Il 25 gennaio il cantautore Neil Young ha chiesto a Spotify di togliere la sua musica dal catalogo del servizio di streaming, protestando contro la disinformazione sui vaccini veicolata dal podcast The Joe Rogan experience, distribuito in esclusiva dal colosso svedese. Jeff Emtman, voce di uno dei podcast più acclamati degli ultimi anni, ha pubblicato un breve episodio in cui annuncia che anche lui, nel suo piccolo, ha deciso di rompere l’accordo con Spotify, pur sapendo che potrebbe perdere una grossa fetta dei suoi ascoltatori, soprattutto fuori dagli Stati Uniti. Il caso di Neil Young e Joe Rogan però non è il movente principale. Al centro della scelta c’è il modello culturale ed economico che la piattaforma sta imponendo all’industria dell’audio narrativo: si appropria di un catalogo senza assumersene la responsabilità, fa diseducazione alla qualità dell’ascolto, induce a un consumo ossessivo-compulsivo dei contenuti, svilisce il ruolo degli artisti attraverso compensi ridicoli e impone al mercato dei ricatti con il sistema delle playlist e delle classifiche. Il suo gesto di protesta è anche l’occasione per ricordare com’è nato il fenomeno dei podcast, qual è il valore politico di una pubblicazione libera attraverso la tecnologia dei ­feed rss, e quanto, come comunità di ascoltatori, rischiamo di perdere se assecondiamo le politiche imposte dal colosso svedese.

Jonathan Zenti

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Questo articolo è uscito sul numero 1448 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati