivano sempre in orario.

Di chi vi fidereste di più? Di un’azienda che vi garantisce che la vostra spedizione sarà consegnata entro 48 ore e vi dà la possibilità di tracciare l’invio attraverso un codice speciale, o di un autista che alla domanda “quando arriverà, più o meno?”, rivoltagli con la massima cautela affinché non pensi – per carità! – che gli volete mettere fretta, perché lui ha il diritto di arrivare quando gli pare, prima guarda nel vuoto, poi fa un tiro di sigaretta e infine dice espirando: “Dipende dal traffico, ma non prima delle nove”. È sempre prima dell’orario reale. Meglio far aspettare voi che l’intero autobus.

Chissà perché, nei Balcani, per un numero incredibile di persone la risposta corretta è la seconda.

E poi c’è la questione del prezzo.

Quando spedite per posta, c’è una serie di criteri che incide. Il peso, il valore dell’oggetto, la distanza, la velocità della consegna. I siti e le app sono pieni di tabelle dettagliate e calcolatori che vi permettono di stimare il prezzo al centesimo. Con o senza calcolatore, spesso è piuttosto alto. Per esempio, mandare un pacco che pesa mezzo chilo dalla Serbia alla Bosnia senza ricevuta di ritorno, escluse le spese d’imballaggio o del trasporto aereo, costa circa 18 euro. Se volete spedire lo stesso pacco in Kosovo con la Dhl, il prezzo è intorno ai 50 euro.

Quando invece s’invia informalmente, ecco che si entra in un magico rituale balcanico, governato da regole chiare all’interno delle quali, però, non c’è assolutamente niente di chiaro. Quando un amico o un conoscente prende in carico un pacco, offrirgli dei soldi per il servizio è come insultare sua madre. Una regola non scritta prevede d’invitarlo a bere un succo di frutta o un caffè, ma con discrezione, per far capire che non lo state invitando solo perché vi ha dato una mano ma perché volete davvero bere con lui.

Allo stesso tempo, è quasi scontato che rifiuterà l’invito, perché nessuno di voi due ha il tempo né la voglia di bere. Se aveste veramente voglia di godervi un drink, lo fareste a prescindere dal pacco. Se però non gli offrite di bere insieme, siete in debito con lui.

Con gli autisti le cose sono un po’ diverse. Ogni giorno portano pacchi oltre frontiera, assumendosi un rischio (anche se spesso controllano cosa c’è dentro; se sembra illegale, pericoloso o fragile, si rifiutano di caricarlo a prescindere dalla cifra che gli offrite). Tengono attentamente traccia di quello che trasportano, di chi sono i destinatari e di dove li aspettano. Appuntano nomi e numeri di telefono, chiamano i mittenti da stazioni di servizio male illuminate, litigando con i ritardatari o con chi semplicemente si dimentica di venire a ritirare il pacco.

In parole povere, si aspettano di essere pagati, e ci mancherebbe altro. Ma trasportare oggetti sull’autobus non è esattamente la norma, e le aziende formalmente non lo permettono, perciò non esiste un tariffario ufficiale. Il prezzo dipende da cosa spedite e a volte dall’umore dell’autista: alcuni chiedono l’equivalente del prezzo pieno di un biglietto, altri la metà. Altri ancora lasciano che siate voi a fissare autonomamente il prezzo del servizio.

Davide Bonazzi

Ed ecco che arriviamo alla preziosa regola sociale nota come “quel che ti senti di darmi” (kol’ko daš). Come qualsiasi cosa da queste parti, la regola non è ciò che sembra. In superficie, siete liberi di valutare in autonomia il valore del servizio. In realtà, quella che state valutando è la valutazione della controparte, cioè quanto dovete offrire affinché l’interlocutore non si offenda. Ecco perché il più delle volte si paga di più dell’effettivo valore del servizio.

Comunque, è sempre meno caro delle poste, e incomparabilmente più divertente.

La tabella di marcia è serrata, ma Rada ci concede una veloce sosta alla stazione di servizio perché qualcuno deve andare in bagno. Sfrutto l’opportunità per fumare una sigaretta, o meglio, è quello che vorrei fare ma mi accorgo che le ho finite. Fortunatamente ho il cartone di sigarette Drina che devo consegnare a Bojan, il mio amico di Belgrado. Non si arrabbierà.

Le parole Drina e Sarajevo hanno un significato importante nella sua vita, e non solo per le sigarette. Bojan fa parte di un piccolo gruppo di giornalisti serbi che continuano coraggiosamente e coerentemente a scrivere dei crimini di guerra serbi in Bosnia negli anni novanta. Ogni settimana, sulla mia casella di posta elettronica arrivano link ad articoli che, temo, quasi nessuno legge.

Bojan però non si arrende. In questo momento sta lavorando a un documentario sul circolo di Belgrado, un gruppo non tanto piccolo d’intellettuali progressisti e pacifisti che all’inizio degli anni novanta si ribellarono al regime, alle guerre e ai crimini di Miloše­vić. Trent’anni dopo non è rimasta neanche una lontana eco delle loro voci nel panorama politico serbo. Ormai è solo un ricordo nella testa di una cerchia ristretta di devoti.

Mentre attraversiamo in auto la Romanija, mi sento come se stessimo viaggiando in una delle storie del mio amico. C’immergiamo nel meraviglioso paesaggio della Bosnia orientale e vediamo cartelli con alcuni dei più orribili toponimi della guerra, luoghi di cui in Serbia molti hanno sentito parlare solo nelle testimonianze al tribunale penale internazionale dell’Aja, simboli di massacri, stupri e pulizia etnica. È qui, poco prima di Sokolac, che troviamo la svolta per Rogatica. Si sale per arrivare a Han Pijesak, poi si passa per Vlasenica, quindi per Milići e Zvornik, e se da Zvornik proseguite verso sud, arrivate a Srebrenica.

Rada, una profuga serba di Sarajevo che è fuggita dalla città all’inizio della guerra, oggi vive a Pale e ha un punto di vista molto chiaro sull’argomento: “Siamo stati fortunati. Nessuno ha mai fatto male a me o alla mia famiglia e noi non abbiamo fatto male a nessuno”. In caso contrario, credo che sarebbe stato impossibile fare il suo lavoro. “Sono tornata a Sarajevo subito dopo la guerra. Non avevo niente da nascondere”.

Finalmente arriviamo al fiume Drina.

“Prima fumavo le York di Rovigno”, mi dice Bojan. “Poi nel 1991 abbiamo interrotto tutti i rapporti con la Croazia e sono passato alle Drina”. Pessima scelta, perché anche i rapporti con la Bosnia non durarono a lungo. Bojan ricominciò a fumarle a Sarajevo nei primi anni duemila. Lui adora Sarajevo; a volte ci va, sparisce per un po’ e ritorna rigenerato.

Ma poi, perché diavolo gli sto portando le Drina? Non si trovano anche a Belgrado? Per qualche motivo a marzo del 2022, dopo centoquarant’anni, la fabbrica del tabacco di Sarajevo ha chiuso, anche se quasi un terzo dei bosniaci adulti sono fumatori accaniti. Le vecchie Drina però si trovano ancora nei negozi, e finché durano Bojan vuole continuare a fumarle.

Mi domando se si possa dire lo stesso del circolo di Belgrado. L’antimilitarismo in Serbia non esiste più, e per anni ci siamo aggrappati a dei fondi di magazzino. Adesso però stanno finendo.

Sono passati i tempi in cui la frontiera di Merdare era un posto in cui bisognava sempre aspettarsi dei problemi, al posto di blocco kosovaro (se eri serbo) o a quello serbo (se eri albanese). Eppure, mentre ci avviciniamo al confine da Kuršumlija, nell’autobus scende il silenzio e l’atmosfera si fa più cupa e tesa. C’è una sensazione di sinistra anticipazione. Forse le scene di desolazione intorno a noi contribuiscono all’effetto. Campi deserti, strade deserte, case deserte. E una striscia d’asfalto completamente deserta che sembra portare alla fine del mondo.

Qua e là, sui cartelli lungo la strada compaiono toponimi albanesi: Kastrat, Ljuša. Qui vicino c’è anche il villaggio di Arbanaška. È da tanto tempo, però, che da queste parti gli albanesi non si vedono più. Su una collina vicino a Degrmen, a due chilometri da Merdare, si stagliano le rovine scure della chiesa di Beć, costruita a partire dal 1912 con i soldi degli immigrati serbi provenienti dal Sangiaccato, dal Montenegro e da Zubin Potok, attirati dalle terre degli albanesi e dei turchi che erano fuggiti dal Kosovo dopo la guerra serbo-ottomana del 1876. Dopo la prima guerra mondiale, a causa della povertà, i lavori della chiesa furono rimandati a tempi migliori, che non sarebbero mai arrivati. Anche i serbi non sono rimasti in tanti; la strada dissestata per il mitico Kosovo attraversa una delle municipalità più povere della Serbia.

Le istruzioni in serbo e albanese rimbombano in tutto l’autobus: “Preparate le carte d’identità!”. In virtù del non riconoscimento reciproco della Serbia e del Kosovo, i passaporti dei cittadini kosovari e serbi qui non valgono. Prima entra il poliziotto serbo. In un silenzio di tomba raccoglie le carte d’identità e le separa attentamente nella sua mano, poi esce. Dopo il controllo, l’autista ci riconsegna le carte d’identità, ma le teniamo soltanto per un minuto, perché è il turno del poliziotto kosovaro. L’intera procedura si ripete da capo.

Tutto a un tratto c’è un problema. Il funzionario doganale si è fermato vicino al bagagliaio posteriore. Litiga con l’autista e gli fa vedere qualcosa. I passeggeri sul lato destro dell’autobus lo fissano intensamente, e i passeggeri sul lato sinistro fissano intensamente quelli sul lato destro perché non vedono l’agente doganale. Cos’ha trovato? Ci faranno passare? Paure sepolte riaffiorano in superficie. Improvvisamente, sappiamo che può succedere di tutto.

L’autista scuote la testa. Anche il funzionario scuote la testa. È come se non volesse avere a che fare con tutta questa storia. Chiude sbattendo il portellone del bagagliaio. Ho la sensazione che possiamo riprendere a respirare.

Entriamo in Kosovo. Ora cominciamo a vedere i cartelli con i toponimi serbi, ma nessun serbo.

Belgrado, fine maggio.

Lula mi saluta nel cortile interno di una vecchia villa nel centro della città. Per la strada impazza la folla di mezzogiorno. Nel cortile, pieno di delicati fiori gialli e rossi, c’è il silenzio assoluto.

Per molti versi Lula è proprio come la villa: elegante, triste e chiusa in se stessa. “Da tanto tempo non esco più di casa”, mi dice. “Questa non è più la mia città”.

Le consegno la lettera e il sacchetto in condizioni perfette e in tempo. Decido di non fare domande sul contenuto della busta. Immagino che ci sia un motivo se è sigillata. Ma non riesco a non chiederle del sacchetto con la polvere misteriosa.

“È tarhana”, sorride Lula. “Un composto per fare la zuppa. Mia zia Ešrefa di Travnik me lo prepara e me lo manda tramite mio nipote. In Serbia lo fanno in un modo diverso. È buono anche quello, ma a me piace quello della zia. In Serbia lo chiamano tarana, l’h non gli piace perché viene dal turco. In Bosnia, invece, hanno comin­ciato a mettere l’h anche dove non c’entra niente”.

Lula ha parecchio da dire sui pacchi che vengono spediti tra Belgrado e Sarajevo. È nata a Sarajevo, ma dalla fine degli anni sessanta vive a Belgrado. Subito dopo l’assedio di Sarajevo cominciò a raccogliere e inviare aiuti umanitari per la città. S’impegnava affinché ogni spedizione arrivasse al destinatario. Combatté per migliaia di spedizioni e di persone. “Oggi, quando vedo una scatola di cartone, mi viene la nausea”.

La lascio sul terrazzo della vecchia villa a osservare i suoi fiori e a rimuginare sul ricordo di un’epoca in cui esisteva ancora una qualche forma di resistenza.

Siamo seduti al ristorante Kraljevo, non lontano dal grande parcheggio su via Sarajevska, a Belgrado, dove Rada di solito fa salire e scendere i passeggeri.

Rada è stata tutta la giornata in macchina ed è molto stanca, ma trova il tempo per parlare. Mi dice che ultimamente le capita di svenire. L’altro giorno è riuscita a malapena a entrare in macchina, ma ha stretto i denti e ha portato passeggeri e pacchi. Ora si sta curando regolarmente e le cose miglioreranno.

È una giornata caldissima. Ordiniamo un pranzo leggero, zuppa e insalata di cavolo. La taverna è vuota, il cameriere è annoiato e fa battute inopportune. Rada elegantemente lo ignora.

“Comunque, ho una storia per te”, mi dice.

“A Sarajevo c’è una donna, Mirsada. Aveva un marito e un figlio. Il figlio aveva un amico, Marko, che non aveva i genitori. A Mirsada stava molto simpatico. Insomma, Marko… fino a quel momento a nessuno importava come si chiamassero le persone. Non si faceva caso ai nomi. A un certo punto è scoppiata la guerra. Mirsada si è chiesta cosa doveva fare con Marko. Lo ha nascosto in casa per evitare che lo ammazzassero. Mi ha raccontato: ‘Rada, l’ho nascosto nel freezer. Mio figlio è andato a combattere, e Marko era nel freezer’”.

“Lo ha tenuto nascosto finché non ha trovato una persona, uno di cui si poteva fidare, che lo ha portato nel territorio della Repubblica serba di Bosnia e poi a Belgrado”.

“E così il tempo passa e Marko diventa un uomo di successo. Mette su famiglia, apre un’attività e tutto fila liscio. Il marito di Mirsada muore e lei rimane a vivere con il figlio. Non so bene i particolari, ma in qualche modo si mettono in contatto con Marko. Figurati, dopo tutti quegli anni…”.

“E poi”, Rada fa una pausa, “poi muore anche il figlio. Mirsada rimane da sola, e Marko diventa l’unica luce nella sua vita”.

“Da allora, da quando ho cominciato a fare questo lavoro, Marko continua a mandarle un sacco di cose. Buste di fagioli, peperoni, noci, kajmak, barattoli di miele. E fa in modo di mandarle anche un po’ di soldi, 50 o 100 euro, ma sempre insieme a qualcosa da mangiare”.

“Allora una volta gli ho chiesto: Marko, ragazzo mio, compri tutte queste cose da mangiare e questa poveretta deve uscire per andarsele a prendere e portarle a casa. Non sarebbe più facile se le mandassi dei soldi in modo che può comprarsele da sola?”.

“Mi ha risposto: ‘Rada, io ci ho provato, ma lei è più contenta quando riceve la sua scatola di kajmak, così può dire, guarda cosa mi ha mandato il mio caro Marko!’”.

Allora finalmente ho capito. A viaggiare non sono le cose, ma le persone. Solo quando le persone non possono viaggiare spediscono le cose. E anche in questo caso, in realtà a viaggiare non sono le cose, ma i sentimenti. ◆ fas

Ilir Gashi è un giornalista kosovaro nato e cresciuto a Belgrado. Si occupa di arte, mezzi di comunicazione, tecnologia e attivismo politico. Questo articolo è uscito su Kosovo 2.0, giornale online indipendente di Pristina, con il titolo Sistemi alternativ postar i ballkanit.

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Questo articolo è uscito sul numero 1497 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati