Questo articolo fa parte della serie Before it is lost, in cui scrittrici e scrittori di paesi del Pacifico raccontano la lotta contro il cambiamento climatico che minaccia la sopravvivenza delle loro isole.

Qualche anno fa un’amica australiana mi ha regalato una collana con un ciondolo bellissimo e molto parti­colare.

Il ciondolo era appartenuto alla famiglia di Helen Pilkinton per decenni e faceva parte di una serie di pietre regalate a ciascuna delle sue sorelle.

Era fatto di una fosforite che i suoi genitori avevano preso nel 1935 a Banaba, il posto in cui sono nata, un’isola nel Pacifico centrale a circa tremila chilometri dall’Australia. Proveniva da un luogo ancestrale che molte persone di Kiribati e delle Fiji considerano tabù e stregato.

Decine di famiglie australiane hanno gioielli e decorazioni simili, realizzati con rocce di Banaba. Non si vedono mai nei mercati di beneficenza o nei negozi online. Sono tramandati da una generazione all’altra, insieme a storie familiari di una vita lontana su un’isola tropicale, nel mezzo dell’oceano. La pietra è bellissima, ma io non riesco a indossarla.

Il padre di Helen lavorava come ufficiale medico per la British phosphate commissioners, una compagnia mineraria di proprietà britannica, australiana e neozelandese, in un posto che gli europei chiamavano Ocean island. Quest’isola era un atollo di sei chilometri quadrati che emergeva fino a ottanta metri sul livello del mare ed era quasi interamente costituito da fosforite di alta qualità. I popoli indigeni lo chiamavano Banaba. La roccia era un ingrediente fondamentale del perfosfato, un fertilizzante prodotto industrialmente che si stava diffondendo in migliaia di fattorie in Nuova Zelanda, nello stato di Victoria, dell’Australia meridionale, e in parte del Nuovo Galles del Sud e dell’Australia occidentale.

Mentre cercavano di ricavare il meglio dalle terre rubate alle comunità aborigene, gli australiani estrae­vano, trattavano chimicamente e spargevano fertilizzanti sulle terre degli indigeni di Banaba e di Nauru, trasformate in pascoli dei coloni.

La nostra isola è gravemente danneggiata, e lo è ormai da decenni. Le miniere l’hanno ridotta a una foresta di pinnacoli e dopo la seconda guerra mondiale la maggior parte degli abitanti di Banaba è stata trasferita sull’isola di Rabi, nell’arcipelago delle Fiji. Qui i loro diritti, le loro istituzioni culturali e politiche e i loro mezzi di sostentamento sono sopravvissuti in modo precario e a tratti tumultuoso. Il popolo di Rabi non ha leader eletti, perciò le nostre richieste trovano scarsa rappresentanza nelle Fiji o a Kiribati.

Generazioni di donne di Banaba hanno cercato disperatamente di tenere insieme l’isola, l’acqua e le persone. Negli anni venti erano preoccupate perché la terra gli stava sparendo sotto i piedi. Erano arrabbiate con i direttori delle miniere e con l’amministrazione coloniale che continuava a fare pressioni per avere in concessione più terra. Le donne del villaggio di Buankonikai dicevano ad Arthur Grimble, il commissario della colonia delle isole Gilbert ed Ellice: “Vogliamo tenerci la nostra terra”.

Nel 1928, quando gli abitanti di Banaba si rifiutarono di firmare altre concessioni, il governo britannico ordinò l’espropriazione dei terreni. Nel 1930 Grimble, che aveva tentato di liquidare la loro isola definendola vuota e buona solo per le noci di cocco, fu nominato cavaliere.

Quando sono cominciate le estrazioni nel villaggio di Buakonikai, la Bbc descriveva così la scena: “Le donne si aggrappano ai loro alberi. Se gli alberi saranno abbattuti, vogliono esserlo anche loro”.

Oggi le circa trecento persone che ancora vivono a Banaba come custodi devono fronteggiare nuove crisi. Sull’isola di pinnacoli, ancora piena di detriti industriali, è finita l’acqua potabile. Le bangabanga, le grotte sotterranee che un tempo erano una riserva naturale di acqua potabile, sono state inquinate dalla rimozione dello stato superficiale del terreno e da ottant’anni di estrazioni minerarie. Prima di essere trasferite, soltanto le donne di Banaba potevano entrare in queste grotte per prendere l’acqua.

All’inizio del 2022, dopo un periodo di siccità, c’è stata una grave carenza di cibo. L’isola che aveva “nutrito” tante fattorie affamate per gran parte del ventesimo secolo non aveva più cibo per i suoi abitanti.

Il pezzo di Banaba donato a Helen sotto forma di ciondolo ci ricorda come ciò che la terra fa crescere, impiegando milioni di anni, può essere distrutto in un istante dalle industrie estrattive e dai coloniz­zatori.

Quando si parla di loss and damage, le perdite e i danni causati dalla crisi climatica, non ci si riferisce solo a realtà attuali o future, ma anche agli effetti provocati storicamente dall’imperialismo estrattivo, di cui però non si parla mai. L’espressione indica qualcosa a cui gli esseri umani non sono in grado di adattarsi.

Gli abitanti di Banaba non riescono ad adattarsi a un’isola la cui intera superficie è stata scavata tra i trenta e i cinquanta metri di profondità. Questo è il luogo in cui generazioni di persone hanno seppellito i loro antenati sotto case rase al suolo da bulldozer insieme alle preziose palme da cocco. La terra non può tornare a riempire le buche tra i pinnacoli.

Chi ha vissuto per secoli sulle isole, con antenati che vedevano nel mare un’autostrada e non una barriera, conduceva vite mutevoli e complesse, radicate nella terra, nel mare e nei legami tra persone e ambiente. Le parole che nella lingua del Pacifico indicano la terra e le persone sono le stesse che indicano i corpi. Te aba significa sia terra sia popolo. Banaba è te buto, l’ombelico.

La nostra isola è un campo di ossa dalle quali è stata strappata la carne. Dobbiamo proteggere Banaba, non indossarla né scavarci miniere. Banaba è un esempio su scala ridotta di quanto è successo a livello mondiale. Non può essere riportata a una condizione di equilibrio e tornare a essere abitabile senza un’attenzione e una volontà di trovare soluzioni mirate, collaborative, ispirate, ben finanziate e determinate.

Cinque governi sono responsabili di ciò che è successo qui: quelli di Kiribati, Fiji, Australia, Nuova Zelanda e Regno Unito. Tanti portatori d’interessi storici, politici ed economici attorno a una roccia così piccola nel mezzo dell’Oceania.

Non più tardi di qualche settimana fa un’altra compagnia mineraria australiana ha proposto di ricominciare a estrarre il fosfato rimasto. I prezzi dei fertilizzanti sono in aumento. Questa materia prima ha un alto valore commerciale ed è ancora cruciale per l’agricoltura intensiva. È stata l’agricoltura globale da cui tutti dipendiamo a peggiorare i regimi alimentari del Pacifico, e a contribuire in modo significativo alla crisi climatica. ◆ gim

Katerina Teaiwa è una studiosa, attivista e artista delle Fiji, originaria di Banaba. Tiene corsi sul Pacifico all’Australian national university.

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Questo articolo è uscito sul numero 1494 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati