Ènaturale che i film provochino polemiche. A volte sono la prova che hanno fatto centro, toccando corde profonde nel pubblico a cui erano rivolti. Nel caso di Green border, però, è evidente che abbiamo a che fare con una macchina del fango organizzata e condotta dai politici che sono al potere. L’attacco al film di Agnieszka Holland è cominciato prima ancora che arrivasse nelle sale polacche e che chi lo attacca avesse avuto la possibilità di vederlo. Ed è chiaro che la maggior parte delle accuse rivolte alla regista non ha nulla a che vedere con la pellicola.

Nelle critiche ad Agnieszka Holland e a Green border si ripetono sempre le stesse accuse, cioè che il film è un regalo per Lukashenko e Putin, che è un elemento di un attacco ibrido lanciato contro la Polonia, che ritrae i polacchi come criminali che perseguitano i poveri rifugiati, che persegue gli interessi di centri ostili alla ragion di stato polacca. Dietro a tutte queste imputazioni si nasconde una convinzione molto pericolosa, cioè che il cinema debba essere uno strumento di propaganda governativo, o almeno di stato, e che i registi non allineati siano dei traditori della nazione.

Sostegno pubblico

Questa idea è tipica dei regimi autoritari e anche nella Polonia comunista aveva prevalso solo nei periodi più repressivi. Purtroppo, è proprio questa concezione della cultura, in particolare del cinema, che l’attuale governo porta avanti.

Il programma di Diritto e giustizia (Pis, il partito di destra al potere dal 2015)ha condizionato in modo esplicito il sostegno statale a chi persegua valori vicini al governo. Pokłosie, dramma del 2012 di Władysław Pasikowski, è stato citato come esempio di prodotto culturale che non merita sostegno: “Si usano soldi dei contribuenti per promuovere una visione ingannevole della storia polacca”.

Dopo Pokłosie, che faceva riferimento al pogrom scatenato in un villaggio contro gli abitanti ebrei, è stata la volta di Ida, di Paweł Pawlikowski, descritto da ambienti vicini al Pis come un “film antipolacco” che poteva far pensare agli spettatori stranieri che “i polacchi siano corresponsabili dell’olocausto”. Non sorprende la reazione delle autorità a un film che critica direttamente le loro politiche, per di più in un ambito, l’immigrazione, che è al centro della loro campagna elettorale di quest’anno.

Per i sostenitori del Pis, così come gli autori di Ida e Pokłosie avevano scelto di aderire a una sorta di “guerra narrativa” per spostare le responsabilità dell’olocausto dai tedeschi ai polacchi, Holland dà il suo contributo alla guerra ibrida ingaggiata contro la Polonia da Putin e Lukashenko, che ritrae i polacchi come colpevoli della tragedia dei migranti al confine. Basta vedere Green border per capire che questa tesi è falsa.

Ma ciò che interessa al partito non è “l’immagine della Polonia”, danneggiata più dalla politica dell’odio e dalle intimidazioni lanciate dal governo che dal cinema. È mobilitare l’elettorato intorno a slogan che inneggiano alla “difesa del buon nome della Polonia”, e allo stesso tempo stabilire dei limiti a quello che può essere liberamente detto o mostrato nel cinema polacco.

Poco dopo la proiezione a Venezia, il film di Agnieszka Holland è stato paragonato a Heimkehr (1941) di Gustav Ucicky, opera di propaganda nazista che descriveva l’invasione del 1939 come una liberazione delle comunità tedesche perseguitate in Polonia. Questo paragone non è solo moralmente indegno, ma anche completamente fuori luogo: non si possono accostare la propaganda di uno stato totalitario che giustifica l’invasione di un paese vicino e un film di denuncia, voce di una cittadina preoccupata.

Gli artisti hanno il diritto, forse il dovere, di mostrare ciò che le autorità non vogliono che si veda. Anche durante il periodo comunista, il cinema polacco cercò, nonostante la censura, uno spazio per una comunicazione con il pubblico. Green border s’inserisce in questa tradizione di cinema civico e impegnato, in cui un autore si rivolge alla comunità mettendola davanti a uno specchio e costringendola ad affrontare difficili questioni morali che la riguardano.

Un’altra accusa rivolta a Green border è di “sputare sull’uniforme” dei militari e delle guardie di frontiera che difendono la sicurezza della Polonia e dell’intera Europa. Da sempre il presunto insulto all’uniforme è un’ossessione della destra autoritaria. Quando l’adattamento hollywoodiano di Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque diretto da Lewis Milestone uscì in Germania, nel 1930, i nazisti interruppero le proiezioni e aggredirono il pubblico, gridando che si trattava di un “film giudaico”, un “insulto ai soldati tedeschi” che avevano combattutto nella grande guerra.

Non so se vedremo scene simili nelle sale polacche, ma il linguaggio usato in difesa dell’uniforme per attaccare il film evoca i paragoni peggiori.

Attivisti di destra contestano il film Green border alla prima proiezione a Cracovia, Polonia, 21 settembre 2023 (Beata Zawrzel, NurPhoto/Getty)

Potere ottuso

Negli attacchi a Green border si cita spesso il cinema statunitense, che a quanto pare celebra adeguatamente lo sforzo bellico del paese. Ma il cinema statunitense sa essere anche molto critico. Basta citare Apocalypse now di Francis Ford Coppola, Il cacciatore di Michael Cimino, Vittime di guerra e Redacted di Brian de Palma, o anche Platoon di Oliver Stone. Quest’ultimo tra l’altro vinse quattro premi Oscar nel 1987, durante il secondo mandato presidenziale del conservatore Ronald Reagan, che voleva riabilitare moralmente la guerra in Vietnam.

In generale, il cinema intelligente prevale sul potere ottuso. Le autorità francesi bloccarono per anni l’uscita di Orizzonti di gloria (1957), capolavoro di Stanley Kubrick che denunciava il militarismo più miope raccontando un episodio esemplare, in senso negativo, sull’esercito francese durante la prima guerra mondiale. Il film suscitò l’ira di Parigi, mentre il paese era profondamente agitato dalla questione algerina: si era diffusa la convinzione che insultasse l’onore dell’esercito francese e la memoria dei reduci della grande guerra. La Francia esercitò grandi pressioni per bloccare la proiezione al festival di Berlino. In Belgio, davanti a un cinema, si arrivò allo scontro tra un gruppo di pacifisti che manifestavano il loro sostegno al film e alcuni veterani francesi.

Orizzonti di gloria è diventato un classico in tutto il mondo. E la stessa Francia, oltre a permetterne la circolazione (solo nel 1975) alla fine ha anche dovuto affrontare il problema del trattamento riservato ai suoi soldati durante la prima guerra mondiale. Il valore del film di Kubrick resta indiscusso mentre quasi nessuno ricorda gli stupidi politici che cercarono di metterlo in dubbio. E la storia, si sa, ama ripetersi. ◆ dp

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Questo articolo è uscito sul numero 1532 di Internazionale, a pagina 85. Compra questo numero | Abbonati