Immaginate questa scena: uno scrittore seduto al tavolo della cucina che fa finta di lavorare. Siamo a Londra quarant’anni fa. Nel Regno Unito i conservatori sono al potere ed è andato tutto in malora, ma a noi interessano gli oggetti intorno allo scrittore. Sul tavolo c’è una macchina da scrivere; da una parte c’è una radio a transistor, dall’altra un telefono; nella stanza ci sono anche un frigorifero, un forno, un piano cottura, un tostapane, le chiavi della macchina e un aspirapolvere. Adesso facciamo un salto in avanti di quarant’anni. I conservatori sono di nuovo al potere e tutto è andato in malora un’altra volta; la stanza è un po’ più tirata a lucido (e forse anche lo scrittore), ma gli oggetti intorno sono più o meno gli stessi. O almeno, assolvono alle stesse funzioni, se scambiamo la macchina da scrivere con il computer e il telefono fisso con lo smartphone.

Però è cambiata una cosa fondamentale. Nel 1983 in quella cucina c’era solo una manciata di transistor ed erano tutti dentro la radio a transistor (il nome ci dava un indizio). Nel 2023 ogni oggetto del nostro elenco funziona con un microchip e ognuno di questi microchip è composto da migliaia, milioni, miliardi di transistor. Forni, frigoriferi, aspirapolvere, chiavi della macchina, radio, altoparlanti: oggi contengono tutti dei microchip. Un’automobile comune ne ha qualche decina. Una macchina di lusso ne ha un migliaio. E ci stiamo limitando ai beni di consumo standard della fine del ventesimo secolo. Gli oggetti che consideriamo figli delle nuove tecnologie di questo secolo sono tra i manufatti più complicati e magnifici mai creati dall’umanità, ed è soprattutto grazie ai chip. Il telefono del nostro scrittore è un iPhone 12, che ne usa uno per collegarsi alla rete, uno per controllare il blue­tooth, uno per rilevare il movimento e l’orientamento, uno per il sensore d’immagine, uno per la ricarica wire­less e per la gestione della batteria e dell’audio e un paio per la memoria. La Apple acquista tutti questi microchip da altre aziende, e sono tutti piuttosto semplici in confronto al principale processore del telefono, l’A14, progettato direttamente dalla Apple, che contiene undici miliardi e ottocento milioni di transistor. Il computer dello scrittore, un MacBook Air, usa un altro “sistema su chip”, l’M2 della Apple. Questo singolo chip contiene venti miliardi di transistor. Nel computer ci sono talmente tanti transistor che se lo scrittore tornasse al 1983 potrebbe regalare una radio a transistor a ogni abitante del pianeta e gliene avanzerebbero comunque un miliardo.

In caso vi serva una guida su come siamo arrivati a questo punto, non c’è niente di meglio dell’esaustivo e illuminante Chip war di Chris Miller. Se lavoriamo, viviamo e pensiamo in modo diverso rispetto a quarant’anni fa è grazie alle rivoluzioni dell’economia e delle comunicazioni. La tecnologia che ha permesso queste rivoluzioni è il microchip, che è stato la causa necessaria e la più immediata del passaggio dell’umanità al digitale.

Il processo è cominciato con la valvola termoionica, “un filamento di metallo racchiuso in una campana di vetro simile a una lampadina. La corrente che attraversava la valvola poteva essere accesa e spenta, svolgendo una funzione simile a quella della pallina di un pallottoliere che si sposta avanti e indietro su un’asticella di legno. Una valvola accesa aveva il codice 1, mentre una valvola spenta aveva il codice 0. Queste due semplici cifre potevano produrre qualsiasi numero usando un sistema di conteggio binario, e quindi potevano teoricamente eseguire molti tipi di calcolo”.

Le valvole permettevano a un sistema di essere riprogrammato, potevano essere usate ripetutamente e in modo flessibile, e per calcoli complessi. Però erano ingombranti, si rompevano spesso ed erano difficili da riparare. L’Eniac, il computer più potente del mondo, introdotto dall’esercito degli Stati Uniti nel 1946, usava diciottomila valvole per calcolare le traiettorie dell’artiglieria in modo più rapido e preciso di qualsiasi essere umano. Era uno strumento rivoluzionario, ma la sua utilità era limitata dal fatto che era grande come una stanza intera, e quando una valvola si rompeva, in media una volta ogni due giorni, l’intera macchina si fermava.

L’uomo che ha permesso di superare la tecnologia della valvola è il fisico statunitense nato a Londra William Shockley. Dopo la guerra Shockley fu assunto dai Bell Labs, la divisione ricerca del monopolio statunitense dei telefoni At&t, e lì si accorse che alcuni elementi chimici erano in grado di svolgere la stessa funzione di codifica e trasmissione degli o e degli 1. I materiali conduttori conducono elettricità; i materiali non conduttori no; i semiconduttori sì e no, e questa capacità di essere in due stati diversi rende possibili i calcoli binari. Per prima cosa, Shockley elaborò la teoria della semiconduzione, poi chiese ai suoi colleghi John Bardeen e Walter Brattain di lavorare a uno strumento pratico per manipolare la corrente elettrica su un semiconduttore. Il 23 dicembre 1947, i tre scienziati fecero una dimostrazione del primo transistor funzionante. Per la loro invenzione ricevettero tutti e tre il premio Nobel per la fisica nel 1956.

A quanto pare, a Shockley seccava che fossero stati Bardeen e Brattain a creare quel primo circuito. E visto che era lui a dirigere il laboratorio, a poco a poco bloccò la loro ricerca sui transistor. Bardeen se ne andò alla University of Illinois, dove in seguito avrebbe svolto un lavoro fondamentale sulla superconduttività, diventando il primo e unico scienziato a vincere un secondo Nobel per la fisica. Shockley, invece, era deciso a diventare ricco. Lasciò i Bell Labs con il suo Nobel in tasca e fondò una nuova azienda, la Shockley semiconductor. È qui che entra in scena sua madre.

May Bradford Shockley, cresciuta nell’entroterra del Missouri, era figlia di due ingegneri minerari; nel 1904 era l’unica viceispettrice delle attività minerarie negli Stati Uniti. Il suo legame con la città di Palo Alto – era andata alla vicina università a Stanford – l’aveva convinta a ritirarsi in California. È per questo che Shockley, nel 1956, scelse come sede della sua nuova azienda Mountain View, ora conosciuta soprattutto perché ospita Google. Ai tempi, quella parte del mondo era chiamata Santa Clara valley. Oggi ha cambiato nome. May Bradford Shockley, che negli ultimi anni della sua vita fu un’ottima pittrice e morì nel 1977 a 97 anni, è il motivo per cui la Silicon valley è lì dov’è.

C’è poco da girarci intorno, il fondatore della Silicon valley era una persona davvero spregevole. Shockley era un pessimo manager e un razzista appassionato che dopo avere ricevuto il Nobel passò anni a divulgare teorie amatoriali sulla “disgenetica”, o degradazione genetica, e sulle differenze razziali come una sorta di “codice dei colori” naturale per segnalare livelli d’intelligenza diversi. La commemorazione ufficiale che gli ha dedicato l’Accademia nazionale delle scienze, scritta dal suo vecchio amico John Moll, non contiene neanche un aneddoto che rifletta una qualche qualità umana. Moll osserva invece che “le intui­zioni tecniche” di Shockley “erano controbilanciate dalla sua mancanza di comprensione delle relazioni umane”. E questo aveva delle conseguenze.

La storia del microchip ha due filoni principali: da una parte c’è la creazione, dall’altra la manifattura. Il centro del filone manifatturiero è l’Asia orientale

Inventare i transistor era un brillante esempio di fisica applicata, ma renderli utili era un altro paio di maniche. I transistor sostituirono rapidamente le valvole, ma migliaia di transistor significavano migliaia di fili per collegarli, e gli strumenti che li contenevano somigliavano a rozzi grovigli. Superare questo inconveniente fu una grande sfida ingegneristica, risolta separatamente da due persone.

La prima fu Jack Kilby, un ingegnere appena assunto dalla Texas Instruments (Ti). La Ti era entrata sul mercato producendo strumenti che usavano le onde sismiche per cercare giacimenti di petrolio, poi durante la guerra era passata a costruire sonar per la marina, e dopo la guerra stava cercando di progettare nuovi sistemi elettronici per le forze armate. Kilby arrivò alla Ti nell’estate del 1958, quando il laboratorio era vuoto. Non avendo ancora maturato le ferie, si mise subito al lavoro e cominciò a trafficare con i transistor concentrandosi sul germanio, un semiconduttore. Fece subito una scoperta: anziché collegare i transistor l’uno con l’altro, assemblò i circuiti sul germanio, in modo che su un piccolo pezzo di metallo – il germanio o un altro materiale semiconduttore utile allo scopo, il silicio – potessero essere impiantati più transistor.

Per questa innovazione, Kilby avrebbe vinto il premio Nobel per la fisica nel 2000.

Nel frattempo, la Shockley transistors era già implosa. Shockley aveva assunto gli ingegneri più brillanti nel nuovo campo, ma ci aveva litigato, tanto che quelli nel 1957 lo avevano abbandonato in blocco per fondare la Fairchild semiconductor. Gli “otto traditori”, come li chiamava Shockley, sono i fondatori dell’industria moderna dei semiconduttori. È alla Fairchild Semiconductor che nacquero i microchip, e furono gli otto traditori a portare il silicio nella Silicon valley. Uno degli otto, Eugene Kleiner, fondò la società di venture capital Kleiner Perkins, che avrebbe contribuito a sviluppare gran parte dell’industria tecnologica moderna (Amazon, Aol, Electronic Arts, Google, Twitter e tanti altri) e sarebbe diventata un modello per il settore del capitale di rischio negli Stati Uniti. Un altro, Gordon Moore, fu il principale artefice dell’accelerazione della capacità dei microchip (la legge di Moore prende il nome da lui). E Robert Noyce, un genio visionario, fu insieme a Jack Kilby l’inventore del microchip.

Il chip della Texas Instruments, quello inventato da Kilby, sembrava una mesa, uno i quei rilievi rocciosi a strati del deserto americano che tutti gli appassionati di film western conoscono: gli strati di fili sono accatastati uno sull’altro. Noyce, invece, progettò un nuovo tipo di chip usando delle specie di stencil per dipingere linee di metallo attraverso dei fori nel rivestimento protettivo. Questa tecnica permetteva d’impiantare più transistor su un singolo chip, ed era un miglioramento rispetto alla versione di Kilby perché non c’erano fili liberi: era tutto incorporato nel chip. “I transistor erano integrati in un singolo blocco di materiale. Questi ‘circuiti integrati’ sviluppati da Kilby e Noyce sono poi diventati noti come ‘semiconduttori’ o, più semplicemente, chip”. Alla Fairchild avevano capito subito che il loro chip era più evoluto rispetto al mesa: era più piccolo, aveva bisogno di meno elettricità e poteva essere ulteriormente rimpicciolito. I nuovi chip avevano il potenziale per diventare una tecnologia dagli usi molteplici. L’unico problema era che costava­no cinquanta volte più degli altri. Quindi? “Tutti erano d’accordo che l’invenzione di Noyce fosse intelligente, quasi geniale. Bisognava solo trovare un mercato”.

Chiunque abbia un minimo interesse per la storia della tecnologia sa benissimo chi sono di solito i primi clienti di queste invenzioni. Come mi ha detto una volta il biofisico Luca Turin, “i militari sono gli unici che sanno come finanziare la ricerca, perché sono gli unici che sanno veramente come buttare i soldi”. Tre giorni dopo la fondazione della Fairchild semiconductor, i sovietici lanciarono in orbita lo Sputnik 1 e per l’azienda improvvisamente si aprì un mercato. La Nasa, incaricata di superare l’Unione Sovietica nella corsa allo spazio, fece un grande ordine per il nuovo chip di Noyce. All’inizio, però, il più importante cliente della Texas Instruments fu l’aviazione militare degli Stati Uniti, decisa ad aumentare la precisione dei suoi missili. “In un anno, le consegne della Ti all’aviazione militare arrivarono a rappresentare il 60 per cento della spesa complessiva in chip”. Nel 1965, il 72 per cento dei circuiti integrati fu acquistato dal ministero della difesa statunitense.

I primi beneficiari della spesa militare furono i militari stessi. Lo scandalo dei bombardamenti statunitensi in Vietnam è noto: in tre anni e mezzo, l’operazione Rolling thunder scaricò sul Vietnam più ordigni di quelli che gli alleati avevano sganciato sull’intero fronte del Pacifico durante la seconda guerra mondiale. Meno noto è che spesso mancavano il bersaglio. In media, una bomba lanciata in Viet­nam atterrava a 128 metri dall’obiettivo. Miller cita l’esempio del ponte Thanh Hóa, un’arteria vitale per i trasporti nel Vietnam del Nord, su cui nel 1965 precipitarono 638 bombe, nessuna delle quali centrò il bersaglio. Sette anni dopo, sulle bombe furono impiantati i chip della Ti, e durante l’ultima serie di raid aerei, il 13 maggio 1972, il ponte fu distrutto, a riprova dell’importanza delle nuove tecnologie nella guerra, anche se questo aspetto fu per lo più ignorato ragionando sulla sconfitta degli Stati Uniti. Un altro motivo per cui è ricordato il ponte Thanh Hóa è che durante il primo attacco ci fu una battaglia aerea in cui gli Stati Uniti, sconcertati, persero diversi dei loro caccia più avanzati per mano dei piloti vietnamiti. Questo shock portò alla nascita della scuola per piloti da guerra resa celebre dal film Top gun (nel 2022 è uscito Top gun: Maverick, un seguito che ha avuto un tale successo al cinema da spingere Steven Spielberg a dire a Tom Cruise che il film “ha salvato l’intero settore delle sale cinematografiche”).

Il microchip è diventato una parte fondamentale della pianificazione strategica dell’esercito statunitense. L’Unione Sovietica poteva contare su più uomini e materiali rispetto agli Stati Uniti, perciò Washing­ton studiò un piano per neutralizzare questi vantaggi sfruttando la superiorità tecnologica. L’idea era: loro hanno più soldati e attrezzature, ma le nostre armi centrano gli obiettivi. Fu messa in pratica per la prima volta nel 1991, durante la guerra del Golfo. La prima, stupefacente tempesta di bombe e missili cruise durante l’attacco a Baghdad – chiunque l’abbia vista in tv non la dimenticherà mai – è stata il frutto di una schiacciante superiorità tecnologica che, a sua volta, si basava sull’onnipresente microchip. Come dice Miller, “la guerra fredda era finita: aveva vinto la Silicon valley”.

Christian Dellavedova

Tutto questo non sarebbe successo se l’Unione Sovietica fosse riuscita a tenere il passo nella produzione dei chip. L’incapacità di uguagliare la forza produttiva di Washington era in parte dovuta al fatto che fin dai tempi della scoperta di Shockley l’Unione Sovietica si era affidata allo spionaggio industriale per tenere testa agli Stati Uniti. Un intero dipartimento del Kgb si era specializzato nel rubare e copiare i chip americani. Il problema era che i progressi nel settore erano talmente rapidi che nel momento in cui si riusciva a copiare un chip, quello era già obsoleto. Gordon Moore aveva previsto che i chip avrebbero raddoppiato la potenza e dimezzato il prezzo ogni diciotto mesi, e la sua stima si stava dimostrando esatta.

La legge di Moore rese unica l’industria dei chip. Nessun’altra invenzione o creazione umana raddoppia la potenza ogni diciotto mesi. Un risultato del genere era il frutto di una capacità ingegneristica inesorabile, quasi fanatica. Il settore, non a caso, finì per attirare un particolare tipo d’individui, esemplificato dalla Intel, un’azienda che si era staccata della Fairchild esattamente come anni prima la Fairchild si era staccata da Shockley. Ancora una volta, Moore e Noyce abbandonarono la nave. L’uomo più motivato e determinato alla Intel (la storia dei microchip è dominata dagli uomini) era però Andy Grove, entrato nell’azienda il giorno della sua fondazione e destinato a diventarne il capo.

La neutralità wasp del nome non deve trarre in inganno: Grove era nato con il nome di András Gróf in Ungheria nel 1936 e non aveva avuto una vita facile. Come racconta nella sua autobiografia, a vent’anni aveva già visto “la dittatura fascista in Ungheria, l’occupazione militare tedesca, la ‘soluzione finale’ nazista, l’assedio di Budapest dell’armata rossa, il caos della democrazia nell’immediato dopoguerra, una serie di regimi repressivi comunisti e una sollevazione popolare sedata con la minaccia delle armi”. Suo padre, ebreo, era stato mandato in un campo di lavoro e sua madre era stata violentata dai soldati russi dopo la caduta di Budapest alla fine della guerra. Senza un soldo e senza conoscere una parola d’inglese, Gróf fuggì in Austria e poi emigrò negli Stati Uniti. Studiò per diventare ingegnere chimico, fu assunto alla Fairchild, passò alla Intel e qualche anno dopo ne diventò il capo, impiantandoci una cultura aziendale destinata a influenzare enormemente il mondo della tecnologia. Nel 1996 Grove scrisse un libro intitolato come il suo principio-guida: Only the paranoid survive (Solo i paranoici sopravvivono). È una regola di vita molto discutibile, ma è una massima che si è rivelata molto utile nell’industria del microchip, grazie all’accelerazione permanente della legge di Moore.

Grove l’intendeva alla lettera. L’Intel era un’azienda incentrata sulla paranoia, dove la spinta a innovare prima della concorrenza dominava su tutto. La sua grande innovazione fu il 4004, il primo microprocessore multiuso, che raddoppiava la densità dei transistor nei chip e ne aumentava di cinque volte la velocità. Nel 1975, un articolo del mensile statunitense Popular Electronics si occupò di un computer basato sul microprocessore Intel di nuova generazione, l’Altair 8800. Catturò l’attenzione di un diciannovenne studente di Harvard che capì immediatamente che si poteva fare una fortuna scrivendo software per le nuove macchine. Bill Gates decise di lasciare l’università e aprire un’azienda per sfruttare le possibilità introdotte dall’invenzione della Intel. Anni dopo, avrebbe raccontato che la sua preoccupazione principale quando prese quella fatidica decisione non era che la sua idea fosse sbagliata, ma che la Microsoft, non ancora fondata, potesse essere battuta sul tempo dalla concorrenza nel creare un sistema operativo per il personal computer del futuro.

Se il primo grande beneficiario della rivoluzione di Shockley, Fairchild e Intel è stato l’esercito, i secondi siamo stati tutti noi. L’impennata iniziale della spesa militare rese i chip sempre più economici e spinse i produttori a concentrarsi sulla robustezza e l’affidabilità che, a conti fatti, sono le cose che tutti i settori cercano nei microchip. L’Intel ha lanciato una serie di aggiornamenti periodici dell’architettura dei suoi chip: l’onnipresente x86, che per decenni ha alimentato gran parte dei computer di tutto il mondo. La serie x86 non è più all’avanguardia dell’informatica, ma ancora oggi è la tecnologia alla base dei servizi cloud su cui gira più o meno tutto ciò che è digitale, compreso questo articolo, se lo state leggendo online.

Se facciamo un passo indietro, come Miller nel libro, ci accorgiamo che la storia del microchip ha due filoni principali: da una parte c’è la creazione, dall’altra la manifattura. Il mito della Genesi è come quello della Silicon valley e degli eredi intellettuali di Shockley. Il resto della storia, invece, ha un respiro più globale. Il centro del filone manifatturiero è l’Asia orientale, dove si produce la stragrande maggioranza dei chip del mondo. L’esternalizzazione della produzione è avvenuta in modo quasi casuale, grazie a un dirigente della Fairchild di nome Charlie Sporck. Sporck aveva un problema: negli Stati Uniti i lavoratori costavano cari, anche perché – buu! – tendevano a sindacalizzarsi. “Le aziende che fabbricavano chip assumevano le donne”, scrive Miller, “perché percepivano salari più bassi ed era più difficile che chiedessero condizioni di lavoro migliori. Inoltre, i responsabili della produzione erano convinti che le donne fossero più adatte ad assemblare e collaudare i semiconduttori finiti perché avevano le mani più piccole”. La domanda, però, continuava a crescere, e l’offerta di manodopera femminile statunitense competente, a buon mercato e dalle manine d’oro non bastava a tenere il passo. “Ovunque cercassero in California, Sporck e gli altri manager dell’industria dei semiconduttori non riuscivano a trovare abbastanza operai a costi contenuti. Dopo aver passato al setaccio tutto il paese, la Fairchild aprì uno stabilimento nel Maine – dove i lavoratori ‘odiavano i sindacati’, aveva scoperto Sporck – e un altro in una riserva navajo del New Mexico, che offriva incentivi fiscali”. La soluzione era l’Asia, dove la Fairchild inaugurò un impianto nel 1963, vicino all’aeroporto di Hong Kong. “Nella Silicon valley avevamo problemi con i sindacati”, diceva Sporck, “mentre in oriente non ne abbiamo mai avuti”. A Hong Kong un operaio specializzato costava 25 centesimi all’ora, un decimo del prezzo americano.

Il primo paese asiatico a beneficiare su larga scala della nuova invenzione era stato il Giappone e la prima azienda la Sony, che aveva sfruttato il transistor con la sua fortunatissima linea di radio. La prima radio a transistor della Sony, la deliziosa Tr-55, era uscita nel 1955, era stata un successo mondiale immediato e aveva gettato le basi per quella che sarebbe poi diventata una delle più grandi aziende di elettronica di consumo al mondo. Ma era stata anche la spia del fallimento della Texas Instruments, che aveva progettato a sua volta una radio ma aveva sbagliato completamente il prezzo di vendita e il lancio pubblicitario, lasciando il campo ai giapponesi, ben felici di pagare le commissioni di licenza per l’uso di una tecnologia statunitense. Qualcosa di simile era successo con la calcolatrice tascabile: Jack Kilby aveva progettato un prototipo, ma i responsabili del marketing dissero che non c’era domanda. L’errore aveva lasciato campo libero all’azienda giapponese Sharp.

Christian Dellavedova

Alla fine, Akio Morita, il capo della Sony, ottenne il diritto di aprire una fabbrica della Texas Instruments in Giappone. Era un buon affare, ma non era solo una questione di business. “Per gli strateghi della politica estera a Washington, il rafforzamento dei collegamenti commerciali e degli investimenti tra i due paesi serviva a tenere Tokyo saldamente legata a un sistema a guida americana”.

Nel 1960, gli Stati Uniti e il Giappone firmarono una revisione del trattato di sicurezza del 1951, imposta al Giappone come condizione per mettere fine all’occupazione. La revisione fu accolta da enormi proteste, che costrinsero il primo ministro Hayato Ikeda ad annunciare un piano per raddoppiare il pil del Giappone entro la fine del decennio. Il paese centrò l’obiettivo di Ikeda con due anni d’anticipo, anche grazie al contributo dei settori incentrati sul transistor e il microchip. Più o meno lo stesso successe in Corea del Sud, a Singapore e a Taiwan. I chip non erano solo affari, erano anche politica. Grazie al boom economico che avevano favorito, gli Stati Uniti erano arrivati molto vicini a realizzare quella “sfera di co-prosperità della Grande Asia orientale” che i giapponesi sostenevano di voler creare durante la seconda guerra mondiale.

Taiwan occupa un posto centrale in questa storia. Inizialmente, il rapporto dell’isola con la nuova tecnologia fu turbolento. Nel 1968, durante una riunione con due dirigenti della Texas Instruments, il ministro dell’economia Kwoh-ting Li disse che la proprietà intellettuale era una cosa che “gli imperialisti usano per fare i prepotenti con i paesi meno avanzati”. Non era un punto di vista insolito nelle economie in via di sviluppo, ma raramente qualcuno lo aveva espresso in maniera così diretta. Li, però, si adeguò rapidamente alla situazione. Se Taiwan voleva attirare gli investimenti statunitensi e avere accesso al mercato americano, doveva mettere da parte le sue perplessità sulla proprietà intellettuale e andare avanti con il programma. I potenziali vantaggi economici erano enormi, e Li ne era consapevole. Scrive Chris Miller:

Taiwan e Washington erano formalmente alleati dal 1955 ma, con la sconfitta in Vietnam, gli Stati Uniti non erano più una garanzia di sicurezza. Dalla Corea del Sud a Taiwan, dalla Malaysia a Singapore, i governi anticomunisti cercavano garanzie sul fatto che il ritiro degli Stati Uniti dal Vietnam non li avrebbe lasciati senza protezione. Questi paesi, però, cercavano anche investimenti e occupazione per contrastare il malcontento che stava spingendo parte della popolazione verso il comunismo. Kwoh-ting Li si rese conto che la Texas Instruments poteva aiutare Taiwan a risolvere entrambi i problemi in un colpo solo.

Gli investimenti americani avrebbero contribuito a creare l’industria del microchip a Taiwan e a formare gli ingegneri incaricati di dirigere le fabs. Gli impianti per la manifattura dei chip sono chiamati fabs, abbreviazione di fabrication plants, “impianti di fabbricazione”, forse per evitare il termine vecchio e sindacalizzato di “fabbriche”. Le fabs sono luoghi di tute di protezione e pressione dell’aria negativa, in cui l’aria è sputata fuori dalla stanza anziché dentro, in modo che neanche un singolo micron di polvere contamini il processo di manifattura: ne è passato di tempo dalle fabbriche della Manchester dell’ottocento. Gli investimenti, inoltre, davano agli Stati Uniti un interesse legittimo a difendere Taiwan in un momento in cui in America l’entusiasmo per le avventure militari in Asia era al minimo. La Texas Instruments s’impegnò a costruire il suo impianto a Taiwan nel 1968. Nel 1980 spedì il suo miliardesimo chip. Come osserva Miller, era stata definita una nuova strategia:

Dalla Corea del Sud a Taiwan, da Singapore alle Filippine, la mappa degli impianti di assemblaggio dei semiconduttori somigliava molto a quella delle basi militari americane in Asia. Ma anche quando gli Stati Uniti ammisero finalmente la sconfitta in Vietnam e ridussero la loro presenza militare nella regione, queste catene di approvvigionamento transpacifiche rimasero in piedi. Alla fine degli anni settanta, anziché cadere sotto il comunismo come tessere del domino, gli alleati americani in Asia erano sempre più integrati con gli Stati Uniti.

Uno dei due dirigenti della Texas Instruments presenti a quel teso incontro con Li era Morris Chang, una figura importante nella intricata storia internazionale della tecnologia e della politica. Chang era nato nella Cina continentale nel 1931. Era cresciuto tra Hong Kong e la Cina durante la guerra civile e la seconda guerra mondiale, nel 1949 era emigrato negli Stati Uniti, era andato a Harvard, era entrato alla Ti e aveva scalato le gerarchie fino ai vertici dell’azienda. Dopo le sue dimissioni nel 1983, a 52 anni, fu chiamato a Taiwan da Li, all’epoca ministro senza portafoglio, e incaricato di sviluppare i settori tecnologici del paese.

Taiwan era un mistero totale per Chang, che a quel tempo, come dice Miller, “era probabilmente più texano che cinese”. Il nuovo incarico, però, era irresistibile: l’obiettivo era creare un’industria del chip all’avanguardia. Per raggiungerlo, Chang fondò la Taiwan Semiconductor Manufacturing Company (Tsmc), che oggi è l’ incontrastata leader globale nella fabbricazione di microchip avanzati.

Christian Dellavedova

Una delle grandi intuizioni di Chang è stata capire che il vantaggio competitivo della Tsmc non era nella progettazione dei chip. A quello pensavano aziende come Intel, Samsung e Motorola, che se ne sarebbero assunte anche i relativi, elevatissimi rischi. Progettare – non costruire, solo progettare – un chip all’avanguardia può costare fino a 500 milioni di dollari. E appena il chip è stato progettato, scatta la legge di Moore e parte la corsa al successivo miglioramento di velocità e potenza. Il piano della Tsmc era dedicarsi solo alla manifattura, costruire le fabs più avanzate del mondo e conquistare un vantaggio in una fase della produzione in cui realisticamente nessun altro era in grado di competere. La Tsmc è andata talmente avanti e ha speso talmente tanti soldi per raggiungere l’attuale livello di eccellenza che oggi nessuno è in grado di uguagliarla in quello che fa, e tanto meno in quello che potrà fare domani grazie ai suoi più di quattro miliardi di dollari d’investimenti annuali in ricerca e sviluppo. Vi ricordate del nostro scrittore con i microprocessori A14 e M2 progettati dalla Apple? Sono stati costruiti entrambi alla Fab 18 della Tsmc, un unico impianto nella città di Tainan che produce gran parte dei microprocessori più avanzati del mondo. Come dice Miller, “la frase scritta sul retro di ogni iPhone – ‘progettato dalla Apple in California. Assemblato in Cina’ – è molto fuorviante. È vero che i componenti più insostituibili dell’iPhone sono progettati in California e assemblati in Cina. Ma possono essere fabbricati solo a Taiwan”.

Lo scenario attuale dei microchip è grosso modo diviso in due. Da una parte ci sono i chip comuni, che sono praticamente in qualsiasi cosa. Le complicate catene di approvvigionamento di questi chip sono arrivate all’attenzione del pubblico solo durante la pandemia, quando a un picco della domanda di alcune cose – per esempio tutti gli schermi e i gadget che usavamo per lavorare da casa – ha corrisposto un crollo della domanda di altri, soprattutto i beni che non usavamo perché lavoravamo da casa, come le automobili. Quando la pandemia è finita, i flussi della domanda si sono invertiti, e improvvisamente l’offerta di automobili scarseggiava perché i produttori non riuscivano a procurarsi i chip necessari. Se vi è capitato di noleggiare un’auto dopo la pandemia, vi sarete accorti che è diventato molto più costoso perché le agenzie hanno ridotto le flotte durante il covid-19 pensando di poterle aumentare di nuovo senza difficoltà, come facevano in passato. Peccato che abbiano tutti pensato la stessa cosa nello stesso momento. Nel 2022 l’aumento medio globale del prezzo per noleggiare un’auto è stato del 47 per cento: questo è un effetto della curva della domanda e dell’offerta di microchip. Molti dei chip coinvolti in tutti questi settori continuano a essere prodotti in Asia orientale.

L’altro lato dello scenario riguarda la fascia alta del mercato. Prima di parlare di geopolitica, possiamo assaporare per un momento il sublime aspetto tecnologico? I microchip sono tra gli oggetti più straordinari che l’umanità abbia mai creato. Miller usa un’immagine molto efficace: il coronavirus è minuscolo, ha un diametro di circa cento miliardesimi di metro, ma è un gigante rispetto al più piccolo transistor prodotto alla Fab 18, che è largo la metà. In questo momento, la Tsmc sta parlando di nodi di transistor di tre miliardesimi di metro. È una dimensione talmente ridotta che gli effetti quantistici, che si manifestano quasi solo a livello subatomico, diventano rilevanti.

I macchinari che servono per produrre questi manufatti di straordinaria delicatezza diventano più grandi e complicati man mano che i microchip si riducono di dimensioni e aumentano di potenza. Il silicio è inciso sui chip con una nuova tecnica chiamata euv (extreme ultraviolet lithography, litografia ultravioletta estrema). Pensate a un microscopio, che ingrandisce le cose piccole. Adesso rigiratelo in modo che la lente rimpicciolisca le cose grandi. Quindi applicate questo processo per incidere un disegno estremamente complesso su un microchip infinitesimamente piccolo. Questa è la litografia, che è stata alla base della fabbricazione dei microchip fin da quando Jay Lathrop la inventò alla Texas Instruments nel 1958. Ma più i chip diventano piccoli, più il processo diventa complicato.

Al limite estremo di questo tipo di litografia c’è l’azienda olandese Asml, l’unica ditta al mondo a padroneggiarlo. Il processo prevede la produzione di luce euv, che a sua volta prevede

una minuscola goccia di stagno di trenta milionesimi di metro che si muove in una camera a vuoto alla velocità di circa 320 chilometri all’ora. Lo stagno è colpito due volte con il laser, prima per scaldarlo, poi per trasformarlo in plasma a una temperatura di circa mezzo milione di gradi, varie volte più calda della superficie del Sole. Questo processo di irraggiamento dello stagno è ripetuto cinquantamila volte al secondo per emettere luce euv nella quantità necessaria per produrre i chip.

L’azienda che ha imparato a fare tutto questo è statunitense, e si chiama Cymer. Il loro processo all’inizio si basava su un laser talmente potente che generava troppo calore e doveva essere raffreddato con delle ventole, ma le ventole giravano a una velocità tale che bruciavano i supporti. Perciò gli ingegneri hanno inventato un processo per tenere le ventole sospese a mezz’aria con dei magneti. L’azienda che ha inventato il nuovo laser è la Trumpf, una ditta tedesca. Ci sono voluti dieci anni per il suo sviluppo. Ogni laser consiste di 457.329 parti. La fase successiva dell’euv è stata la produzione di un nuovo tipo di specchio dell’azienda tedesca Zeiss, lo specchio più liscio mai costruito: se fosse grande come tutta la Germania, la sua irregolarità più piccola sarebbe di 0,1 millimetri. Ma il laser più complicato mai costruito e lo specchio più liscio mai costruito sono solo due componenti della macchina litografica dell’Asml. Ripercorriamo la catena: un’azienda taiwanese (Tsmc) commissiona a un’azienda olandese (Asml), che commissiona a un’azienda statunitense (Cymer), che commissiona a un’azienda tedesca (Trumpf) e a un’altra azienda tedesca (Zeiss). Non c’è da stupirsi che l’ultima macchina euv dell’Asml sia “il macchinario prodotto in serie più costoso della storia”.

A questo punto, il sublime tecnologico e la geopolitica si fondono. I chip sono dappertutto, ma i chip di fascia più alta no: sono il frutto di un processo manifatturiero altamente concentrato, in cui un minuscolo gruppo di aziende forma una strozzatura globale impossibile da aggirare. Se non lavori con l’Asml, non puoi realizzare un chip di fascia alta. Se non puoi far produrre il tuo chip di fascia alta dalla Tsmc, dalla Samsung o dalla Intel, non ha senso progettarlo, perché non c’è nessun altro in grado di costruirlo.

È un aspetto importante, perché i chip di fascia alta sono indispensabili in tutta una serie di settori, soprattutto quelli militari o legati a interessi militari, e questo è particolarmente importante in Cina. Siamo abituati all’idea che tutto sia fatto in Cina, compresi molti prodotti di famosi marchi occidentali. Nel suo saggio Un anno senza “made in China” (Dalai editore 2008) la giornalista statunitense Sara Bongiorni racconta di come insieme alla sua famiglia ha provato a vivere per un anno senza merci prodotte in Cina e si è accorta che alcuni articoli semplicemente non sono prodotti da nessun’altra parte. E l’esperimento, premette Bongiorni, è stato possibile solo perché i suoi figli erano ancora piccoli: se fossero stati degli adolescenti digitalmente connessi sarebbe stato impensabile. Tutto è fatto in Cina, è un’ovvietà indiscutibile.

Per i microchip di fascia alta, però, l’ovvietà non è ovvia: la Cina deve importare i microchip più potenti. I numeri sono impressionanti. Per buona parte di questo secolo, la Cina ha speso più soldi per importare microchip che per importare petrolio. Le importazioni cinesi di chip – 260 miliardi di dollari nel 2017 – sono state di gran lunga maggiori rispetto alle esportazioni di petrolio dell’Arabia Saudita o alle esportazioni di automobili della Germania. Ogni anno Pechino spende per comprare chip più di quanto il mondo spende in aerei. La Cina è dolorosamente consapevole della sua dipendenza dall’occidente in quest’area, e sta spendendo freneticamente per recuperare terreno. Miller descrive questa presa di coscienza come il “momento Sputnik” della Cina, l’attimo in cui la superpotenza si accorge che è rimasta indietro e deve recuperare. È una metafora interessante, perché ai tempi dello Sputnik gli Stati Uniti si consideravano la superpotenza globale: dire che la Cina sta avendo un momento Sputnik vuol dire che si considera come Washington si considerava a metà degli anni cinquanta.

Alla fine del libro Miller scrive che a meno di nuovi drastici limiti alle esportazioni statunitensi, l’esercito cinese si procurerà gran parte della potenza di elaborazione di cui ha bisogno acquistandola dalla Silicon valley. Nell’ottobre 2022, con scarso preavviso e con ancora più scarsa attenzione dopo, questi “nuovi drastici limiti” sono arrivati. L’amministrazione Biden ha vietato le esportazioni di microchip in Cina, un divieto rivolto sia alle aziende statunitensi che hanno rapporti commerciali con la Cina sia a qualsiasi azienda estera che usi la tecnologia dei semiconduttori statunitense. In pratica, significa tutti, dappertutto: un blocco generalizzato che ha l’obiettivo di azzoppare l’industria cinese dei semiconduttori. Trump ha fatto tanti discorsi sulla guerra commerciale con la Cina, ma se parliamo di danneggiare intenzionalmente gli interessi strategici cinesi, niente di ciò che ha fatto si avvicina minimamente alla nuova politica di Biden.

È questo il nuovo grande sviluppo della storia globale del microchip. Il divieto alle esportazioni di chip può essere definito “una dichiarazione di guerra economica” e forse non solo economica. Negli ambienti militari è ormai assodato che l’intelligenza artificiale sarà cruciale nella prossima ondata d’innovazioni; e la rivoluzione dell’intelligenza artificiale dipenderà dalla nuova tecnologia dei chip. La seconda guerra fredda sarà una sfida militare-tecnologica proprio come la prima, e ancora una volta i semiconduttori saranno centrali.

Ne stiamo cominciando a vedere gli effetti con i primi stormi di droni in battaglia. Prossimamente su questi schermi: veicoli senza equipaggio, missili con sistemi di guida completamente automatici, sistemi di munizione circuitante e droni assassini con sistemi di riconoscimento facciale. I chip avanzati sono fondamentali per la progettazione di nuove armi come per le armi stesse, perché quasi tutti i test di questi sistemi sono fatti al computer. Incrociamo le dita, sperando che tutto questo serva a evitare la terza guerra mondiale.

E il dividendo tecnologico che alla fine arriverà a tutti noi? Chi può dirlo. La nuova tecnologia sarà ovunque, dall’energia ai trasporti, esattamente come nei primi sessant’anni dei semiconduttori. Per fare un esempio, stiamo cominciando a vedere gli effetti dell’intelligenza artificiale destinata ai consumatori con l’arrivo di ChatGpt e dei suoi concorrenti. Quando ho chiesto alla versione più aggiornata del chatbot di elencarmi i vantaggi della tecnologia, tre risposte su quattro si focalizzavano sulla comunicazione tra aziende e individui. Probabilmente significa che presto i servizi per i clienti sostituiranno i loro infernali sistemi di risposta automatica con chatbot che nella maggior parte dei casi funzioneranno meglio, ma che comunque non offriranno vie d’uscita dai loro sistemi chiusi, non sapranno ammettere errori e non permetteranno mai d’interagire con un essere umano. Quindi sarà molto meglio, ma sarà anche molto peggio. Speriamo che ci sarà anche qualche oggetto di consumo divertente che ci aiuti a distrarci dal resto. ◆ fas

John Lanchester è uno scrittore e giornalista britannico. Il suo ultimo libro pubblicato in italiano è Il muro (Sellerio 2020). Questo articolo è una recensione del libro Chip war: the fight for the world’s most critical technology (Simon and Schuster 2022), di Chris Miller. È uscito sul quindicinale culturale britannico London Review of Books con il titolo Putting the silicon in Silicon valley.

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Questo articolo è uscito sul numero 1507 di Internazionale, a pagina 86. Compra questo numero | Abbonati