Nel film Stalker di Andrej Tarkovskij uno scrittore malinconico e un fisico frustrato incontrano un uomo solitario con la testa rasata in un bar fatiscente. Lo scrittore e il fisico stanno cercando una guida, ma forse, in realtà, stanno cercando una speranza. Stalker, uscito nel 1979, parla di un desiderio profondo. Al centro di tutto c’è una terra sterile e desolata, circondata dal filo spinato. Conosciuta semplicemente come la Zona, questa terra proibita contiene una stanza in cui i desideri più nascosti possono essere realizzati. “Ma quali sono i miei desideri?”, si chiede lo scrittore. Da un lato la stanza è il simbolo di tutto quello che è irraggiungibile, dall’altro è una specie di preghiera, un invito a continuare a esplorare a prescindere da quello che può succedere.

Per Marta Salogni, 32 anni, stare in una sala di registrazione è un po’ come entrare nella Zona di Stalker. Me lo spiega mentre mi stringe la mano e si guarda attorno dentro al suo Studio Zona, a Londra. Alla nostra destra ci sono tre ingombranti registratori a nastro e una serie di tastiere, disposte una sull’altra. A sinistra c’è un amplificatore. “A volte il mio lavoro è invisibile e impegnativo, ma dipende dai casi”, confessa lei, italiana nata vicino a Brescia, seduta con la gambe divaricate su una sedia girevole. Alle sue spalle noto un banco per il mixaggio. Osservando quella giungla di manopole, interruttori e cursori mi torna alla mente l’eclettico curriculum di Salogni: produttrice, arrangiatrice, musicista e perfino cantante. Da produttrice e ingegnera del suono, dopo essersi trasferita a Londra nel 2010 dall’Italia, ha lavorato con alcuni dei più importanti artisti internazionali: con la cantante islandese Björk nell’album Utopia, con la band di rock sperimentale Black Midi in Hellfire e con gli Animal Collective per Time skiffs. All’inizio del 2023 ha collaborato al quindicesimo album dei Depeche Mode, Memento mori. Ma è stata in studio anche con gli XX (I see you), i Goldfrapp (Silver eye), M.I.A. e Lucrecia Dalt.

“A volte un disco finisce per essere qualcosa di molto diverso da quello che si aspettava l’artista. Un po’ come succede in Stalker”, riflette. Salogni ama il film di Tarkovskij, ma quando ha deciso di chiamare il suo studio citando l’opera del regista russo aveva in mente una metafora più profonda. “Questa è la stanza”, spiega, un posto che durante la produzione di un album spesso si rivela imprevedibile come la stanza del film. “Quando parti, lo fai con l’idea che tornerai diversa da quello che eri, in qualche modo. Ma non sai con certezza cosa comporterà questo cambiamento”.

Ascoltando Salogni, si ha la sensazione che non stia parlando solo di lavoro, ma anche della sua dolorosa esperienza personale. Non siamo qui per discutere solo d’ingegneria del suono o della produzione di alcune canzoni, ma di un disco speciale, Music for open spaces, una collaborazione con il suo fidanzato, il musicista britannico Tom Relleen, morto nell’estate del 2020. L’album è stato registrato insieme a Relleen prima che si ammalasse di cancro allo stomaco, ed è stato pubblicato l’11 maggio dall’etichetta francese Hands in the Dark.

Fuori dalle finestre

“È stato un lungo viaggio”, spiega Salogni riferendosi ai tre anni che ha dedicato a mettere insieme i pezzi del disco. Quando c’incontriamo, in un pomeriggio di aprile, la pioggia sta finalmente svanendo. Salogni mi è venuta incontro, in parte trascinata dal suo cane, un vivace levriero persiano di nome Mirage. “Lui è nuovo”, mi ha detto mentre lo ha preso in braccio, prima di guidarmi verso le scale di cemento di un edificio industriale di mattoni, fino allo studio che ha costruito e insonorizzato nel 2017.

“Quando il mondo sembrava al collasso, ho passato gran parte del mio tempo qui”, mi racconta passandomi una tazza di tè. Nel marzo 2020, mentre quasi tutte le attività erano ferme, Salogni guardava fuori dalle due finestre posizionate dietro i registratori e scrutava il palazzo di fronte, osservando le persone: isolate, certo, ma insieme anche nell’isolamento.

Salogni stava lavorando al terzo album dei Black Midi quando Relleen, componente del duo sperimentale Tomaga, si è ammalato. Nello stesso periodo stava curando anche qualcosa di più intimo, e all’epoca ancora segreto: un album composto da undici tracce sperimentali ispirate dai luoghi che lei e il fidanzato avevano visitato, dal deserto del Mojave alla costa della Cornovaglia. Il disco si sarebbe intitolato Music for open spaces.

Poco prima di morire, Relleen le ha detto: “Quello che resterà è l’amore”

“A volte è più facile pensare a ritroso”, riflette la produttrice. Le rispondo che è così che funziona il lutto. E quindi procediamo all’indietro.

Per molto tempo il loro album è stato qualcosa di privato, tenuto quasi nascosto. “Solo poco tempo fa sono stata in grado di considerarlo un’entità compiuta”, ammette. L’anno scorso è tornata nella casa-studio nel parco di Joshua Tree, dove lei e Relleen avevano cominciato a registrare i brani nel 2018. La versione finale del disco poteva essere ascoltata solo lì, davanti alla pianura, sotto un sole feroce. Ha riempito un abbeveratoio di acqua fredda, ci si è immersa dentro indossando le sue cuffie migliori e ha “fissato lo sguardo nel nulla”. Tra i rovi e la polvere si è sentita finalmente pronta a lasciar andare il dolore. “Ho mantenuto i pezzi com’erano la prima volta che li abbiamo ascoltati insieme. Inalterati, senza mixaggio”, ha commentato Salogni qualche mese fa, in occasione dell’annuncio della pubblicazione di Music for open spaces.

Dopo la morte di Relleen, la produttrice ha completato il disco da sola. Ha dovuto aspettare mesi prima di avere la forza di ascoltare le demo che erano conservate nel computer del compagno. La sola idea di rovistare tra le sue password le sembrava una violazione dello spazio personale: “A chi dovevo chiedere permesso? Cosa avevo il diritto di guardare?”. Quando finalmente si è decisa a farlo, ha dovuto affrontare un altro problema esistenziale: cosa doveva fare con quel materiale? Come una restauratrice, ha riportato in vita la musica, con lentezza e attenzione. “L’unico modo per essere in pace con quel disco era realizzarlo nel modo giusto. Ma a volte mi ci è voluto un po’ per capire quale fosse quel modo”.

Nel primo brano che ha registrato, Internal logic II, questi dubbi interiori si percepiscono in ogni suono. Siamo a terra, o in volo? Un mormorio corale lascia pensare che siamo sospesi per aria. Eppure l’organo ci trascina verso il basso, verso il suolo. Prestando più attenzione, scopriamo che queste voci celestiali non sono di persone, ma oscillazioni delle bobine di un nastro magnetico. A volte “la tensione cala e produce un tremolio che suona molto umano”, spiega Salogni.

È un effetto strano e spettrale che impregna tutto Music for open spaces, e in un certo senso testimonia l’amore della produttrice per i loop (sezioni di un brano in cui un suono o un campionamento viene riprodotto ripetutamente tramite l’uso di specifici nastri), nato quando a vent’anni comprò il suo primo registratore a bobine, un Revox PR99. Lei usa questi apparecchi non solo per registrare, ma anche per comporre e sperimentare. Anni fa ha bendato un’amica mentre suonava il violino, facendole fare un “duetto” con un registratore posizionato alle sue spalle. Il loop è una spinta verso ulteriori avventure, “perché mi fa pensare a come funziona la memoria: più cose ricordi e più diventa distorta”, commenta.

Come i registratori per i loop, la memoria può essere imprevedibile, soprattutto nel caso di un lutto. “Non ricordo a che punto del disco eravamo quando Tom ha cominciato a stare male”, spiega la produttrice. Invece si ricorda perfettamente il viaggio che li aveva ispirati. Anni prima, mentre erano in vacanza in California, avevano preso in prestito un furgone e avevano guidato fino alla casa di alcuni amici, al confine del deserto. Lì si erano chiusi in studio e avevano cominciato a improvvisare. Relleen suonava il basso, Salogni sperimentava con i feedback. Oggi, quando ascolta quelle registrazioni, prova un senso di meraviglia.

Il giorno prima d’incidere la traccia di apertura Desert glass, un pezzo che fa pensare a un battito di ali dentro una campana di vetro, Relleen aveva portato Salogni al Parco nazionale di Joshua Tree per mostrarle la sua pietra preferita. “Ha un enorme buco che sembra un portale. Mi ha presa per mano e l’abbiamo attraversato”. L’anno scorso lei è tornata in quel luogo, ma senza il fidanzato non riusciva a orientarsi: “Ho cercato ovunque, ma non sono riuscita a trovare quella pietra”.

Il cerchio e la pietra

Salogni ha ricreato una porta di granito nella copertina del loro disco, che tiene in mano mentre mi parla. Proprio al centro è stato ritagliato un cerchio, con ai lati i nomi dei due autori. Togliendo la custodia si attraversa il portale, dove una roccia monocromatica emette raggi solari su un terreno arido. Insieme ai collage del fondatore dell’etichetta Hands in the Dark, Morgan Cuinet, che accompagnano ogni traccia, tra le illustrazioni c’è una mappa blu creata da Relleen (nessuno sa esattamente quando).

Salogni appoggia la mappa sul pavimento e insieme osserviamo le curve e le linee, percorsi vorticosi che ci conducono verso parole sparpagliate come stelle. Salogni legge ad alta voce, seguendo i solchi con le dita, come fossero costellazioni: “Vittoria, vuoto, uno sguardo fisso. Il principio, la salvezza, la mia nascita, il terrore, le fragole”. Ride. “Mi sembra di vedere Tom. Tutte queste parole mi ricordano lui”.

La mappa, come il disco, riporta Salogni al ricordo di Relleen. “È stato imprigionato per tanto tempo. Non solo in luoghi come la stanza d’ospedale, ma anche nel suo corpo. Un corpo può dare una sensazione di claustrofobia, soprattutto quando sta cedendo mentre la mente resta lucida”. Ma dove c’è contrazione c’è anche espansione, un concetto che la loro musica riflette in modo commovente, al centro di tutto, tra i cieli aperti e i muri di cemento.

“Tom avrebbe voluto stare in un posto dove si potevano aprire le finestre dopo la sua morte. Ma in ospedale non era possibile. Per questo il titolo Music for open spaces mi fa pensare ai suoi desideri”.

“La grande frattura” come la chiama Salogni, si è creata nella primavera del 2020, un momento in cui “nessuno di noi due sapeva cosa stesse succedendo”. Dopo un forte dolore allo stomaco Relleen ha deciso di ricoverarsi in ospedale. Era durante la prima ondata del covid-19. Le visite non erano autorizzate e per molte settimane l’unico modo per comunicare è stato il telefono. “Quando abbiamo saputo del cancro, tutto è diventato più chiaro”.

In quel periodo, la mattina Salogni rimaneva a casa. Poi, a ora di pranzo, andava in studio per qualche ora, indossando guanti e mascherina e portando con sé cibo in scatola per evitare gli spazi in comune. Alle due prendeva la bicicletta e pedalava fino al Royal London hospital, dov’era ricoverato il fidanzato. “Tom dormiva per la maggior parte del tempo, ma a volte riuscivamo a parlare e a guardare un film”. Si ferma, poi aggiunge: “Essere lì con lui mi bastava”.

Relleen è tornato a casa il giorno del suo compleanno, a maggio. Lei ha imparato a gestire il suo dolore, ad alimentarlo con le flebo. In un periodo in cui sembrava stare meglio, hanno completato insieme un mixaggio grezzo dell’album.

Alcune tracce erano ispirate alle loro escursioni nel deserto, altre sono state registrate in una casa in Cornovaglia, affacciata sulla penisola di Lizard e sulle onde. All’epoca Relleen stava lavorando anche a un album con la batterista dei Tomaga, Valentina Magaletti, anche lei italiana (è nata a Bari). Il disco è stato pubblicato postumo nel 2021 con il titolo Intimate immensity. “Li ho aiutati a finire quel lavoro”, ricorda Salogni, che lo definisce “un album splendido”. La traccia che gli dà il titolo era molto personale per Relleen. “Tom mi aveva detto di averci messo dentro molta tristezza”, confida Salogni, che percepisce quella sensazione ancora oggi. Spiega che Relleen non stava combattendo solo la malattia, ma anche la depressione che ne derivava. “Cos’è reale?”, si domanda oggi. All’epoca Relleen voleva solo leggere un libro e sedersi in giardino senza soffrire. “Azioni che noi consideriamo scontate quando stiamo bene”, sottolinea lei.

Poco prima di morire, Relleen le ha detto: “Quello che resterà è l’amore”. La frase sopravvive nel suo studio, e continua a crescere. Salogni ha piantato l’albero preferito di Relleen al Victoria Park, così la gente potrà visitare Tom, sotto i rami. L’albero gemello si trova nel loro giardino. È alto e slanciato, con foglie ondulate. Questi alberi vengono chiamati pioppi “tremuli” in Nordamerica, “perché le foglie hanno un modo speciale di tremare al vento”, precisa la produttrice.

Relleen era molto alto, e lo è anche l’albero che cresce in sua memoria. Un tumulo in fiore, una creatura vivente. O un “vaffanculo” alla morte, come dice Salogni. Qualcosa che reclama se stesso nello spazio e nel tempo, “per sfidare quello che gli altri pensano del lutto”. O forse qualcosa che reclama anche una parte di lei. “Certo, le aspettative. Per esempio su come dovrei sentirmi, su cosa gli altri pensano che io provi”.

Bambini felici

Una delle richieste finali di Relleen alla sua compagna era che fosse generosa con il suo strumento, il basso. “Sono triste all’idea che magari c’è un ragazzino che vuole imparare a suonarlo e non ha i soldi per comprarselo”, le ha detto. “Per favore regalalo a qualcuno”.

Tre anni dopo la morte di Relleen, Salogni vuole onorare quel desiderio facendo felici bambine e bambini. Nel 2021, in memoria del fidanzato, ha creato la Free Youth Orchestra, un’organizzazione benefica che si occupa di rimuovere le barriere che impediscono ai più piccoli di accedere agli strumenti musicali.

Qualche mese fa si è svolta la prima prova libera in un parco del quartiere di Stoke Newington, con microfoni, pedali, sintetizzatori, registratori e percussioni. C’era anche Valentina Magaletti. Salogni ha registrato alcune melodie improvvisate mentre i bambini battevano e strimpellavano. “È stato divertente. Sono stati fantastici”, ricorda sorridendo. “Sembrava un brano composto da Tom”. ◆ as

Biografia

1990 Nasce a Capriolo, in provincia di Brescia. Fa le prime esperienze come tecnica del suono e fonica alla festa di Radio Onda d’Urto e al centro sociale Magazzino 47 di Brescia.
2010 Si trasferisce a Londra per studiare all’Alchemea college of audio.
2011 Comincia a lavorare negli studi di registrazione State Of The Ark, dove si occupa di manutenzione delle attrezzature.
2017 Costruisce il suo Studio Zona, e si occupa del mixaggio di Utopia di Björk.
2o23 Affianca il produttore James Ford durante le registrazioni di Memento mori dei Depeche Mode.


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Questo articolo è uscito sul numero 1518 di Internazionale, a pagina 74. Compra questo numero | Abbonati