All’aeroporto del Cairo, in Egitto, il sole tramonta sulla pista e l’aereo della Yemenia, la compagnia nazionale yemenita, non decolla. Nella cabina alcune donne anziane, in partenza per Aden, sistemano dei cuscini dietro le loro schiene doloranti. Molte sono malate. Le loro famiglie hanno venduto una macchina o dei gioielli per pagargli il biglietto e le cure – una dialisi, una chemioterapia – a cui è difficile accedere nel loro paese, in guerra dal 2015. Sull’aereo alcuni uomini s’indignano con gli altri passeggeri: “Il cielo dello Yemen non appartiene più agli yemeniti!”.

Un guasto imprevisto ha fatto perdere la finestra temporale per il decollo concessa dall’esercito saudita e ha inchiodato l’aereo a terra per sette ore. Da sette anni, da quando il regno saudita combatte contro i ribelli huthi dello Yemen, è Riyadh a controllare lo spazio aereo del paese. Ogni ingresso o uscita dipende da questa potenza, fonte inesauribile di umiliazioni per gli yemeniti. All’atterraggio ad Aden, verso mezzanotte, sui telefoni arriva un messaggio: “La Saudi telecom company vi augura un piacevole soggiorno in Arabia Saudita”. Nel 2015 la città portuale yemenita ha pagato un pesante tributo nei combattimenti che hanno permesso alla coalizione guidata da Riyadh di cacciare gli huthi. Ovunque ci sono macerie degli edifici bombardati.

Zona grigia

Eppure, Aden ha creduto di poter ritrovare la grandezza di un tempo. L’ex capitale dello Yemen del Sud, che negli anni cinquanta del novecento era il secondo porto più importante del mondo in termini di traffico, ha sognato di mettere fine alla sua decadenza. Tra i suoi “liberatori”, un movimento politico-militare – il Consiglio di transizione del sud (Cts), finanziato da Riyadh e dal suo alleato, gli Emirati Arabi Uniti – prometteva di resuscitare lo stato indipendente, ex paese satellite dell’Unione Sovietica, nato nel 1967 dopo la partenza dei coloni britannici e riunificato nel 1990 con il resto dello Yemen.

Il Cts prometteva di liberare questa parte del paese dal giogo del nord, dove gli huthi impongono il loro potere, occupando la capitale Sanaa. Questi ribelli sciiti, alleati dell’Iran, sono i grandi vincitori della rivoluzione del 2011, la “primavera” yemenita che ha travolto l’ex presidente Ali Abdullah Saleh, al potere dal 1990 al 2012. Nei territori da loro controllati, gli huthi stanno costruendo un regime totalitario impegnato in una guerra continua, schiacciando ogni opposizione e coltivando il culto dei martiri nella popolazione.

Al confronto Aden doveva essere, con l’aiuto dei sauditi, la vetrina dello Yemen libero. Ma la città marcisce in una zona grigia. Della “capitale temporanea” Aden ha solo il nome. Il governo sostenuto da Riyadh e riconosciuto dalla comunità internazionale, che ci ha stabilito la sua sede nel 2015, è un oggetto intrigante: né morto né vivo. Le autorità non sono in grado di garantire i servizi di base e di controllare i signori della guerra. Quanto alla passione degli abitanti di Aden per l’indipendenza, sta scomparendo. “Questa guerra è cominciata con la contrapposizione tra due schieramenti: gli huthi e il governo. Oggi ce ne sono almeno cinque. Tornate l’anno prossimo, e ce ne saranno ancora di più”, prevede Fathi bin Lazraq, direttore del quotidiano Aden al Ghad. Nel cuore della città, le forze della guerra civile sono all’opera in ogni quartiere, in ogni clan.

Studenti e insegnanti

Per rendersi conto di questo declino, si può cominciare dall’università, con le sue piante di pepe dalle foglie fiaccamente agitate dalla brezza. Le studenti si attardano dopo le lezioni in un’area recintata in cui si sentono al sicuro. Formano piccoli gruppi neri. Quasi tutte indossano il niqab, il velo che lascia intravedere solo gli occhi. Il loro conservatorismo non smette di stupire le insegnanti, che spesso si sono formate nell’ex blocco sovietico. L’orizzonte delle studenti si è ristretto alla loro città, al loro quartiere, ma per seguire i corsi fanno sforzi notevoli. Si fanno arrivare dal Cairo i pdf dei libri, troppo costosi qui, su chiavette usb. Registrano le lezioni sui telefoni per poterle rivedere durante i blackout, che d’estate durano diciotto ore al giorno. Chi non ha accesso a una buona connessione internet riceve dalle insegnanti le lezioni spezzettate in brevi messaggi vocali.

Dopo la “liberazione” della città nel 2015, studenti e professori hanno discusso il futuro del sud, del federalismo, dell’indipendenza. Bisognava separarsi dal nord? Seguendo quale processo?

In seguito hanno abbassato le loro aspettative. “La passione si è affievolita. La nostra situazione è miserabile. Ogni quartiere dipende da un’autorità, da un signore della guerra. È voluto? Quello che so con certezza è che di fatto viviamo in Arabia Saudita. Il nostro governo qui non esiste”, si rammarica Raga Salem. Preside della scuola per infermieri, Salem ha studiato in Francia e si sorprende quando sente qualcuno rimpiangere l’ex presidente Saleh, che aveva tormentato Aden prima di essere ucciso dagli huthi nel 2017.

Qasem Husam, giovane direttore del dipartimento di francese alla facoltà di lingue, vorrebbe lasciare il paese. Si lamenta del poco che può permettersi con il suo stipendio (l’equivalente di 275 euro al mese) e di quanto costi il riso al mercato di Crater, il suo quartiere. Non riconosce più “l’atmosfera e la lingua della sua città, tanto sono numerosi gli sfollati dal resto del paese”. Dal 2015 la popolazione di Aden è triplicata, con due milioni di profughi provenienti da tutto lo Yemen.

Nel cuore del vulcano

Nel quartiere di Crater la storia di Aden è visibile ovunque. L’area è piena di vecchie case coloniali ed edifici modernisti dell’epoca socialista, un patrimonio in pericolo, ma fonte di orgoglio per gli abitanti. Intrappolato nel cuore di un vulcano spento, Crater sopravvive, diviso e ambito. La miseria e le armi sono onnipresenti.

Su una stretta lingua di terra che conduce alla penisola di Sira, Abdu al Hadem e i suoi compagni si riparano dal sole di mezzogiorno sotto il muro della capitaneria. Sono tutti sulla trentina. Originari di Al Hodeida, una città nel territorio controllato dagli huthi, stanno qui sei mesi all’anno per pescare a bordo di una barca di legno blu che dondola sull’acqua melmosa del porto. Negli ultimi due mesi non hanno pescato quasi nulla. Il loro datore di lavoro gli manda a malapena il necessario per mangiare. Usano la metà dei soldi per pagarsi il qat, una pianta eccitante che masticano nel pomeriggio, e che non fa sentire la fame.

Questi uomini del nord sono guardati con sospetto dagli abitanti di Aden. “Abbiamo paura di questa città”, dice Abdu al Hadem. Lui e i suoi compagni dormono al porto. Non si avventurano mai oltre il mercato del pesce dall’altra parte della strada, dove lavora Yazir Mohammed Ibrahim, 52 anni. L’inflazione ha impoverito la popolazione e pochi hanno i mezzi per comprare i tonni dalla carne rossa che Ibrahim allinea sul suo banco. Dovrebbero tirare fuori un mazzo di riyal yemeniti alto come un mattone per pagare una seppia gocciolante o un cartoccio di gamberi enormi.

Il quartiere Crater ad Aden, il 24 febbraio 2022 (Sam Tarling, Sanaa Center for Strategic Studies)

Anche senza entrate, dal 2016 il governo yemenita continua a stampare banconote, che oggi valgono meno delle cartine per sigarette. Gli huthi le rifiutano nelle zone sotto il loro controllo.

Il 7 aprile 2022, dopo aver convinto i ribelli a firmare una tregua di due mesi, Riyadh ha imposto al principale responsabile di questa crisi finanziaria di dimettersi. Il presidente in esilio, Abd Rabbo Mansur Hadi, ormai screditato, si è fatto da parte in favore di uno strano consiglio presidenziale composto da otto persone, metà delle quali del sud, che dovrà guidare il paese in un periodo di transizione. È un motivo di speranza. Subito dopo, il regno saudita e gli Emirati Arabi Uniti hanno promesso un aiuto da tre miliardi di dollari (2,7 miliardi di euro), di cui due miliardi destinati alla banca centrale, per stabilizzare la moneta.

In attesa del miracolo, Yazir Mohammed Ibrahim non esce più di notte: “Gli uomini armati sono ovunque, è impossibile sapere da chi prendono ordini”. Crater è pieno di persone che indossano uniformi diverse. Il quartiere è conteso: nell’ottobre 2021 il principale signore della guerra, Ahmed Mohammed Abdu al Salwy, detto “imam Al Nubi”, è stato cacciato dalle forze del Cts. La città fatica a riprendersi da questa ennesima guerra locale.

Al Nubi è un fuorilegge, figlio di un artigiano, ex predicatore di una moschea. “È pelle e ossa, triste ed esausto”, dice una persona del quartiere, che lo ha visto crescere in via Al Tawilah, e che preferisce restare anonima. Al Nubi è anche un grande consumatore di qat, soggetto a bruschi sbalzi d’umore. In tempo di pace lavorava nel servizio di sicurezza del partito Al Islah, affiliato all’organizzazione dei Fratelli musulmani. Da vent’anni questi islamisti sono forti a Crater, ma alcuni abitanti ancora li associano agli abusi del vecchio regime di Saleh e al saccheggio di Aden da parte dell’esercito del nord e dei suoi miliziani islamisti durante la guerra civile del 1994.

Il ritorno dei combattimenti nel 2015 ha fatto di Al Nubi un eroe locale. In quel periodo ha contribuito a cacciare gli huthi dal quartiere, impadronendosi di una base militare – il campo 20 – di cui il governo gli ha affidato la responsabilità. Nel 2017 si è unito ai ranghi del Cts, in cui suo fratello Mukhtar è un ufficiale importante.

Ma Al Nubi si è rivelato incontrollabile. Nel 2018 i suoi miliziani hanno sparato davanti agli uffici della banca centrale. Reclamavano la loro parte di un convoglio di banconote appena stampate e spedite dalla Russia. Le autorità hanno lasciato correre. Con grande opportunismo, Al Nubi “ha venduto i suoi servizi a entrambe le parti nei combattimenti che hanno permesso al Cts di cacciare il governo di Aden nel 2018 e nel 2019”, afferma Hussam Radman, esponente del Sanaa center, un istituto di ricerca yemenita che ha contribuito a organizzare il nostro viaggio in città.

Gli Emirati e l’Arabia Saudita hanno dissuaso i separatisti dal proclamare l’indipendenza dello Yemen del Sud. Senza istituzioni né capacità, non sarebbe stata riconosciuta da nessun paese, e i suoi alleati non avevano intenzione di finanziare quest’avventura. Aden è rimasta sospesa a metà strada.

Il caos ha avvantaggiato uomini come Al Nubi, “instabile e violento, responsabile di sparizioni forzate di attivisti sul suo territorio”, aggiunge Radman, che per averlo criticato pubblicamente nel 2017 è stato detenuto, torturato con scariche elettriche e costretto a subire una finta esecuzione. È stato l’attacco a un commissariato di polizia o una questione di soldi che ha finito per provocare la caduta del signore della guerra? O i suoi presunti legami con Riyadh? Nessuno sa cos’abbia spinto il Cts a cacciarlo. Ma dopo due giorni di combattimenti, nell’ottobre 2021 Al Nubi è partito per il Cairo, portando via una parte del bottino di guerra, in attesa di tempi migliori.

Il suo esilio non ha messo fine alla deriva di Crater. “Le difficoltà della vita quotidiana creano intolleranza”, afferma Bahia al Saqqaf, direttrice dell’Alf ba, una fondazione impegnata nel disarmo dei giovani della città. “Il tipico abitante di Aden non pregava, non digiunava e bestemmiava, ma dal 2015 tutto è cambiato”, si rattrista. Al Saqqaf segue una dottrina sufi e appartiene a una famiglia che si stabilì a Crater nel settecento. È molto orgogliosa di questi luoghi la cui storia cosmopolita svanisce poco a poco: “Non ci sono più moschee sufi a Crater. Il farmacista indù di via Ghaida-Zafara, generoso e rispettato, è andato via nel 2017. Le famiglie sciite erano state cacciate dai loro vicini nel 2015 perché si pensava sostenessero gli huthi”. Al posto di una delle loro husseiniyeh (un luogo di culto sciita), distrutta dai bombardamenti del 2015, è stata costruita una moschea, chiamata Al Sunna, la via sunnita, un riferimento alla corrente maggioritaria ad Aden.

Come un plebiscito

Al Saqqaf non sa dire quando ha smesso di credere alla rinascita della sua città. Dalla guerra civile del 1994 ha sventolato solo la bandiera del sud. “Ma oggi non credo più all’indipendenza”, sospira. I dirigenti del Cts hanno ingannato Aden, afferma. Per dimostrarlo racconta la gloriosa partita di calcio di una sera del dicembre 2021, quando la nazionale giovanile ha vinto ai rigori la finale della coppa dell’Asia orientale contro l’Arabia Saudita. Quegli adolescenti, che hanno trascorso la maggior parte della loro vita in guerra, hanno regalato una notte di gioia al paese: “Tutta Aden è scesa spontaneamente nelle strade, alzando la bandiera dello Yemen unificato. Le persone gridavano ‘Viva lo Yemen!’. È quanto di più simile a un referendum ci sia capitato. E i dirigenti del Cts non hanno potuto impedirlo, questo li ha fatti impazzire”.

Un referendum? Il Cts non vuole farlo. “I suoi leader sono contrari a qualsiasi elezione. Hanno promesso troppo e si sono limitati a sostituire un’autorità corrotta con un’altra. Gli abitanti di Aden vogliono ancora l’indipendenza, ma non si fidano più di loro”, sostiene Bashrahil Hisham Bashrahil, proprietario del grande quotidiano yemenita Al Ayyam, fondato da suo padre ad Aden nel 1958. Bashrahil è un esteta, un cinico cronista della decadenza della sua città. Ha difeso il capo dei separatisti, Aidarous al Zubaidi. Lo riteneva una persona virtuosa, onesta. Si è dovuto ricredere. In un recente editoriale ha chiesto al Cts di sostituirlo.

Al Jadi vuole essere rassicurante: lo stato rinascerà solo dopo la fine della guerra e garantirà il rispetto delle diverse sensibilità

Da parte loro i dirigenti ritengono che la popolazione si sia già espressa. “Dal 2007 una decina di manifestazioni ha radunato ciascuna più di un milione di persone a favore dell’indipendenza”, ricorda uno dei capi del Cts, Fadl al Jadi, secondo cui quelle manifestazioni hanno il valore di un plebiscito. È lui a mandare avanti le cose in assenza di Al Zubaidi, che trascorre buona parte dell’anno negli Emirati Arabi Uniti.

Al Jadi riceve gli ospiti a Tawahi, l’ex quartiere coloniale dove si trovavano i magazzini, in uffici che si affacciano su una caletta dalle acque cristalline. Un murale dello sceicco Zayed bin Sultan al Nahyan (1918-2004), il fondatore degli Emirati, domina la baia. I posti di blocco che impediscono l’accesso sono controllati da due milizie del Cts rivali tra di loro, finanziate una dagli Emirati e l’altra dai sauditi.

Più in là, i separatisti si sono impadroniti della spiaggia privata detta dell’Elefante, che ai tempi della colonia britannica fu un luogo di ritrovo della borghesia bianca di Aden, e poi proprietà dell’esercito nazionale yemenita. Alcuni ufficiali del Cts passano le giornate masticando qat in piccoli chalet di legno arroccati sul fianco della collina. Le famiglie dei soldati vengono qui dalle loro roccaforti nelle province vicine di Dhalaa e di Lahij per rilassarsi.

Stormo di corvi

I nuovi padroni della città hanno fatto molta strada dal 2015. Con la benedizione di Riyadh, il 7 aprile Aidarous al Zubaidi, vicino al principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, è entrato a far parte del consiglio presidenziale. Con lui c’è anche un capo delle milizie del sud, uno dei salafiti armati e finanziati dagli Emirati.

Le squadre di Al Zubaidi sembrano però incapaci di amministrare una città, figurarsi uno stato. Il suo assistente Al Jadi è il prototipo del burocrate. Ex primo segretario del Partito socialista di Al Dhalea, poi governatore della provincia, da cui provengono molti quadri del Cts, Al Jadi tiene una pistola dietro la schiena, legata alla cintura. Travolge i suoi interlocutori con una retorica inesauribile, che li riporta agli anni ottanta, ai tempi della Repubblica democratica popolare dello Yemen.

Parla del “ritorno dello stato” come di una cosa scontata. Ma non è in grado di spiegare come riporterebbe in vita questo corpo morto ormai da tempo. Le province vicine di Shabwa e dell’Hadramaut non sono convinte dal suo progetto. Ricordano ancora le lotte tra clan che hanno lacerato il sud negli anni ottanta, e da cui Shabwa uscì sconfitta.

Al Jadi ignora questi dettagli. Vuole essere rassicurante: lo stato rinascerà solo dopo la fine della guerra e garantirà il rispetto delle diverse sensibilità. Lo prova il fatto che il segretario generale del movimento e governatore di Aden, Ahmed Lamlas, è originario proprio di Shabwa. Lamlas è un uomo conciliante. La città apprezza i suoi sforzi amministrativi ma li considera inefficaci. Non ha legami tribali forti, nessuna milizia a libro paga. Non ha i mezzi per competere con i signori del Cts, che esercitano un racket sul porto e sui convogli di merci in transito da Aden verso i territori degli huthi.

Da sapere
Fazioni rivali

Gennaio 2011 Sull’onda delle primavere arabe, nello Yemen sono organizzate delle proteste contro il presidente Ali Abdullah Saleh, al potere da 33 anni. A novembre Saleh lascia il posto al suo vice, Abd Rabbo Mansur Hadi.

Settembre 2014 I ribelli sciiti huthi, originari del nord del paese e seguaci dello zaidismo, una variante dell’islam sciita, entrano nella capitale Sanaa e a gennaio del 2015 rovesciano il governo di Hadi.

Marzo 2015 Sostenuti dalle truppe di Saleh, gli huthi lanciano un’operazione per conquistare il sud del paese. Hadi scappa in Arabia Saudita. Il 26 marzo Riyadh avvia una campagna militare contro gli huthi. A luglio Aden torna nelle mani delle forze governative.

Marzo 2017 Le Nazioni Unite descrivono quella nello Yemen come la peggiore crisi umanitaria del mondo.

Dicembre 2017 Saleh è ucciso in uno scontro con gli huthi.

10 agosto 2019 Il Consiglio di transizione del sud (Cts), un movimento secessionista sostenuto dagli Emirati Arabi Uniti, conquista Aden dopo quattro giorni di scontri con le forze governative.

22 giugno 2020 La coalizione militare guidata da Riyadh annuncia un cessate il fuoco tra il governo yemenita e i separatisti del sud.

2 aprile 2022 Entra in vigore una tregua di due mesi concordata da Arabia Saudita e huthi, con la mediazione dell’Onu.

7 aprile Hadi trasferisce i suoi poteri a un consiglio composto da otto persone e guidato dall’ex ministro Rashad al Alimi.

19 aprile Si svolge ad Aden la cerimonia d’insediamento del consiglio presidenziale.


Se i capi delle milizie si ripagano così è in parte perché la coalizione guidata da Riyadh non è molto generosa. Dal 2020 gli Emirati hanno ritirato la maggior parte delle loro truppe e dosano con parsimonia il denaro che distribuiscono ai loro alleati yemeniti. Quanto ai sauditi, “la loro attenzione ai temi dello sviluppo è debole. Per loro, lo Yemen è una questione militare”, afferma Al Jadi. In ogni caso Riyadh cerca di far convivere le forze contrapposte e impone al Cts di lasciare che ministri e alti funzionari svolgano più o meno liberamente la loro attività.

Main Abdelmalek Said, capo del governo yemenita dal 2018, vive sotto uno stormo di corvi gracchianti, arroccato su un promontorio di basalto nella parte orientale di Aden, nella residenza presidenziale, ex proprietà dei coloni e commercianti francesi Besse. La famiglia di Said resta prudentemente al sicuro in Egitto. I suoi poteri sono limitati. Per prima cosa ha problemi di bilancio: anche lui critica i pochi soldi ricevuti da Riyadh, da cui aspetta i miliardi promessi. “In teoria dovrebbe andare tutto a pezzi. Da due anni l’Arabia Saudita non finanzia il bilancio”, osserva. “L’aiuto che dà per pagare l’elettricità di Aden lo consumiamo immediatamente. Viviamo sulle sabbie mobili”.

Il regno saudita è abituato a queste lamentele. Nella sua guerra contro gli huthi ha provato di tutto: bombardamenti, negoziati, tentativi di corromperli. Non ha funzionato niente. Ormai Riyadh si accontenta di mettere in sicurezza la sua frontiera e di presentare questo conflitto al mondo come una questione locale irrisolvibile, in cui il regno sarebbe solo un volenteroso mediatore.

Per questioni d’immagine, asfalta qualche strada ad Aden. Ha costruito quattro scuole e ristrutturato un ospedale con un reparto per la cura delle malattie cardiache. L’edificio sembra un’astronave all’avanguardia appena atterrata in una terra inospitale. Tutto il contrario del fatiscente ospedale pubblico di Al Jumhuriya, al quale gli abitanti di Aden si rivolgono solo come ultima spiaggia. Qui lavora come infermiera Ruwaida Qassem, che con il suo stipendio di settemila riyal yemeniti (28 euro) al mese sfama la sua famiglia e i genitori. Qassem riassume così il suo lavoro: “Spiego ai pazienti che non abbiamo denaro per dargli le medicine”.

In fuga dal nord

Per chi può permetterselo, la tentazione dell’emigrazione è forte. Chi si è deciso vive in Egitto, soprattutto al Cairo – dove c’è una comunità di quasi un milione di yemeniti –, in Giordania, in Libano, in Arabia Saudita. Il giornalista Bashrahil Hisham Bashrahil stima che da Aden se ne siano andate seicento famiglie dal 2015.

Eppure una gioventù istruita e politicizzata conserva ancora la speranza di costruirsi qui una vita dignitosa, all’ombra della protezione saudita. Una dimostrazione, anche se piccola, che la città ha un futuro. Questi giovani arrivano dal nord, da Sanaa. Fuggono dai bombardamenti di Riyadh sulla capitale. Preferiscono il caos di Aden ai soprusi degli huthi, che incarcerano gli attivisti per i diritti umani, ricattano gli esponenti delle organizzazioni non governative e gettano nello sconforto i rivoluzionari del 2011.

A febbraio Faryal al Naseem, nata ad Aden e dipendente del Sanaa center, ha fatto arrivare dalla capitale il suo futuro marito, Ahmed Mohammed, un fotografo. Hanno poco più di vent’anni, e si sono corteggiati su Facebook prima di incontrarsi ad Aden e scoprire di essere innamorati. “I miei genitori temevano che lui fosse a favore degli huthi, quasi non volevano che lo vedessi”, ricorda Al Naseem.

Prima che arrivasse il fidanzato, quando ha trovato l’appartamento in cui avrebbero vissuto insieme, si è sentita in dovere di rivelare le origini di Mohammed al proprietario di casa. Inizialmente lui, sostenitore del Cts, ha rifiutato l’inquilino del nord. C’è voluta una trattativa perché permettesse alla famiglia del giovane, venuta per il matrimonio, di entrare nell’edificio. Al Naseem ha tenuto duro e ha vinto la sua battaglia. I due giovani si sono sposati all’inizio della primavera. E sono rimasti lì. ◆ fdl

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Questo articolo è uscito sul numero 1460 di Internazionale, a pagina 68. Compra questo numero | Abbonati