Il mio sguardo si alza verso una sporgenza rocciosa, scavata in un picco di arenaria nel cuore dell’altopiano dell’Ennedi, nel Ciad nordorientale. Vedo un volto. Quando gli occhi si abituano all’oscurità ne appare un altro. Dipinti ocra intenso e bianco, uomini in sella a cammelli e mucche giganti danzano sull’intera superficie della roccia.

Nel corso di milioni di anni il vento e la pioggia hanno scolpito l’altopiano dell’Ennedi e formato una serie di inselberg (rilievi isolati di rocce granitiche a forma di cupola), guglie solitarie e archi ambrati. Mentre le forze della natura seguivano il loro corso, i popoli preistorici hanno decorato l’ambiente in cui vivevano dipingendo e incidendo migliaia di immagini nella roccia.

Per raggiungere questa regione bisogna guidare per quattro giorni su strade accidentate, percorrendo mille chilometri dalla capitale N’Djamena attraverso il Sahara. L’altopiano dell’Ennedi è ancora in gran parte sconosciuto sia perché si trova in una zona remota del paese sia perché il Ciad ha vissuto anni di violenze, colpi di stato, massacri a sfondo etnico e una guerra con la Libia. Sono pochi i ricercatori che sono riusciti a raggiungere questa zona, tanto che oggi si pensa che il 75 per cento dell’altopiano non sia stato ancora studiato. Qualcuno lo considera “meno esplorato del lato oscuro della Luna”.

A chi decide di avventurarsi, l’Ennedi offre uno dei più importanti siti di arte rupestre preistorica del mondo. Le pitture ricoprono le pareti di quasi tutte le caverne, e anche se non sono antiche come quelle di Lascaux, in Francia, o come quelle raffiguranti dei maiali in Indonesia (risalenti a 45.500 anni fa), molti le fanno risalire al sesto millennio avanti Cristo. Opere d’arte che testimoniano l’evoluzione storica del più grande deserto del pianeta.

La culla dell’umanità

“Le pitture ci aiutano a riavvicinarci alla nostra identità, alla nostra cultura e al luogo da cui proveniamo. L’Ennedi è un libro aperto che racconta la storia dei nostri antenati”, spiega Angèle Aloumbe, che lavora per l’organizzazione African parks e vive a N’Djamena. “Piango sempre quando visito l’Ennedi. Il panorama è meraviglioso e popolato da persone che hanno pochi contatti con il resto del mondo. Nessuno può trovarsi lì senza sentire un legame profondo. È qualcosa di veramente speciale”.

Qui nel deserto sono sola insieme al mondo preistorico. Per chilometri non ci sono né palazzi né strade. In altri luoghi questi reperti sono circondati da turisti o sono inaccessibili al pubblico. Nel 2016 l’Ennedi – grande più o meno quanto la Svizzera – è stato dichiarato patrimonio dell’umanità dall’Unesco. Poco dopo è stato classificato come riserva naturale e culturale, e messo sotto la tutela dell’organizzazione African parks.

All’inizio del 2023 è cominciato uno studio archeologico per mappare tutti i siti in cui si trovano le opere d’arte rupestre e per studiare la zona circostante alla ricerca di antiche ceramiche, ossa di animali e tracce di polline (un indicatore di attività umana).

“Di recente un archeologo italiano è venuto qui per una breve visita e nel giro di mezz’ora ha scoperto un frammento di vasellame di settemila anni fa”, mi racconta la mia guida italiana, Andrea Bonomo. “Immagina cosa troveranno quando avranno più tempo a disposizione”.

Bonomo lavora per l’agenzia Spazi d’avventura, che da trent’anni organizza viaggi in Ciad. Mi dice che nel 2001 un cranio di sette milioni di anni fa, chiamato Toumai, è stato scoperto a ovest dell’Ennedi. Quei resti sono molto più antichi dello scheletro di Lucy (l’ominide ritrovata in Etiopia nel 1974 che si stima sia vissuta 3,2 milioni di anni fa). Questo ha spinto alcune persone a ipotizzare che la culla dell’umanità sia il Ciad, e non la Rift valley etiope.

Secondo Baba Mallaye, uno degli scienziati che hanno partecipato alla scoperta, non solo l’età di Toumai è stata verificata grazie alla datazione radiometrica, ma nella stessa area sono stati trovati molti altri reperti dei cugini di Toumai, dimostrando che la sua presenza non era un caso isolato. Per raggiungere l’Ennedi, io e Bonomo abbiamo attraversato la savana tra rose del deserto, erba alta e alberi di acacia che risplendevano come se fossero d’oro. Abbiamo incontrato i nomadi wodaabe e della tribù degli Oulad-Rachid.

Altopiano dell’Ennedi, Ciad, gennaio 2023 (Kate Eshelby)

Vegetazione e laghi

Le donne e i bambini avanzavano in sella ai cammelli o su cocchi colorati e decorati con tessuti brillanti, zucche intagliate e file di scodelle di bronzo.

Gli uomini camminavano al loro fianco, indossando sul petto amuleti di pelle per proteggersi dal male. Poi la strada asfaltata si è interrotta e non abbiamo più visto alberi. Entrare nell’Ennedi è stato come attraversare un confine che conduce in un luogo sospeso tra mondi.

Le opere d’arte rupestre rivelano i cambiamenti millenari in queste terre. Come il resto del Sahara, un tempo questa zona era verde e costellata di laghi. In passato l’altopiano era molto popolato, ma oggi la presenza di persone è sporadica.

Mentre camminavo tra i monoliti rossi ho notato immagini di elefanti, rinoceronti, giraffe e struzzi, tutti animali che vivevano nell’Ennedi fino a un’epoca relativamente recente. Dopo che l’altopiano è diventato arido, più di seimila anni fa, gli animali si sono spostati a sud o sono morti. Eppure la zona è conosciuta ancora oggi come l’Eden del Sahara, perché piove di più rispetto al resto del deserto. Per questo ci sono uadi (letti di antichi corsi d’acqua nel deserto) e sorgenti permanenti di acqua cristallina. Qui fioriscono piante tropicali e sopravvivono tracce di un passato in cui il clima era più temperato, come i coccodrilli del deserto.

Nel silenzio più totale le stelle splendevano sopra di noi. Ogni giorno mi sono arrampicata sulle rocce per osservare il deserto

Non molto tempo fa gli struzzi nordafricani, le orici dalle corna a sciabola e gli addax pascolavano in queste terre, prima di essere cacciati fino a estinguersi. Ora African parks sta riportando questi animali nell’altopiano. Durante il giorno l’Ennedi può sembrare privo di vita – gran parte della fauna è notturna – ma non è così. Durante il mio viaggio ho trovato aghi di porcospino e ho visto iraci e otarde arabiche in volo. Ho osservato coleotteri zampettare sulla sabbia rovente e gazzelle dorcadi saltare come trampoli a molla dorati. Una volpe del deserto ha attirato la mia attenzione con le sue enormi orecchie dritte. Poi è fuggita via.

Quando siamo arrivati alle soglie dell’Ennedi, Bonomo e io abbiamo abbandonato l’auto e proseguito a piedi per sei giorni, usando i cammelli per trasportare i nostri bagagli. Eravamo accompagnati da due pastori nomadi: Ousmane Adoum e Kalli Youssouf. Camminando ho potuto apprezzare la vastità di quelle terre. Avevo la sensazione di trovarmi ai confini del mondo. Ogni notte ci siamo accampati prima del tramonto, accendendo un piccolo falò su cui i pastori si scaldavano le mani prima di bere tè dolce da piccoli bicchieri. La sera del primo giorno ci siamo accampati all’interno di un anfiteatro naturale di roccia, un’esperienza quasi trascendentale. Nel silenzio più totale le stelle splendevano sopra di noi. Ogni giorno mi sono arrampicata sulle rocce per osservare il deserto fatto di pianure e colline. L’Ennedi è l’equivalente sahariano della Monument valley, negli Stati Uniti, con profili di rocce che s’innalzano ovunque, ma nonostante sia duecento volte più grande non è conosciuto come l’area statunitense. Abbiamo camminato tra colonne di roccia che sembravano rovine perdute, incontrando di tanto in tanto villaggi isolati in cui i nomadi tebu o bidayat hanno costruito case con materiale ricavato dalle palme.

In un villaggio ho conosciuto Maimouna Abdoulaye. Era seduta sulla sabbia fuori di casa sua. Mi ha invitata a entrare e mi ha spiegato che si occupa di curare gli animali, per questo ama le pitture che li ritraggono. “Ma perché a volte sono così in alto e non alla nostra altezza? Forse sono state fatte dai djinn (spiriti) del deserto?”, si chiedeva. Oltre alle raffigurazioni di animali, nell’Ennedi ci sono incisioni a grandezza naturale di uomini e donne. Secondo Bonomo, alcuni petroglifi e pittogrammi che abbiamo ammirato non sono mai stati osservati da nessuno straniero, essendo sparpagliati in un’area così vasta.

Le vacche erano ovunque e ritratte in ogni dimensione. Sono il ricordo delle grandi mandrie che pascolavano qui prima della desertificazione. Il numero di varianti del manto degli animali è straordinario. Gli artisti preistorici hanno dipinto anche guerrieri con scudi, cacciatori in azione e file di danzatori con gioielli e copricapi alti e piumati. Alcune delle figure hanno teste rotonde, enormi e di forma quasi aliena. “Gli esperti ritengono che lo scopo delle pitture fosse mistico”, mi spiega Bonomo. “Per invocare l’aumento del numero di animali e il successo nella caccia”.

Vita quotidiana

Su molte superfici rocciose ho notato stili diversi di pitture. In seguito, quando con Bonomo abbiamo visitato la sede regionale di African parks a Fada, una città di frontiera, ho incontrato l’archeologo Guemona Djimet. “A differenza di altre aree del Sahara, in cui gli insediamenti sono stati abbandonati, nell’Ennedi ci sono sempre stati gli esseri umani, fin dal neolitico”, mi ha spiegato. “Lo dimostra la diversità delle opere d’arte sovrapposte. È questo che rende l’Ennedi così speciale”. Mi ha anche detto che African parks sta cercando di far capire alle popolazioni locali l’importanza storica delle pitture, proponendo agli alunni delle scuole alcuni paralleli con la loro vita quotidiana. “Gli mostriamo dei dettagli: uomini che portano i coltelli sulle braccia esattamente come fanno i loro genitori o danze simili a quelle del popolo kereda, che oggi vive a sud, nel Sahel”.

È un’iniziativa importante, perché le grotte sono ancora usate dagli abitanti della zona come magazzini. “Questa è una riserva, non un parco. Le comunità vivono qui da millenni, quindi dobbiamo collaborare con loro”, mi ha spiegato Djimet.

L’Ennedi è una terra che appare fuori dal tempo. Abbiamo visto antichi bracieri in ferro, scoperto case neolitiche, tombe e vecchie macine di pietra. Con il progresso dell’esplorazione archeologica, l’altopiano potrebbe finalmente rivelare alcuni dei suoi più antichi segreti. ◆ as

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Questo articolo è uscito sul numero 1519 di Internazionale, a pagina 72. Compra questo numero | Abbonati