“Sono come il tristo mietitore”, dichiara Kit Vincent all’inizio di Red herring, mentre si riprende davanti allo specchio e incombe alle spalle della sua ragazza Isobel. “Nessuno vuole parlare della morte, ma sono sicuro che guardandomi tutti se ne ricordano bene”.

Vincent ha 24 anni e di recente gli è stato diagnosticato un tumore al cervello. La prognosi non è incoraggiante: secondo i medici gli restano dai quattro agli otto anni di vita. Questo significa che nella sua famiglia è necessario affrontare conversazioni molto impegnative dal punto di vista emotivo. Già in una situazione normale sarebbe difficile, ma nel caso delle persone vicine a Vincent lo è stato ancora di più, perché il ragazzo ha deciso di filmare tutto. Niente è sfuggito alla sua telecamera: dai discorsi sul fine vita a quelli sul congelamento del seme, fino alle convulsioni. Spesso le persone più legate a lui non sono riuscite a nascondere il proprio disagio per il fatto di essere riprese.

Parlando su Zoom, Vincent ricorda: “Isobel mi diceva: ‘Perché vieni qui con la telecamera? Sto preparando il pranzo. Non possiamo semplicemente sederci un attimo e parlare senza essere ripresi?’. Era una richiesta sensata. Ma se non avessi fatto quelle inquadrature fastidiose non esisterebbe nessun documentario”. In apparenza Red herring , presentato a giugno allo Sheffield DocFest, è la storia del tumore al cervello di Vincent, ma in realtà si spinge molto oltre. Parla della famiglia, di come si reprimono le emozioni e dei modi insoliti in cui si manifesta l’amore. Il documentario si concentra soprattutto sul rapporto tra Vincent e suo padre, Lawrence, che ha reagito alla malattia del figlio immergendosi in vari hobby: bird watching, nuoto nell’acqua gelata, pittura, studio dell’ebraismo. Qualsiasi cosa lo aiutasse a dare una parvenza di senso a quello che stava succedendo.

A un certo punto del film, Vincent fa visita al padre e scopre che ha trasformato una delle stanze della casa in una tenda idroponica per coltivare cannabis, perché aveva letto da qualche parte che avrebbe potuto aiutare il figlio. “Gli ho detto: ‘Ma che stai facendo? Ci farai arrestare tutti!’”, racconta ridendo. È un episodio toccante ma anche divertente. Una specie di scena alla Breaking bad tra padre e figlio.

Vincent è cresciuto a Bournemouth, nel Regno Unito, ed è stato da sempre affascinato dalle telecamere. Dopo aver lasciato la scuola di musica di Brighton, ha cominciato a lavorare come assistente per alcune tv, poi è tornato all’università per studiare antropologia e regia. Insomma non c’è da stupirsi se davanti alla notizia del tumore si sia rivolto subito alla telecamera: “Ho pensato: ‘Ho 24 anni. Cosa ho fatto nella vita? Cosa lascerò quando sarò morto?’”.

Vincent non aveva un piano né la minima idea di quale storia raccontare. Aveva solo bisogno di concentrarsi su qualcosa. “A livello inconscio, credo di aver usato il film come una scusa per parlare di argomenti tabù con i miei genitori. Ho sentito che se non avessi creato un presupposto per fare quelle conversazioni, di sicuro non sarebbero mai avvenute”.

Amore incondizionato

A volte i protagonisti del film di Vincent sembrano chiaramente in imbarazzo, per questo sorprende che abbiano accettato di farsi riprendere. “È uno dei vantaggi del lavorare con i tuoi parenti”, spiega il documentarista. “Puoi costringerli. Se ti dicono di no, puoi rispondere: ‘Ok, tanto io ti filmo lo stesso’. In termini documentaristici, questa strategia può essere discutibile dal punto di vista etico, ma è così che funziona l’amore incondizionato. Mi bastava dire: ‘Se non ti piace, puoi salire in macchina e andartene. Ma, anche se lo fai, potrei decidere di seguirti e riprenderti’”.

A volte le domande di Vincent erano dolorose. Nel documentario c’è una scena in cui chiede a Isobel se troverà un altro compagno dopo che lui sarà morto. In un altro momento va dalla madre e la trova mentre raccoglie pomodori. Lei non ha voglia di fare discorsi profondi, ma lui la rimprovera dicendole che non si sta comportando da madre. La donna sembra indifferente, fino a quando un primo piano racconta una storia diversa. Dal modo in cui contrae il volto è evidente che sta cercando in ogni modo di nascondere il dolore.

“È stato molto difficile”, ammette Vincent. I suoi genitori si sono separati quando era adolescente. “Ho vissuto con mia mamma fino ai sedici anni, ed eravamo molto uniti. Poi il nostro rapporto è diventato più passivo, ci scrivevamo una volta al mese. Ero terrorizzato all’idea di andare da lei, perché sapevo quali domande le avrei fatto. Non sarebbe stata una conversazione con frasi di circostanza come: ‘Vuoi una tazza di tè?’”.

Quello che rendeva le cose ancora più confuse per lui era il fatto che sua madre affrontava quel genere di situazione ogni giorno, perché è un’infermiera e assiste malati terminali. Di recente Vincent ha curiosato in casa della madre e ha notato il programma del funerale di un suo paziente: “Per lei è facile prendersi cura degli altri. Ma quando si è trattato di me non ci è riuscita. Non poteva comportarsi come se io fossi uno dei suoi pazienti. Quindi si è isolata”.

All’inizio Vincent voleva filmare solo suo padre, con cui ha vissuto dopo i sedici anni e con cui ha stretto il legame affettivo più solido. Lawrence non sapeva che tipo di film volesse realizzare il figlio, ma ha accettato di assecondarlo in tutto. In un mondo che sentiva di non poter più controllare, quella era una cosa che poteva far felice il figlio. “Ero contento che mio figlio avesse qualcosa di positivo in cui incanalare il suo trauma”, mi ha spiegato al telefono.

Con il passare del tempo, però, Lawrence ha capito che stava succedendo qualcosa di più profondo. “Durante le riprese abbiamo cominciato ad avere conversazioni che normalmente ci sarebbero risultate difficili. In questo modo il documentario si è sovrapposto alla realtà”. Quell’esperienza ha rafforzato il rapporto? “La risposta dev’essere per forza sì. Non siamo due persone emotivamente problematiche, assolutamente, ma il film ci ha offerto un canale per parlare di cose di cui prima non discutevamo”.

I momenti più drammatici di Red herring arrivano quando la famiglia è in attesa di una chiamata del medico per sapere se il tumore di Vincent sia cresciuto rispetto all’ultima rilevazione. Per quelle riprese il regista ha piazzato la telecamera su un cavalletto e ha attivato il vivavoce, registrando un momento drammatico per ogni paziente. “Mi ha aiutato a distrarmi”, racconta. “Ma ha anche aumentato parecchio la pressione sugli altri”. Una volta, attendendo i risultati, Lawrence sembra avere un malore causato dallo stress. “A volte bisogna aspettare per cinque ore, è impossibile”, racconta. “La tensione e le tossine si accumulano nel corpo in quantità enormi”. Nel film scopriamo che quando Vincent ha ricevuto la prima diagnosi, il trauma è stato così forte che il cuore di Lawrence si è fermato. Mentre Kit e la madre si stavano ancora riprendendo dalla notizia in una stanza dell’ospedale, Lawrence veniva sottoposto a un intervento per impiantare un pacemaker. “So di soffrire di sindrome da stress post-traumatico”, ammette il padre. “Somatizzo, mi sento come se stessi per morire. Sono andato in analisi per imparare a gestire questa condizione, ma non riesco a superarla”.

Nonostante le premesse cupe, Red herring non pecca mai di autocommiserazione. Al contrario, abbonda di umorismo nero e suscita una commozione profonda. Guardandolo, viene da pensare all’amore, al fatto che c’è sempre, anche quando non sappiamo come esprimerlo. “L’ho già visto sette volte”, racconta Lawrence. “Ogni volta provo contemporaneamente due sensazioni: un dolore straziante e un immenso orgoglio”. ◆ as

Biografia

1999 Nasce a Bournemouth, nel Regno Unito.
2015 Dopo aver vissuto con la madre in seguito alla separazione dei genitori, si trasferisce dal padre.
2022 Gli viene diagnosticato un tumore al cervello, e secondo i medici ha dai quattro agli otto anni di vita. Decide di girare un documentario sulla sua malattia.
2023 Il film che ha girato, intitolato Red herring, viene presentato in anteprima al True/False film festival, negli Stati Uniti, e in altri festival nel Regno Unito e in Israele.


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Questo articolo è uscito sul numero 1519 di Internazionale, a pagina 70. Compra questo numero | Abbonati