Questo articolo fa parte della serie Before it is lost, in cui scrittrici e scrittori di paesi del Pacifico raccontano la lotta contro il cambiamento climatico che minaccia la sopravvivenza delle loro isole.

Da che ho memoria, sull’isola di Guam non ci sono sihek.

Il sihek, o martin pescatore di Guam, è un bellissimo uccello canoro blu e dorato che dagli anni ottanta vive solo in cattività. Come per la maggior parte delle specie di uccelli native di Guam – dieci su dodici – anche la popolazione di sihek è diminuita rapidamente dopo l’introduzione del serpente bruno arboricolo, una specie invasiva portata clandestinamente sull’isola dopo la seconda guerra mondiale a bordo di navi militari.

È difficile spiegare il trauma provocato dall’assenza del canto degli uccelli.

Ancora più difficile è descrivere la sensazione che ha accompagnato il recente annuncio del Fish and wildlife service (Fws) degli Stati Uniti, che ha proposto di liberare i centoquaranta sihek allevati negli zoo di tutto il paese non sull’isola di Guam, ma sull’atollo di Palmyra.

L’atollo di Palmyra è un gruppetto di isole lontane, circa milleseicento chilometri a sud delle Hawaii e a più di cinquemilaseicento chilometri da Guam. Palmyra non ha dei residenti stabili ed è amministrata dal Fws insieme ad altri enti, tra cui la Nature conservancy. La teoria è che, data l’assenza di serpenti bruni arboricoli a Palmyra, gli uccelli avranno una possibilità concreta di sopravvivere. Da un lato gli abitanti di Guam sono felici all’idea che presto i sihek potrebbero volare liberi. Dall’altro siamo tutti addolorati, perché Palmyra non è la casa di questo uccello. Casa sua è Guam. È qui, con noi.

La lodevole speranza del governo federale è che se la reintroduzione dei sihek a Palmyra avrà successo, l’operazione farà da preludio al loro ritorno a Guam. Noi però abbiamo dei dubbi. In primo luogo, il governo ha compiuto pochi, sia pur preziosi, progressi nell’eradicare la popolazione di serpenti bruni arboricoli presenti sull’isola. La cosa incredibile è che finora il protocollo considerato di maggiore successo è stato il lancio di topi morti (imbottiti di paracetamolo) dal cielo. In secondo luogo, sappiamo che gli Stati Uniti sottovalutano il ruolo della crisi climatica in questa storia.

Anche se sono necessarie ulteriori ricerche per mettere in relazione cambiamento climatico e specie invasive negli ambienti naturali, è evidente che il riscaldamento globale sta facilitando la diffusione di specie aliene, facendole diventare ancora più invasive. Alcuni eventi climatici estremi come i cicloni tropicali, che si prevede possano intensificarsi negli anni a venire, non faranno che aggravare la situa­zione.

Guam è incredibilmente vulnerabile. Le nostre barriere coralline sono sottoposte a un forte stress, mentre l’oceano diventa sempre più caldo e acido. In effetti lo sbiancamento dei coralli provocato dall’innalzamento delle temperature dei mari ha ucciso un terzo delle barriere. Anche le nostre scorte d’acqua potabile sono a rischio, non solo a causa della siccità e della domanda sempre più alta, ma anche per l’infiltrazione dell’acqua salata dovuta all’innalzamento del livello del mare, che in questa parte del mondo si sta verificando più in fretta che altrove.

L’isola è destinata a diventare ancora più calda. Si prevede che il numero di giorni caldi, con temperature superiori ai 32 gradi, arriverà a 257 all’anno. Mentre il numero di notti fresche, con temperature inferiori ai 23 gradi, scenderà da una media di quaranta all’anno negli anni cinquanta a una di zero all’anno.

Se il cambiamento climatico è il dio della morte, è un dio spietato e distruggerà tutto, perfino il fresco respiro della notte.

A Guam però il dio della morte sarà superato dal dio della guerra.

Mentre scrivo, l’esercito degli Stati Uniti – in nome della sicurezza nazionale e nell’ambito di una più ampia strategia di contenimento della crescente influenza cinese nella regione – sta espandendo drasticamente la sua presenza. Nell’estremità settentrionale dell’isola è in costruzione un gigantesco poligono di tiro che causerà l’abbattimento di centinaia di ettari di foresta calcarea. La distruzione di questo ecosistema metterà a rischio non solo i sihek, ma anche altre specie, tra cui la cornacchia delle Marianne, la volpe volante delle Marianne e la farfalla a otto punti delle Marianne.

E questo solo sulla terraferma. In mare l’esercito statunitense ha intenzione di portare avanti nove diversi programmi militari avanzati in un’area di millesettecento chilometri quadrati, una superficie estesa quanto gli stati di California, Oregon, Wash­ington, New York e New Jersey. Queste attività, che comprenderanno anche l’uso di esplosivi e di sonar attivi, rappresentano una grave minaccia per le tartarughe marine e per diverse specie di delfini e ba­lene.

La marina militare ha avuto il permesso di “prendere” – ossia di ferire o disturbare in altro modo un mammifero marino nel suo ambiente naturale – ventinovemila balene e trentasettemila delfini all’anno, tra cui centocinquanta coppie composte da madre e cucciolo di megattere.

Dunque non si sta perdendo solo il canto degli uccelli, ma anche quello delle balene.

Quando mi è stato chiesto di scrivere di ciò che temo di perdere più di ogni altra cosa a causa del cambiamento climatico, ho esitato. A volte è difficile affrontare la verità.

E la verità è che abbiamo già perso molto. La verità è che stiamo crollando sotto la pressione di tre minacce parallele: la crisi climatica, le specie invasive e l’espansionismo militare. La verità è che queste tre minacce hanno dato vita a una trinità maledetta che ora rischia di schiacciare la nostra civiltà piccola ma antica, e di privare il mondo interno del dono della nostra diversità.

Naturalmente non accetteremo passivamente niente di tutto questo. Come le altre comunità indigene in tutto il mondo, stiamo opponendo resistenza. Stiamo dicendo la verità. Stiamo lottando per un futuro diverso.

Un futuro in cui gli uccelli potranno volare liberi. Un futuro in cui i cuccioli non avranno difficoltà a sentire le loro madri. Un futuro pieno di canti. ◆ gim

Julian Aguon è un avvocato e attivista per i diritti umani originario di Guam. È autore del libro No country for eight-spot butterflies (Astra House 2022) e finalista del premio Pulitzer 2022 nella categoria giornalismo d’opinione.

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Questo articolo è uscito sul numero 1494 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati