Nei primi giorni del mio impegno da attivista, per me ‘decolonizzazione’ significava semplicemente conoscere la storia del mio popolo e far tornare a casa i soldati dal fronte in Ucraina. Ora è molto più di questo”, dice l’attivista buriata Viktorija Maladaeva. “Si tratta di dare voce ai popoli indigeni, aiutarli a conquistare maggiore autonomia, e quindi a diventare padroni del loro destino e difensori della loro dignità. Non dobbiamo più sentirci i ‘fratelli minori’ dei russi”.

Già cofondatrice e leader della fondazione Buriazia libera, un’organizzazione non profit a sostegno degli obiettori di coscienza della repubblica di Buriazia, oggi Maladaeva guida Indigenous of Russia, un progetto indipendente per promuovere la cooperazione tra le 190 comunità indigene presenti in Russia. “È stata un’evoluzione naturale. Lavoriamo per rafforzare i rapporti tra l’attivismo indigeno e quello anticoloniale. Non possiamo combattere il sistema coloniale da soli. L’unione fa la forza”, spiega Maladaeva.

Mobilitazione a senso unico

Con più di 23mila follower su Instagram, Maladaeva è uno dei volti più riconoscibili del movimento anticoloniale russo. La traiettoria del suo lavoro riflette quella di tante iniziative di militanza nate dopo l’invasione russa dell’Ucraina e diventate un vasto movimento impegnato ad affrontare le ingiustizie subite dalle popolazioni non russe del paese.

Quando il presidente Vladimir Putin ha ordinato l’invasione dell’Ucraina, nel febbraio 2022, nelle cosiddette repubbliche etniche della Federazione Russa (quelle con maggioranze o consistenti minoranze di popolazioni indigene o non slave) molti temevano che avrebbe cercato di usare i popoli indigeni non slavi e le minoranze come carne da cannone per le sue mire espansionistiche. Una paura che è presto diventata una tragica realtà.

Le uniche cifre diffuse dal ministero della difesa russo sul numero delle vittime di guerra risalgono al settembre 2022. Più tardi, sulla base di informazioni open source i giornalisti di Bbc e Mediazona hanno verificato i nomi di 45mila caduti russi. Secondo un’indagine del sito indipendente Meduza, basata sui registri delle successioni, il numero dei morti dovrebbe invece essere intorno a 75mila.

La maggior parte di loro è di etnia russa, ma tra le minoranze non slave del paese e le popolazioni indigene la mortalità in guerra è molto più alta rispetto al resto della popolazione, come spiega Marija Vjuškova, attivista buriata e ricercatrice presso l’università statunitense di Notre Dame. I dati raccolti da Vjuškova mostrano che i buriati, i tuvani e gli oirati (o calmucchi) sono i tre popoli con il maggior numero di caduti in Ucraina. L’analisi di Vjuškova rivela che il numero dei morti è sproporzionatamente alto anche nelle comunità indigene del nord e dell’estremo oriente della Russia e della Siberia, tra cui ci sono i ciukci e i nenci, in teoria esentati dal servizio militare in base a una legge sui diritti dei piccoli popoli indigeni. “Il problema è sistemico”, dice Vjuš­kova. “Alcuni ricercatori decidono di spiegarlo non come una conseguenza della discriminazione, ma come una questione legata a specificità regionali e disuguaglianze economiche. Ma non dicono mai perché gli indigeni debbano essere più poveri dei russi slavi”.

La concreta minaccia che rappresenta il tentativo di espansione del cosiddetto russkij mir (il mondo russo) per le comunità non slave dei territori della Russia ha stimolato la nascita di decine di organizzazioni per i diritti delle comunità indigene. Questi movimenti, in buona parte composti da attivisti in esilio, inizialmente hanno privilegiato azioni di contrasto alla propaganda di guerra nelle loro regioni d’origine, incoraggiando e assistendo legalmente gli obiettori di coscienza.

Dopo la campagna di mobilitazione lanciata dal Cremlino nel settembre 2022 – che ha colpito in modo sproporzionato le repubbliche etniche – questi gruppi si sono uniti per aiutare gli uomini idonei alla leva a fuggire dal paese. “Quando abbiamo cominciato a evacuare i mobilitati, molti attivisti mi hanno chiesto se avremmo aiutato anche chi era stato nell’esercito e magari era sostenitore di Putin”, ricorda l’attivista Aldar Erendžen. “Gli ho risposto che non mi interessava perché il mio obiettivo era salvare le vite degli oirati”.

Erendžen è il cofondatore di Oirad Jisän, un’associazione culturale del popolo oirata, un gruppo etnico mongolo un tempo nomade che conta circa 650mila persone in tutto il mondo. La comunità che vive nella repubblica della Calmucchia, circa 159mila persone, è meglio conosciuta come “calmucca”, un nome di origine turca imposto dalle autorità russe che molti oirati, tra cui Erendžen, rifiutano.

Secondo l’attivista la recente mobilitazione militare dei popoli indigeni ha riacceso il doloroso ricordo del 1943, quando le autorità sovietiche accusarono ingiustamente gli oirati di collaborazionismo con la Germania nazista e li deportarono in Siberia e altrove, facendone morire almeno ventimila in esilio forzato.

Anche se i sovietici in seguito riabilitarono gli oirati e gli permisero di tornare in quella che nel frattempo era diventata la repubblica di Calmucchia, il trauma della deportazione persiste ancora.

Durante la chiamata alle armi del 2022 Erendžen e i suoi compagni attivisti hanno portato all’estero, soprattutto in Mongolia e Kazakistan, gli oirati che non volevano combattere contro l’Ucraina. Gli hanno trovato un posto dove stare e li hanno aiutati a cercare un lavoro. “Sono contro la guerra perché gli oirati stanno morendo al fronte. Ognuno di loro potrebbe dare un contributo significativo alla nostra cultura, lasciare un segno. Invece muoiono senza un motivo”, dice Erendžen. “Noi non partecipiamo, per esempio, ai battaglioni di volontari che combattono al fianco degli ucraini. È contro i miei princìpi. Significherebbe mandare degli oirati a combattere contro altri oirati: sarebbe una guerra fratricida”.

Opinioni diverse

Non tutti gli attivisti indigeni e anticoloniali condividono la posizione di Erend­žen. Il battaglione Siberia, per esempio, è un’unità all’interno dell’esercito ucraino in cui militano soprattutto combattenti indigeni, tra cui buriati e sacha.

La diversità di opinioni all’interno del movimento anticoloniale riguarda anche le idee sul futuro delle diverse repubbliche. La Free nations league, per esempio, chiede la secessione dalla Russia per i popoli che rappresenta, tra cui baschiri, buriati, erzi, oirati e tatari. Altre fazioni più pacifiste privilegiano la resistenza nonviolenta e si battono per il diritto all’autodeterminazione con metodi democratici, e altre ancora inseguono invece l’idea di ottenere una maggiore autonomia all’interno dello stato federale russo.

Quello che accomuna tutti questi movimenti è un trauma coloniale collettivo: l’esperienza diretta delle politiche del Cremlino, che minacciano l’esistenza delle culture e delle lingue indigene e, come dimostra l’effetto domino dell’invasione dell’Ucraina, di interi gruppi etnici. E infatti è stata proprio la guerra in Ucraina a spingere molti a dedicarsi all’attivismo politico. Ma per tante persone il percorso personale di decolonizzazione era cominciato già da tempo. “Il processo comincia quando si va a Mosca per la prima volta”, spiega Erendžen. “Arrivi lì ed entri in un mondo completamente diverso e scopri che non sei una persona: prima di tutto sei un non russo, un non slavo”.

“Te ne accorgi quando provi ad affittare un appartamento e il padrone di casa ti dice: ‘Non affittiamo a persone come te, solo agli slavi. Probabilmente siete pure musulmani e va a finire che vi mettete a macellare pecore in casa’”, ricorda Erend­žen con una risata, sottolineando che la Calmucchia in realtà è una repubblica a maggioranza buddista.

Le frustrazioni di Erendžen per la discriminazione razziale sono esplose all’inizio della guerra, quando ha visto uno striscione propagandistico con lo slogan “Io sono calmucco, ma oggi siamo tutti russi” nella piazza centrale della sua città, Elista. Insieme al team di 4 Oirad, un marchio di abbigliamento che ha fondato nel 2011, ha subito prodotto una linea di magliette e felpe con cappuccio con la scritta Nerusskij e Nerusskaja (Non russo e Non russa) con gli stessi caratteri usati per le magliette Ja russkij (Sono russo), pensate per i nazionalisti russi. Le magliette sono state un successo e sono diventate un vero simbolo di resistenza.

Razzismo e discriminazioni

L’esperienza di Erendžen rispecchia quella dell’attivista buriata Maladaeva, che si è trasferita dalla sua città, Ulan-Ude, a San Pietroburgo nei primi anni 2000 per frequentare l’università e ha vissuto nella paura di essere attaccata dai nazionalisti russi di estrema destra. “Una volta ci siamo riuniti in un parco per festeggiare un compleanno, eravamo un gruppo multietnico: sacha, kirghizi, buriati, tuvani, calmucchi. E proprio quando stavamo per andarcene un gruppo di estrema destra ci ha attaccati”, racconta Maladaeva, ricordando un incidente nel 2009. “Rammento solo che siamo dovuti scappare. Qualcuno è stato pestato”. Nessuno ha sporto denuncia perché “sarebbe stato inutile”.

Dankhaiaa Khovalyg, scrittrice e autrice di podcast della repubblica siberiana di Tuva, racconta che il razzismo e i controlli degli agenti di polizia per individuare i “migranti illegali” hanno rovinato i suoi anni nella capitale. “Tornavo a Tuva”, ricorda, “e ricominciavo a essere me stessa, poi rientravo a Mosca e provavo un dolore inspiegabile”. Khovalyg è la conduttrice di Govorit respublika (Parla la repubblica), un podcast in cui i residenti delle sei repubbliche asiatiche della Russia – Calmucchia, Buriazia, Tuva, Sacha (Jakuzia), Chakassia e Altai – condividono storie sulla vita quotidiana nelle loro regioni, vicende familiari, tradizioni e aneddoti.

Fatta eccezione per una manciata di progetti, come Aziaty Rossii (Asiatici della Russia) o Komi Daily, la maggior parte dei contenuti sulle repubbliche etniche russe è ancora prodotta da persone di origine non nativa, prevalentemente russi slavi, la cui narrazione manca spesso di sfumature importanti o esotizza i popoli indigeni.

Ognuno dei suoi 15 episodi ha avuto più di 38mila visualizzazioni e oggi Govorit respublika è il podcast di maggior successo tra quelli realizzati da minoranze etniche in Russia. “Abbiamo creato una base di contenuti che per la prima volta raccontano in modo onesto le voci e le storie di chi vive in queste repubbliche”, afferma Khovalyg. “L’anno scorso ho anche avviato un corso di formazione su come sviluppare un podcast. I contenuti su di noi e fatti da noi sono ancora troppo pochi”.

Khovalyg considera la trasmissione più di un semplice podcast: per lei il progetto è “una piattaforma unificante” che promuove la solidarietà tra le comunità asiatiche della Russia, illustrando tradizioni, storie e traumi coloniali condivisi.

L’unica possibilità di salvezza

Mentre la guerra in Ucraina entra nel terzo anno, senza che se ne possa intravedere la fine, la visione di Khovalyg è la stessa di molti altri nel movimento anticoloniale. Diversi attivisti con cui abbiamo parlato affermano di essersi concentrati sull’insegnamento delle lingue native che rischiano di scomparire. Raccontano anche di essersi impegnati a preservare la storia di questi gruppi etnici, che Mosca aveva riscritto con il chiaro obiettivo di mascherare secoli di espansionismo territoriale. “Non stiamo combattendo contro il popolo russo, ma contro il sistema coloniale in cui i russi sono considerati ‘la nazione costitutiva dello stato’, un sistema che discrimina le nostre lingue e le nostre culture”, spiega Maladaeva.

Insieme a singoli attivisti e a organizzazioni di Sacha, Calmucchia, Tuva, Tatarstan, Baschiria, Cecenia, Komi e altre repubbliche autonome, Maladaeva ha dato il via a diverse iniziative educative uniche nel loro genere. Lo scorso settembre la rete ha tenuto la sua prima “conferenza anticoloniale”, che ha riunito attivisti, blogger, operatori dell’informazione e ricercatori di origine nativa per discutere il futuro sviluppo delle comunità indigene e delle minoranze in Russia.

L’artista e militante femminista udmurta Palad’d’a, marzo 2022

A ottobre, invece, nel giorno in cui l’ong Memorial, la principale associazione russa per i diritti umani, teneva il suo evento annuale per commemorare le vittime delle repressioni dell’era sovietica, gli attivisti decoloniali e i loro sostenitori di tutto il mondo si sono sintonizzati per una maratona online di sei ore in cui sono stati letti i nomi delle persone di origine indigena e di minoranze etniche perseguitate durante l’epoca sovietica.

La dimostrazione più recente di unità tra gli attivisti indigeni è stata l’organizzazione di manifestazioni in tutto il mondo a sostegno dei residenti della Baschiria, dove un’ondata di repressioni istigate dal Cremlino ha messo a tacere le proteste a sostegno dell’attivista Fayil Alsynov dopo il suo arresto: in tutta Europa, negli Stati Uniti e nel Regno Unito ai baschiri si sono uniti tatari, russi, ucraini, sacha, armeni, daghestani e altri. “Se un popolo affronta un’ingiustizia di tale portata, allora tutti gli altri dovrebbero correre in sua difesa e aiutare le persone perseguitate. Questa è la vera ragione dell’esistenza del movimento anticoloniale”, afferma Maladaeva. “Sto cercando di cambiare le cose, di dare voce ai popoli indigeni, di promuovere l’ottica decoloniale. Perché è questa l’unica possibilità di salvezza per la Russia”. ◆ ab

The Beet è una newsletter del sito d’informazione indipendente russo Meduza, in esilio a Riga, in Lettonia.

Verso il voto

◆ Tra il 15 e il 17 marzo 2024 più di 110 milioni di russi sono chiamati alle urne per le elezioni presidenziali. I candidati ammessi sono quattro: il presidente Vladimir Putin, al potere del 2000; Nikolaj Charitonov, del Partito comunista; Leonid Slutskij, del Partito liberaldemocratico, nazionalista e di estrema destra; Vladislav Davankov, del partito centrista Nuova gente. L’unico candidato davvero indipendente, critico verso il regime e la guerra, Boris Nadeždin, non potrà partecipare perché la commissione elettorale non ha ritenuto valide le firme raccolte per la registrazione. Le operazioni di voto sono già cominciate il 26 febbraio nelle zone più remote della Russia e nelle quattro regioni ucraine occupate e dichiarate annesse da Mosca. Gli osservatori internazionali hanno previsto che il voto non sarà libero e regolare. Putin dovrebbe essere rieletto con più del 65 per cento dei voti. Tass, Bbc


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Questo articolo è uscito sul numero 1554 di Internazionale, a pagina 40. Compra questo numero | Abbonati